T9 - L’arrivo a Itaca

T9

L’arrivo a Itaca

  • Tratto da Odissea, libro XIII, vv. 187-206, 217-252; libro XVI, vv. 172-219; libro XVII, vv. 290-327

Superata l’isola delle Sirene, Odisseo e i compagni affrontano il duplice pericolo costituito dal mostro Scilla – che con le sue sei teste di cane, nelle cui bocche spuntano tre file di denti, ghermisce alcuni marinai – e da Cariddi, altra gigantesca creatura marina che si trova sullo scoglio contrapposto a quello di Scilla. Cariddi risucchia e rigetta l’acqua del mare, creando vortici pericolosi per la navigazione.

Approdati finalmente sull’isola di Trinacria, i compagni, stremati dal viaggio e dalla fame, si nutrono delle vacche del dio Sole. Il gesto sacrilego determina l’ira del dio, che si vendica suscitando una tempesta appena essi riprendono il mare. Unico superstite, Odisseo giunge all’isola di Ogigia, dove rimane per sette anni.

L’eroe termina così il racconto delle sue peripezie e ottiene dal popolo dei Feaci una nave, con cui può finalmente tornare a Itaca.

La patria

Lasciata Scheria, la navigazione si svolge mentre Odisseo dorme profondamente. I Feaci lo lasciano ancora addormentato sulla spiaggia di Itaca, assieme ai doni preziosi che ha ricevuto da Alcinoo. L’eroe si risveglia sulla spiaggia quando essi hanno già ripreso il mare (libro XIII).

E intanto si svegliava Odisseo luminoso,

addormentato sopra la terra dei padri; e non la conobbe,

da tanto n’era lontano: e poi nebbia gli versò intorno la dea,

190 Pallade Atena, figlia di Zeus, per farlo

invisibile e tutto svelargli, sicché non prima

lo conoscesse la sposa, e i cittadini e gli amici,

che avesse fatto pagare ai pretendenti il sopruso.

Per questo tutte le cose sembravano estranee al sire,

195 i lunghi sentieri, i comodi porti,

le rocce inaccessibili e gli alberi floridi.

Balzò in piedi e là fermo guardava la patria,

e ruppe in un gemito e si batteva la coscia

a mano aperta, e singhiozzava e diceva:

200 «O povero me, di che uomini ancora arrivo alla terra?

forse violenti, selvaggi, senza giustizia,

oppure ospitali, e han mente pia verso i numi?

e tutte queste ricchezze dove le porto? dove io stesso

andrò errando? era meglio restar tra i Feaci,

205 laggiù; forse a un altro dei potenti signori

sarei venuto, che m’ospitasse e mi desse accompagno».

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Odisseo, ancora smarrito, vuole verificare se i Feaci gli hanno lasciato i doni promessi. L’incontro con Atena, apparsa nelle vesti di un giovane pastore, lo rinfranca e, soprattutto, gli conferma che la terra in cui è approdato è davvero Itaca.

Così dicendo, i lebeti e i bellissimi tripodi

contava, e l’oro e le belle vesti tessute:

ma nulla ebbe a rimpiangere. Solo la patria piangeva,

220 trascinandosi lungo la riva del mare urlante,

con molti singhiozzi; allora Atena gli venne vicino,

simile a un giovane nel corpo, a un pastore di greggi,

delicato e gentile come sono i figli dei re;

un doppio mantello ben lavorato intorno alle spalle,

225 e sotto i piedi robusti sandali aveva e in mano una picca.

Gioì Odisseo di vederla, e incontro le andò,

e a lei rivolto parole fugaci diceva:

«O caro, poiché te per primo trovo in questo paese,

salute! e tu pure non farmiti incontro con animo ostile,

230 ma salva queste mie cose, salva anche me: come un dio

ti prego, mi prostro alle tue care ginocchia.

E questo rispondimi vero, perché lo sappia:

che paese? che terra? Che uomini vivono qui?

È un’isola tutta visibile, oppure è una punta,

235 protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?»

E gli rispose la dea Atena occhio azzurro:

«Sciocco tu sei straniero, o vieni da ben lontano,

se questa terra mi chiedi. Davvero non è

così oscura, ma la sanno moltissimi,

240 sia quanti stanno verso l’aurora e il sole,

sia quanti vivono in fondo verso l’ombra nebbiosa.

È aspra, e non adatta ai cavalli;

non è troppo magra, ma non è molto vasta.

Pure c’è grano infinito, c’è vino

245 e sempre pioggia la bagna e guazza abbondante.

È buona nutrice di capre e bovi: e una selva

c’è, d’ogni specie di piante: pozzi perenni vi sono.

Sì, straniero, il nome d’Itaca fino a Troia è arrivato,

ch’è ben lontana, – dicono – dalla terra d’Acaia!»

250 Disse così: godette Odisseo costante glorioso,

e salutò la sua terra paterna, come gli ebbe parlato

Pallade Atena, la figlia di Zeus egìoco.


Omero, Odissea, libro XIII, vv. 187-206, 217-252, trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989

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Telemaco

Atena invita Odisseo a recarsi dal porcaro Eumeo, che durante la sua assenza da Itaca gli è rimasto fedele (libro XIII). Dopo aver accolto lo straniero, trasformato da Atena in un vecchio mendicante per evitare un immediato riconoscimento, Eumeo gli racconta le difficoltà in cui versa l’isola a causa dell’assenza del signore, dato per morto durante il ritorno dalla guerra di Troia (libro XIV). Nel frattempo Atena si è recata a Sparta a sollecitare il rientro di Telemaco e a metterlo in guardia da un agguato teso dai Proci al suo ritorno (libro XV). Sbarcato a Itaca e sfuggito alle insidie dei pretendenti, Telemaco si reca alla capanna di Eumeo seguendo le indicazioni della dea. Qui incontra il mendicante, al quale offre aiuto. Mentre Eumeo si allontana per informare Penelope del rientro del figlio, Atena restituisce l’eroe alla sua bellezza e gli ordina di rivelarsi a Telemaco (libro XVI).

Disse, e con la verga d’oro lo sfiorò Atena:

subito un manto ben pulito e una tunica

gli vestì indosso, gli diede giovinezza e prestanza;

175 d’un tratto fu bruna la pelle, le guance si stesero,

nera divenne intorno al mento la barba.

E fatto questo, scomparve: Odisseo

nella capanna rientrò; senza fiato restò il figlio a vederlo,

distolse gli occhi, pauroso che si trattasse d’un nume,

180 e a lui rivolto disse parole fugaci:

«Ospite, ben diverso m’appari ora da prima:

hai altre vesti e non è uguale l’aspetto.

Tu sei un nume, di quelli che il cielo vasto possiedono.

Ah, siici propizio, che ti facciamo offerte gradite

185 e doni d’oro ben lavorato: risparmiaci!»

E gli rispose Odisseo costante, glorioso:

«Non sono un dio, no: perché m’assomigli agli eterni?

Il padre tuo sono, per cui singhiozzando

soffri tanti dolori per le violenze dei prìncipi».

190 Così dicendo baciò il figlio e per le guance

il pianto a terra scorreva: prima l’aveva frenato.

Telemaco – poiché non ancora credeva che fosse il padre –

gli disse di nuovo, rispondendo, parole:

«No, tu non sei Odisseo, non sei il padre mio, ma m’incanta

195 un nume perché io soffra e singhiozzi di più.

Mai un mortale poteva far questo

con la sua sola mente, a meno che un dio,

senza fatica, a sua voglia venisse a farlo giovane o vecchio;

tu poco fa eri un vecchio e malamente vestivi,

200 e ora somigli agli dèi che il cielo vasto possiedono».

E ricambiandolo disse l’accorto Odisseo:

«Telemaco, non va che tu, avendo qui il caro padre tornato,

lo guardi stordito, con troppo stupore.

Un altro Odisseo non potrà mai venire,

205 perché son io, proprio io, che dopo aver tanto errato e sofferto,

arrivo dopo vent’anni alla terra dei padri.

E questa è azione d’Atena, la Predatrice,

che mi fa come vuole, e può farlo,

a volte simile a un mendicante, altre volte

210 a un uomo giovane, con belle vesti sul corpo:

facile ai numi, che il cielo vasto possiedono,

fare splendido o miserabile un uomo mortale».

E così detto sedeva: allora Telemaco,

stretto al suo nobile padre, singhiozzava piangendo.

215 A entrambi nacque dentro bisogno di pianto:

piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile

marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli

ruban loro i villani, prima che penne abbian l’ali:

così misero pianto sotto le ciglia versavano.


Omero, Odissea, libro XVI, vv. 172-219, trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989

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Il cane Argo

Giunti davanti al palazzo reale, dove i Proci banchettano, Odisseo ed Eumeo trovano adagiato in disparte il vecchio cane Argo, rimasto fedele al padrone (libro XVII).

290 Mentre questo dicevano tra loro, un cane

che stava lì disteso, alzò il capo e le orecchie.

Era Argo, il cane di Odisseo, che un tempo

egli stesso allevò e mai poté godere nelle cacce,

perché assai presto partì l’eroe per la sacra Ilio.

295 Già contro i cervi e le lepri e le capre selvatiche

lo spingevano i giovani; ma ora, lontano dal padrone,

giaceva abbandonato sul letame di buoi e muli

che presso le porte della reggia era raccolto,

fin quando i servi lo portavano sui campi

300 a fecondare il vasto podere di Odisseo.

E là Argo giaceva tutto pieno di zecche.

E quando Odisseo gli fu vicino, ecco agitò la coda

e lasciò ricadere la orecchie; ma ora non poteva

accostarsi di più al suo padrone. E Odisseo

305 volse altrove lo sguardo e s’asciugò una lacrima

senza farsi vedere da Euméo; e poi così diceva:

«Certo è strano, Euméo, che un cane come questo

si lasci abbandonato sul letame. Bello è di forme;

ma non so se un giorno, oltre che bello, era anche veloce

310 nella corsa, o non era che un cane da convito,

di quelli che i padroni allevano solo per il fasto».

E a lui, così rispondevi, Euméo, guardiano di porci:

«Questo è il cane d’un uomo che morì lontano.

Se ora fosse di forme e di bravura

315 come, partendo per Troia, lo lasciò Odisseo,

lo vedresti con meraviglia così veloce e forte.

Mai una fiera sfuggiva nel folto della selva

quando la cacciava, seguendone abile le orme.

Ma ora infelice patisce. Lontano dalla patria

320 è morto il suo Odisseo; e le ancelle, indolenti,

non si curano di lui. Di malavoglia lavorano i servi

senza il comando dei padroni, poi che Zeus

che vede ogni cosa, leva a un uomo metà del suo valore,

se il giorno della schiavitù lo coglie».

325 Così disse, ed entrò nella reggia incontro ai Proci.

E Argo, che aveva visto Odisseo dopo vent’anni,

ecco, fu preso dal Fato della nera morte.


Omero, Odissea, libro XVII, vv. 290-327, trad. di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1967

a TU per TU con il testo

Ognuno di noi conosce la gioia del ritorno a casa, sia pure dopo un’assenza breve. Tanto più difficile è esprimere le emozioni che si provano dopo anni passati lontano. Il periodo trascorso altrove ci dona uno sguardo diverso sulle cose, che impedisce di vedere il nostro mondo con la stessa abitudine di un tempo. Subentra allora un’infantile meraviglia nel ritrovare ciò che abbiamo lasciato molti anni prima, non senza un comprensibile smarrimento.

Il ritorno di Odisseo a Itaca offre il prototipo del nostos (in greco, “ritorno”) e dell’incontro con i propri cari dopo anni di distanza e desiderio: la brevità di un attimo infinito soddisfa allora un sentimento di nostalgia covato nel tempo. Incredulità e gioia mista a pianto liberatore sono la cifra di uno di quei momenti indimenticabili che danno un senso all’attesa e al dolore.

Analisi

Nel primo brano (libro XIII) c’è un notevole senso di estraniamento nel primo approccio di Odisseo con la propria isola dopo anni di assenza (addormentato sopra la terra dei padri; e non la conobbe, / da tanto n’era lontano, vv. 188-189). Ormai avvezzo a risvegliarsi in terre straniere, esposto a mille rischi e pericoli, per ironia della sorte l’eroe dei molti viaggi e delle continue avventure non riconosce proprio l’isola in cui è nato e cresciuto (Per questo tutte le cose sembravano estranee al sire, / i lunghi sentieri, i comodi porti, / le rocce inaccessibili e gli alberi floridi, vv. 194-196).

La diffidenza iniziale di Odisseo è tale che vuole verificare se ha ancora con sé i preziosi doni ricevuti alla corte di Alcinoo o se i Feaci che lo hanno accompagnato lo hanno depredato (vv. 217-219). È necessario l’intervento di Atena, nei panni di un giovane pastore, a rincuorare l’eroe, che chiede subito in che terra si trova (che paese? che terra? Che uomini vivono qui? / è un’isola tutta visibile, oppure è una punta, / protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?, vv. 233-235).

La scena assume tratti quasi paradossali, visto che è Atena a dover magnificare la fama di Itaca al suo re (Davvero non è / così oscura, ma la sanno moltissimi, / sia quanti stanno verso l’aurora e il sole, / sia quanti vivono in fondo verso l’ombra nebbiosa, vv. 238-241). Aspra ma fertile, adatta all’allevamento e ricca di pozzi: la descrizione di Atena coglie l’essenziale della patria di Odisseo che, sentito il nome di Itaca, godette e salutò la sua terra paterna (vv. 250-251).

Nel secondo brano (libro XVI) la situazione muta: Odisseo, trasformato da Atena in un vecchio mendicante al fine di organizzare più efficacemente la sua vendetta sui Proci, ha già ottenuto l’ospitalità del porcaro Eumeo; la dea tuttavia gli restituisce momentaneamente un aspetto giovane e prestante perché possa degnamente presentarsi al figlio. Telemaco ha una iniziale reazione di rifiuto, comprensibile in un giovane che ha sofferto vent’anni l’assenza del padre e non vuole credere subito alla realizzazione di un sogno (No, tu non sei Odisseo, non sei il padre mio, ma m’incanta / un nume perché io soffra e singhiozzi di più, vv. 194-195).

L’appello accorato del padre, segnato dall’autorevolezza genitoriale, scioglie gli ultimi dubbi di Telemaco, che finalmente si lascia andare alla gioia e al pianto. Omero accosta il momento del riconoscimento tra padre e figlio al grido di aquile e avvoltoi, quando si accorgono che sono stati loro sottratti i piccoli dal nido. La scelta è indicativa del livello estremo di commozione, di un pianto di gioia talmente intenso da somigliare piuttosto a una manifestazione di dolore (A entrambi nacque dentro bisogno di pianto: / piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile / marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli / ruban loro i villani, prima che penne abbian l’ali, vv. 215-218).

 >> pagina 248 

Nel terzo brano (libro XVII) la scena dell’incontro tra il padrone e il suo cane dopo anni di lontananza tocca corde più leggere e delicate rispetto alla forza emotiva dell’incontro con Telemaco. Argo, il cane di Odisseo, un tempo abituato a fortunate battute di caccia alla lepre, giace ora pieno di zecche abbandonato sul letame di buoi e muli / che presso le porte della reggia era raccolto (vv. 297-298), ma alla vista del padrone agita la coda e piega le orecchie: queste sono le uniche manifestazioni d’affetto che l’età avanzata gli rende possibile (vv. 302-303).

La sua triste condizione è metafora della rovina in cui versa la casa di Odisseo per l’assenza del signore (le ancelle, indolenti, / non si curano di lui. Di malavoglia lavorano i servi / senza il comando dei padroni, vv. 320-322). Odisseo è costretto dalle circostanze a nascondere le lacrime suscitate dalla vista del suo cane, ridotto così malamente (vv. 304-306). Vent’anni, tuttavia, sono tanti e Argo, simbolo della fedeltà al suo padrone, probabilmente più eloquente nella sua mutezza di qualunque altro essere umano, finalmente muore (vv. 326-327).

Il riconoscimento dell’eroe tornato a casa dopo lunga assenza e desideroso di vendetta contro i nemici domestici che hanno insidiato il suo potere corrisponde, del resto, a un topos ricorrente, quello dell’agnizione (o riconoscimento). Il peso dato all’incontro con il cane, pertanto, è funzionale ad accrescere il pathos del momento del ritorno, al quale coopera la sottolineatura del contrasto tra il presente triste e malandato e il passato glorioso di Argo.

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Di che cosa si preoccupa Odisseo appena risvegliatosi sulla spiaggia di Itaca?


2. Come si presenta Atena a Odisseo in questa circostanza?


3. Itaca viene descritta da Atena come

  •     un’isola arida e insignificante.
  •     un’isola aspra ma fertile e famosa.
  •     un luogo disabitato.
  •     un regno ormai decaduto.


4. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.


a) Eumeo è presente alla scena del riconoscimento tra Odisseo e Telemaco.

  •   V       F   

b) Telemaco non crede alla rivelazione del mendicante.

  •   V       F   

c) Argo corre incontro a Odisseo.

  •   V       F   

d) Odisseo nasconde la sua commozione alla vista del suo cane.

  •   V       F   

ANALIZZARE E INTERPRETARE

5. Riporta sul quaderno gli aspetti di Itaca che emergono dalle parole di Odisseo, che non ha ancora riconosciuto la propria isola, a confronto con quelli contenuti nella descrizione di Atena travestita da pastore.


6. Perché, secondo te, Telemaco esita a riconoscere il padre?


7. Che cosa spinge definitivamente Telemaco a credere al padre e a riconoscerlo?


8. Il pianto comune di Odisseo e Telemaco è descritto con una similitudine molto efficace. Quale? Rintracciala nel testo.


9. Quali dettagli nella descrizione del cane Argo rendono con forza il contrasto tra la sua condizione attuale e il passato? Quale significato generale veicola questa immagine, secondo te?


10. In occasione dell’incontro tra Odisseo e il cane Argo, il poeta usa una figura retorica che riduce le distanze che lo separano dai suoi personaggi. Quale? Secondo te, che effetto produce?


11. Come viene descritta la morte di Argo? Di che tipo di verso si tratta?

 >> pagina 249 

COMPETENZE LINGUISTICHE

12. Lessico. Atena infonde in Odisseo giovinezza e prestanza (libro XVI, v. 174). Prestanza è un termine astratto che un tempo indicava l’eccellenza, in ambito morale o intellettuale; oggi è perlopiù riferito all’aspetto fisico, nel significato di “bella presenza”, “portamento vigoroso”. Esso è un derivato dall’aggettivo prestante (“bello”, “vigoroso”) grazie al suffisso -anza. Nello stesso modo si formano altri termini astratti derivati da aggettivi. Per ognuno degli aggettivi elencati, indica il sostantivo derivato e poi scrivi sul quaderno una frase che lo contenga.


a) baldo

b) arrogante

c) ignorante

d) tracotante

e) elegante

f) somigliante

g) costante


13. Figure retoriche. Nella domanda che Odisseo rivolge a se stesso di che uomini ancora arrivo alla terra? (libro XIII, v. 200), quale sarebbe l’ordine sintattico regolare? Quale figura sintattica è utilizzata?


14. I complementi. Eumeo dice che Argo è bello di forme (libro XVII, v. 308). Di che complemento si tratta? Scrivi cinque frasi con questo complemento.

PRODURRE

15. Scrivere per raccontare. Lo smarrimento di Odisseo tornato in patria non deve meravigliarci troppo. Pensa alle molte occasioni in cui, rientrato a casa dopo un viaggio, breve o lungo, hai avvertito la differenza tra il momento in cui sei partito e quello in cui sei tornato: le cose, le persone, gli ambienti spesso cambiano in poco tempo o ci sembrano diversi perché abbiamo cambiato punto di vista. A questo proposito, il poeta Giorgos Seferis, esponente della poesia neogreca ( p. 135), ha scritto una poesia dal titolo Il ritorno dell’esule, dialogo tra un uomo che ritorna in patria dopo tanti anni e un suo amico che lo accompagna alla vecchia casa, che l’esule non riconosce. Nei versi finali, l’amico dice all’esule rimpatriato, deluso da ciò che vede, «la tua nostalgia ha creato un luogo inesistente».

Racconta le impressioni di un ritorno a casa dopo un’assenza, mettendo in rilievo gli aspetti di differenza e meraviglia dovuti al periodo trascorso altrove (massimo 15 righe).

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

STORIA E GEOGRAFIA

Itaca è un’isola greca del mar Ionio, già identificata dal geografo Strabone, nel I secolo d.C., come patria di Odisseo. Alcuni studiosi, però, come l’archeologo tedesco Wilhelm Dörpfeld, collaboratore di Schliemann, avevano individuato alcune differenze importanti tra la descrizione dell’isola data da Omero e le sue caratteristiche reali, finendo così per identificare la vera Itaca con la vicina Leucade (Lefkàda). Quali sono gli argomenti su cui si fondano le diverse ipotesi? Quale sarà la “vera” Itaca? Fai una ricerca su questo argomento.

 >> pagina 250 

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Il riconoscimento tra Odisseo e Telemaco ci pone davanti a una delle situazioni più emozionanti del poema. Il mondo odierno, grazie all’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione, ha reso meno traumatica la lontananza fisica tra le persone. Secondo te, quali vantaggi e/o svantaggi comporta per i rapporti interpersonali la presenza dei mezzi di comunicazione? Che cosa rende, quindi, particolarmente toccante l’abbraccio tra Odisseo e Telemaco? Discutine in classe con l’insegnante e con i compagni.

LA VOCE DEI MODERNI

Il ritorno in patria: Itaca di Kostantinos Kavafis

La poesia Itaca di Kostantinos Kavafis (1863-1933) è uno dei testi più celebri della letteratura neogreca. Il poeta ha voluto spostare l’attenzione dalla figura di Odisseo a Itaca, l’isola dalla geografia aspra e non particolarmente ricca che ha determinato il peregrinare dell’eroe e lo ha reso interiormente così ricco e così esperto del mondo.

Nel testo di Kavafis Itaca diventa simbolo della meta di ogni viaggio, inteso come itinerario dell’anima e dei sensi, che permette di accrescere le proprie conoscenze, molto più importanti delle eventuali ricchezze materiali accumulate durante il cammino. Il poeta augura pertanto a Odisseo (simbolo dell’uomo di ogni tempo) che la strada verso Itaca sia lunga e ricca di esperienze. Il vero dono che Itaca potrà offrire è proprio questo: il bel viaggio, i molti mattini d’estate, i profumi inebrianti degli empori fenici, l’incontro con i sapienti d’Egitto, tutte quelle cose che contribuiscono a rendere la vita una continua scoperta.


Come ti metti in viaggio per Itaca,

devi augurarti che sia lunga la strada,

ricca di avventure e conoscenze.

I Lestrigoni e i Ciclopi,

l’ira di Poseidone non temere,

mai li incontrerai sul tuo cammino

se il pensiero è alto, se nobile

il sentimento che ispira il corpo e lo spirito.

I Lestrigoni e i Ciclopi,

il feroce Poseidone non li incontrerai,

se non li porti dentro l’anima,

se l’anima non te li alza contro.


Devi augurarti che sia lunga la strada

e molti i mattini d’estate

quando – con gioia e piacere –

approderai in porti mai visti

e ti fermerai negli empori fenici

a comprare fine mercanzia:

madreperle e coralli, ambra e ebano,

ogni genere di profumi sensuali,

quanti più puoi, profumi sensuali.

Va’ in molte città d’Egitto

a imparare e imparare dai sapienti.


Non dimenticarti mai di Itaca.

Raggiungerla è la tua meta.

Ma non affrettare il viaggio.

Meglio che duri molti anni

e, vecchio ormai, tu approdi nell’isola,

ricco di quanto ti ha dato il viaggio,

senza pensare che Itaca ti dia ricchezze.

Itaca ti ha dato il bel viaggio.

Senza di lei non ti avventuravi.

Non ha altro da darti.

E se la trovi povera, Itaca non ti ha ingannato.

Ormai saggio, ricco di esperienze,

avrai capito quel che significa un’Itaca.


K. Kavafis, Itaca, in Poesie d’amore e della memoria, trad. di P. M. Minucci, Newton Compton, Roma 2006

L’emozione della lettura - volume C
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