T3 - Il pianto di Odisseo sul mare

T3

Il pianto di Odisseo sul mare

  • Tratto da Odissea, libro V, vv. 148-224

Mentre Telemaco è alla ricerca di informazioni sul padre presso la corte di Nestore a Pilo (libro III) e di Menelao a Sparta (libro IV), Odisseo si trova ancora nell’isola di Ogigia, costretto in una prigione dorata dalla ninfa Calipso che, innamorata di lui, lo vorrebbe trattenere al suo fianco. Il concilio degli dèi, sollecitato da Atena per ordine di Zeus, decide di concedere il ritorno in patria a Odisseo: invia così da Calipso il messaggero Ermes per ingiungerle di lasciar partire l’eroe, che da tempo sogna di rivedere la sua Itaca.

Detto così il forte Arghifonte partì:

lei si recò dal magnanimo Odisseo, la ninfa possente,

150 quando ebbe udito il messaggio di Zeus.

Lo trovò seduto sul lido: i suoi occhi

non erano mai asciutti di lacrime, passava la dolce vita

piangendo il ritorno, perché ormai non gli piaceva la ninfa.

Certo la notte dormiva, anche per forza,

155 nelle cave spelonche, senza voglia, con lei che voleva;

ma il giorno, seduto sugli scogli e sul lido,

lacerandosi l’animo con lacrime, lamenti e dolori,

guardava piangendo il mare infecondo.

Ritta al suo fianco gli parlò, chiara fra le dee:

160 «Infelice, non starmi qui a piangere ancora, non rovinarti

la vita: ti lascerò andare ormai volentieri.

Ma su, taglia dei grossi tronchi con l’ascia di bronzo

e costruisci una zattera larga: sopra conficca dei fianchi,

perché ti porti sul fosco mare.

165 Io vi porrò in abbondanza del cibo, acqua

e rosso vino, che ti tengano lontana la fame;

ti coprirò di panni; ti invierò dietro un vento,

perché possa giungere incolume nella tua terra,

se gli dèi che hanno il vasto cielo lo vogliono,

170 che quando pensano e agiscono sono più potenti di me».

Disse così: rabbrividì il paziente chiaro Odisseo

e parlando le rivolse alate parole:

«Un’altra cosa, non di mandarmi, tu mediti, o dea,

che mi esorti a varcare il grande abisso del mare,

175 terribile e duro, con una zattera: ma neanche navi librate,

veloci, che godono del vento di Zeus, lo varcano.

Né io monterò su una zattera contro la tua volontà,

se non acconsenti a giurarmi, o dea, il giuramento solenne

che non mediti un’altra azione cattiva a mio danno».

180 Disse così; sorrise Calipso, chiara fra le dee,

lo carezzò con la mano, gli rivolse la parola, gli disse:

«Sei davvero un furfante e non pensi da sciocco:

che discorso hai pensato di farmi!

Sia ora testimone la terra e in alto il vasto cielo

185 e l’acqua dello Stige che scorre (che è il giuramento

più grande e terribile per gli dèi beati)

che non medito un’altra azione cattiva a tuo danno.

Ma penso e mediterò quello che per me

io vorrei, se fossi in tale bisogno:

190 perché anche io ho giusti pensieri, e nel petto

non ho un cuore di ferro, ma compassione».

Detto così lo guidò, chiara fra le dee,

sveltamente: dietro la dea andò lui.

Arrivarono, la dea e l’uomo, nella cava spelonca.

195 Lì egli sedette sul trono da cui s’era alzato

Ermete, e la ninfa gli offrì ogni cibo

da mangiare e da bere, di cui i mortali si cibano.

Lei stessa sedette di fronte al divino Odisseo

e le ancelle le misero innanzi ambrosia e nettare.

200 Ed essi sui cibi pronti, imbanditi, le mani tendevano.

Poi, quando furono sazi di cibo e bevanda,

tra essi cominciò a parlare Calipso, chiara fra le dee:

«Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,

e così vuoi ora andartene a casa, subito,

205 nella cara terra dei padri? E tu sii felice, comunque.

Ma se tu nella mente sapessi quante pene

ti è destino patire prima di giungere in patria,

qui resteresti con me a custodire questa dimora,

e saresti immortale, benché voglioso di vedere

210 tua moglie, che tu ogni giorno desideri.

Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei

per aspetto o figura, perché non è giusto

che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e beltà».

Rispondendo le disse l’astuto Odisseo:

215 «Dea possente non ti adirare per questo con me: lo so

bene anche io, che la saggia Penelope

a vederla è inferiore a te per beltà e statura:

lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.

Ma anche così desidero e voglio ogni giorno

220 giungere a casa e vedere il dì del ritorno.

E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,

saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel petto:

sventure ne ho tante patite e tante sofferte

tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa».


Omero, Odissea, libro V, vv. 148-224, trad. di G.A. Privitera, Mondadori, Milano 2015

 >> pagina 198 

a TU per TU con il testo

Non deve essere facile rinunciare alla promessa di immortalità avanzata da una dea eternamente giovane e straordinariamente bella. L’uomo ha da sempre anelato a una condizione migliore della propria, priva di dolori, malattie, di tutte quelle limitazioni che lo rendono finito e mortale. Eppure, davanti alla concreta possibilità di abbandonare la propria mortalità, il richiamo della terra, dei suoi dolori incancellabili e delle sue indescrivibili gioie, si fa sentire con rinnovato vigore. La vita è bella probabilmente perché destinata a finire, come la bellezza: ci insegna questo la scelta di Odisseo, tentato da Calipso, ma irrimediabilmente innamorato dei propri limiti di uomo e della bellezza imperfetta della sua Penelope, che gli ha regalato gli anni più belli della sua vita.

 >> pagina 199 

Analisi

Bella, giovane e immortale, Calipso (“colei che nasconde”, in greco) tiene relegato Odisseo nella paradisiaca isola di Ogigia, che con il suo ambiente fertile e rigoglioso incanta persino il dio Ermes: è un archetipo del locus amoenus (letteralmente “luogo ameno, piacevole”), cioè di un luogo incantevole e ideale, ricco di acque e prati fioriti, in cui è sempre primavera.

La ninfa, preda di una passione totalizzante per l’eroe greco, non può fare a meno di lui: l’amore la rende cieca e incapace di capire che Odisseo, dopo sette anni di splendida “prigionia”, non ricambia i suoi sentimenti (Certo la notte dormiva, anche per forza, / nelle cave spelonche, senza voglia, con lei che voleva, vv. 154-155).

Distante dal mondo reale e dalle avventure cui è abituato, un eroe come Odisseo trascorre ora il suo tempo senza un senso, seduto su uno scoglio a scrutare l’orizzonte, consumato dal dolore per la distanza da casa e il ritorno che non si avvicina (ma il giorno, seduto sugli scogli e sul lido, / lacerandosi l’animo con lacrime, lamenti e dolori, / guardava piangendo il mare infecondo, vv. 156-158). Dopo avere superato innumerevoli prove, non gli rimane che piangere, vittima della nostalgia, solo sulla riva del mare, lo sguardo fisso a scorgere quell’orizzonte oltre il quale ci sono la patria e gli affetti più cari.

La ninfa, informata da Ermes della decisione degli dèi, acconsente, seppure controvoglia, all’ordine di lasciar partire l’eroe e glielo comunica con rassegnata premura (vv. 160-170): non può contrastare il volere di Zeus, al quale cede con dolente malinconia. La distanza sentimentale tra i due è ormai così grande che Odisseo non si fida del permesso accordato da Calipso e le chiede di promettergli di non ordire alcun inganno ai suoi danni. L’eroe dell’intelligenza e della consumata esperienza conosce troppo bene la gelosia e teme un comportamento imprevedibile da parte della ninfa che lo ha tenuto con sé per così tanto tempo (vv. 173-179).

Calipso sa comportarsi, tuttavia, meglio del previsto: con le sue attenzioni fa in modo che le sia riconosciuta quella compassione di cui Odisseo aveva dubitato (perché anche io ho giusti pensieri, e nel petto / non ho un cuore di ferro, ma compassione, vv. 190-191).

Nel dialogo successivo, davanti ai rispettivi pasti (nettare e ambrosia per Calipso, cibi da mortali per Odisseo), emergono le differenze che rendono impossibile un’unione duratura tra i due: la ninfa sa di essere più bella di Penelope e predice all’eroe un travagliato viaggio di ritorno verso Itaca (vv. 203-213), ma non riesce a capire che è proprio quello il mondo per cui è nato Odisseo, nel quale egli ha costruito la sua fama di guerriero e si è fatto conoscere dagli uomini.

Lo so / bene anche io, che la saggia Penelope / a vederla è inferiore a te per beltà e statura (vv. 215-217), afferma l’eroe, ma sa anche che Penelope è la ragazza che ha amato in gioventù, la madre di suo figlio, la sola donna in grado di richiamarlo al mondo più autenticamente suo: tutto ciò vale molto più dell’immortalità e di una giovinezza eterna, ma infiacchita dalla noia e dall’inattività.

La ninfa è perfino capace di augurare la felicità all’eroe che la abbandona, ma il prezzo pagato da Odisseo per essere stato sette anni suo prigioniero a Ogigia è alto: Calipso lo ha sottratto ai suoi doveri, ai suoi ideali, ai suoi sentimenti, in fin dei conti lo ha sottratto a se stesso, con il rischio di annullarne l’identità. La partenza vale a maggior ragione come la rivendicazione della propria mortalità e dell’amore per i propri limiti di uomo.

 >> pagina 200 

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Quando Calipso si reca da Odisseo per annunciargli la possibilità di partire, in che condizioni lo trova?


2. Che cosa comunica precisamente Calipso a Odisseo?


3. Come reagisce Odisseo all’annuncio di Calipso?

  •     Con incontenibile gioia.
  •     Con diffidenza.
  •     Con tristezza.
  •     Con indifferenza.


4. Che cosa promette Calipso a Odisseo? Perché questi non può accettare?


5. Che cosa risponde Odisseo alla previsione di future sofferenze legate al ritorno in patria?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

6. Nel discorso a Odisseo, Calipso augura all’eroe, intenzionato a partire, di essere felice (v. 205). Secondo te, che significato ha questo augurio? Quali sono i sentimenti della dea nei confronti dell’eroe?


7. Quale significato assume la dichiarazione di Calipso di non essere inferiore a Penelope per aspetto o figura (vv. 211-212)?


8. Il brano contiene diversi versi formulari riferiti a scene tipiche, utili alla tecnica compositiva dell’aedo. Individuali: a quali momenti sono perlopiù collegati?


9. Quali epiteti sono riferiti al mare?

COMPETENZE LINGUISTICHE

10. Storia della lingua. Il pianto di Odisseo sugli scogli, dovuto al desiderio di tornare a casa, è associato da noi moderni al sentimento della nostalgia (letteralmente “dolore per il ritorno”), che spesso evochiamo come motivo di un malessere psicologico. Il termine (formato da due parole greche, nostos, “ritorno”, e algos, “dolore”) è stato coniato nel Seicento da uno studente di medicina alsaziano, Johannes Hofer, per indicare lo stato di malessere psicologico dei pastori distanti da casa. Con l’aiuto del vocabolario e dell’insegnante, individua altri termini italiani terminanti con il suffisso -algìa e indicane il significato. Molti di essi appartengono a un preciso linguaggio settoriale: quale?

PRODURRE

11. Scrivere per descrivere. L’isola di Ogigia è una specie di prigione dorata anche per la bellezza del paesaggio, la piacevolezza della natura e del clima, la prosperità della terra. Come te la immagini? Prova a descriverla in un breve testo (massimo 15 righe), nel quale dovrai inserire i seguenti termini: ombroso, fresco, sabbia, collina, muschio.

 >> pagina 201 

Mito E Civiltà

La bellezza nel mondo classico

Gli antichi Greci erano innamorati della bellezza, in una misura che probabilmente oggi è difficile definire senza ridurne la portata ideale. La guerra di Troia, per esempio, uno dei miti fondanti della civiltà classica, era scoppiata a causa del rapimento della donna più bella del mondo, Elena, la cui descrizione fu oggetto della fantasia di molti autori nel corso della storia, ben oltre la fine del mondo antico.

La celebrazione del bello, in realtà, riguardava sia il corpo maschile sia quello femminile: le statue classiche del V e IV secolo a.C., infatti, hanno lasciato dei modelli di perfezione nella resa dei corpi di giovani atleti e di dee affascinanti, prima tra tutte Afrodite. Oltre alle regole dell’armonica proporzione delle parti del corpo umano, fissate nel V secolo a.C. dallo scultore Policleto, un ingrediente essenziale della bellezza era per i Greci la giovinezza, dono fugace destinato presto a sfiorire.

La scelta di Odisseo di lasciare Calipso, bellezza immortale sottratta all’invecchiamento, per tornare alla bellezza imperfetta e non eterna di Penelope, doveva risultare tanto più dolorosa, ma si tratta proprio dell’eccezione che conferma la regola. Nel mito, l’esempio di Eos, l’Aurora, è istruttivo in senso opposto: nel chiedere a Zeus che il suo amante Titono diventasse immortale, la dea dimentica di chiedere per lui anche l’eterna giovinezza. Così, mentre l’Aurora rimane giovane, Titono invecchia e si rattrappisce; vedendolo sempre più consumato e privo di forze, Eos ottiene che Titono stia trasformato in cicala, l’insetto dalla pelle secca che d’estate non sospende mai il suo canto ossessivo.

Alla base di questa irriducibile attrazione verso la giovinezza e la bellezza fisica era la concezione della kalokagathía, il connubio tra bellezza fisica e bontà morale, secondo la quale un uomo di bell’aspetto non può che rispecchiare esteriormente le virtù dell’animo. Tuttavia, i Greci seppero progressivamente emanciparsi dai vincoli del mondo fisico: il poeta Archiloco (VII secolo a.C.), per esempio, cantava il valore di un comandante piccolo e con le gambe storte; la filosofia classica, con Socrate e Platone (V-IV secolo a.C.), scoprì la bellezza dell’anima e la sua autonomia dai desideri corporei. Ma il processo sarebbe stato lungo e i Greci non seppero mai davvero rinnegare il fascino della bellezza corporea, anche dopo averlo trasferito al mondo delle idee e dell’arte.

L’emozione della lettura - volume C
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Epica