Il libro dei libri

1. Il libro dei libri

Il termine Bibbia deriva dal greco biblía che significa “libri”. Indica infatti non un racconto unitario, ma appunto un insieme di libri di generi e temi molto diversi tra loro, che spaziano da argomenti storici a riflessioni morali e sapienziali, senza escludere la poesia e il diritto. Il filo rosso che li collega è la storia del rapporto privilegiato dell’uomo con Dio nel corso dei secoli, a partire dalla creazione del mondo e del primo uomo e della prima donna, Adamo ed Eva.

Tale raccolta, con significative differenze, costituisce il testo sacro – contenente cioè una verità sovrannaturale ispirata da Dio – di ebrei e cristiani: per tale motivo, è chiamata anche Sacra Scrittura. Anche l’islam riconosce alla Bibbia ispirazione divina, tuttavia ne ridimensiona fortemente il valore in quanto essa sarebbe stata corrotta dal tempo e dagli stessi ebrei e cristiani.

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Per gli ebrei la Bibbia è costituita dal Tanàkh, acronimo che unisce le iniziali delle tre diverse parti in cui essi dividono l’opera:

  • la Torah (o Pentateuco), cioè i primi cinque libri;
  • i Nebi’îm, i libri dei profeti;
  • i Ketubîm, gli altri scritti.

I libri del Tanàkh corrispondono alla parte della Bibbia che i cristiani chiamano Antico Testamento. La parola “testamento” – che traduce il greco diathèke, a sua volta corrispondente all’ebraico berith “patto”, “alleanza” – indica la dimensione religiosa di questi testi: la Bibbia vuole essere, infatti, la raccolta di tutti quei libri che narrano il patto di alleanza tra Dio e il popolo ebraico, e successivamente quello tra Dio e i credenti in Cristo.

Per i cristiani, invece, la Bibbia si compone di Antico e Nuovo Testamento: le due parti si distinguono in base a un momento discriminante, la nascita di Gesù, che essi riconoscono come il Messia (il Salvatore), a differenza degli ebrei. I libri successivi a questo evento, infatti, costituiscono il Nuovo Testamento e sono considerati come testo sacro solo dai cristiani.

2. L’Antico e il Nuovo Testamento

L’Antico Testamento comprende quarantasei libri, scritti in ebraico tra la fine del II millennio e i primi secoli a.C., che possono essere ripartiti nel modo seguente:

  • il Pentateuco (in greco, “cinque volumi”, in ebraico Torah), che comprende i primi cinque libri e narra i momenti più importanti della storia del popolo giudaico: la Genesi, dedicata alla creazione del mondo; l’Esodo, che racconta della fuga del popolo ebraico, guidato da Mosè, dalla schiavitù d’Egitto; il Levitico, che contiene le leggi a uso dei sacerdoti; i Numeri, che tratta della storia degli ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai; il Deuteronomio, che narra la morte di Mosè e l’arrivo nella Terra Promessa a opera di Giosuè;
  • i libri storici, che raccontano gli eventi successivi della storia d’Israele fino all’età ellenistica: Giosuè, Giudici, Rut, 1-2 Samuele, 1-2 Re, 1-2 Cronache, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, 1-2 Maccabei;
  • i libri poetici e sapienziali, che contengono proverbi, preghiere in versi e inni di lode e di ringraziamento a Dio: Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet (o Ecclesiaste), Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide (o Ecclesiastico);
  • i libri profetici, che esortano gli ebrei a conservare la fede nei momenti più difficili e descrivono in modo apocalittico e in chiave simbolica la fine del mondo e la vittoria finale del bene sul male: Isaia, Geremia, Lamentazioni, Baruc, Ezechiele, Daniele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

Il nucleo del Nuovo Testamento è rappresentato dai Vangeli, termine di origine greca che significa “buona notizia”. Secondo il cristianesimo, la buona novella portata da questi testi è costituita dal fatto che Dio si è incarnato nella figura di Gesù, la cui morte e resurrezione sono finalizzate alla redenzione, cioè alla salvezza, dell’intera umanità.

I quattro Vangeli canonici, ai quali la Chiesa riconosce carattere ispirato, furono scritti in greco nel I secolo d.C. e devono le loro differenze, relative perlopiù allo stile e alla scelta degli argomenti, anche al destinatario cui sono indirizzati:

  • il Vangelo secondo Matteo è rivolto principalmente agli ebrei, ai quali presenta Gesù come Messia, alla luce di un gran numero di riferimenti all’Antico Testamento;
  • il Vangelo secondo Marco è pensato invece per gli antichi Romani, i dominatori del mondo in quel periodo, ai quali Gesù è descritto come uomo che credeva nella legge e nell’ordine, ma offriva anche il perdono e la misericordia divina;
  • il Vangelo secondo Luca si rivolge ai gentili, cioè ai pagani (dal latino gentes, “popoli”, termine che indicava i non ebrei), abituati a narrazioni razionali e oggettive, che cerca di persuadere attraverso un linguaggio colto;
  • il Vangelo secondo Giovanni, il più denso di riferimenti filosofici, è scritto con l’intento di far conoscere la simultanea divinità e l’umanità di Cristo. Questa attenzione agli aspetti teologici lo rende un Vangelo molto diverso dai tre precedenti, che in virtù delle loro affinità sono chiamati sinottici (dal greco, “che possono essere letti con un solo colpo d’occhio”).

I Vangeli non riconosciuti dalla Chiesa sono detti, invece, apocrifi (dal greco apókryphos, “nascosto”) e narrano vicende della vita di Gesù e di Maria che sono tralasciate dai sinottici e da Giovanni.

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Oltre ai Vangeli, il Nuovo Testamento comprende gli Atti degli Apostoli, attribuiti all’evangelista Luca, che raccontano gli avvenimenti successivi alla resurrezione di Cristo e alla sua ascensione al cielo: la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (dal greco, il “cinquantesimo” dalla resurrezione), la formazione della prima chiesa e la diffusione del Vangelo a opera degli Apostoli.

Una testimonianza preziosa dell’attività delle prime comunità cristiane viene dalle ventuno lettere, per lo più attribuite all’apostolo Paolo o a persone del suo ambiente. Nato a Tarso, Saulo detto Paolo era un ebreo ellenizzato che aveva la cittadinanza romana e non conobbe direttamente Gesù. La sua vicenda è esemplare del clima religioso molto acceso che caratterizza il I secolo d.C.: mentre si recava a Damasco in Siria per organizzare la persecuzione dei cristiani, fu folgorato da una luce divina che gli chiese: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Reso cieco e poi guarito dal capo della comunità cristiana locale, Anania, Paolo diede inizio a un’opera capillare di evangelizzazione dei pagani che gli valse il titolo di “apostolo delle genti”. Sono celebri le sue lettere ai Romani, ai Corinzi, agli Efesini, ai Filippesi, ai Tessalonicesi: Roma, Corinto, Efeso, Filippi, Tessalonica erano alcune delle città in cui la sua predicazione aveva fatto proseliti e che gli chiedevano costante sostegno rispetto a vari problemi dottrinali e morali.

Il Nuovo Testamento è chiuso dall’Apocalisse (dal greco apokálypsis, che vuol dire “rivelazione”) attribuita tradizionalmente all’evangelista Giovanni, che l’avrebbe scritta durante il suo esilio sull’isola greca di Patmos, non lontano da Efeso. Caratterizzata da un linguaggio criptico e allusivo, essa affronta il tema del ritorno di Gesù e del giudizio finale.

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3. La composizione

Data la sua natura di libro composito, è difficile ricostruire come e quando sia stata composta la Bibbia. I libri dell’Antico Testamento sono stati scritti in ebraico, aramaico, talora in greco, spesso al termine di un lungo processo di trasmissione orale, in un periodo compreso tra il X secolo e i primi secoli a.C. Quelli del Nuovo Testamento risalgono, invece, perlopiù al I o all’inizio del II secolo d.C.

Tuttavia, come spesso accade nelle religioni rivelate, basate sulla comunicazione diretta con la divinità affidata a un libro ispirato, per i testi biblici la fissazione di un canone (dal greco kanón “bastone diritto”, “unità di misura”, quindi “norma”), cioè un elenco riconosciuto e ufficiale, è stata lunga e laboriosa e vede ancora oggi forti differenze tra gli ebrei e le varie confessioni cristiane (cattolici, ortodossi, protestanti).

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La comunità ebraica della città di Alessandria d’Egitto, per esempio, si dotò presto di una versione greca della Bibbia, realizzata in un periodo compreso tra il III e il I secolo a.C a opera di settanta saggi. Passata alla storia come Bibbia dei Settanta, tale versione ebbe una notevole fortuna tra gli ebrei di lingua greca residenti in Egitto e nel Medio Oriente, per i quali l’ebraico era ormai una lingua morta; comprendeva un canone lungo, che includeva alcuni libri scritti in greco non riconosciuti dagli ebrei di Gerusalemme.

Il principale problema per i cristiani della parte occidentale dell’impero romano, che non conoscevano il greco, consisteva invece nell’approntare traduzione latine, precise e affidabili, dei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento. La più famosa versione latina della Bibbia fu realizzata tra il 390 e il 405 d.C. da san Girolamo, autore della cosiddetta Vulgata, “edizione per il popolo”, pensata per una diffusione molto ampia e caratterizzata, pertanto, da uno stile alla portata di tutti.

L’importanza della Bibbia non è legata solo alla sua dimensione teologica come libro sacro da cui ricavare insegnamenti religiosi. La Bibbia costituisce anche una straordinaria fonte di informazioni storiche, che permette di ricostruire vicende e aspetti del popolo ebraico. L’Antico Testamento fissa infatti i momenti decisivi della sua storia: la rivelazione di Dio ad Abramo, la successione di Isacco, di Giacobbe e dei suoi dodici figli, la schiavitù in Egitto, l’arrivo nella Terra Promessa, i contrasti con i Filistei, la cattività babilonese.

Il Pentateuco comincia con la narrazione della creazione del mondo, del peccato originale di Adamo ed Eva, del Diluvio universale. Vero capostipite e primo patriarca del popolo ebraico, tuttavia, è Abramo, che risiede originariamente nella città di Ur in Mesopotamia: a lui Dio si rivela indicandogli una nuova patria, la terra di Canaan, corrispondente all’attuale Palestina. Abramo è padre di Isacco, secondo patriarca, mentre da quest’ultimo nasce Giacobbe, padre di dodici figli, corrispondenti alle tribù di Israele. Uno dei figli di Giacobbe, Giuseppe, venduto dai fratelli come schiavo in Egitto, si fa apprezzare dal faraone, fino a diventare viceré e a invitare la sua tribù a stabilirsi in quel paese. Qui gli ebrei rimangono a lungo, all’inizio in condizioni di prosperità, fino a quando sotto il regno del faraone Ramses II (1279-1212 a.C.) vengono sottoposti a un regime di schiavitù, al quale pone fine Mosè. Egli guida il suo popolo fuori dall’Egitto, verosimilmente attorno al XII secolo a.C., conducendolo miracolosamente oltre il mar Rosso fino al monte Sinai, dove Dio si rivela di nuovo attraverso i Dieci Comandamenti, le cosiddette Tavole della Legge.

Dopo quarant’anni di peregrinazione nel deserto, le difficoltà però non finiscono, perché gli ebrei, dopo la morte di Mosè guidati da Giosuè, devono condurre dure lotte per insediarsi a Canaan, che nel frattempo era stata occupata da altri popoli, chiamati nella Bibbia con la denominazione di Filistei. Un episodio di questi conflitti è documentato nella famosa storia del giudice Sansone ( T1, p. 22).

Dopo i primi tempi, in cui gli ebrei sono organizzati in una confederazione di tribù, Saul diventa il primo re di Israele. Gli succede Davide, figlio di Iesse, noto per l’impresa eroica compiuta da giovinetto ai danni del gigante Golia ( T2, p. 27): sotto il suo regno le dodici tribù sono unite. Il figlio Salomone, re dal 970 al 933 o 931 a.C., celebre per il suo equilibrio nell’amministrazione della giustizia, accresce lo splendore della monarchia attraverso la consacrazione del Tempio di Gerusalemme. Alla sua morte l’unità del regno si rompe e il popolo si divide tra il regno di Israele al nord, con capitale Samaria, e il regno di Giuda al sud, che ha per capitale Gerusalemme.

Segue l’età dei profeti, che richiamano continuamente i re e il popolo alla fedeltà all’alleanza del Sinai, preannunciando future sventure a causa dei peccati commessi. Il libro di Isaia, per esempio, riflette le ansie e le incertezze del periodo che precede l’invasione degli Assiri, che nel 721 a.C. determina la fine del regno del Nord e la deportazione del popolo ebraico in varie regioni dell’impero assiro. Il regno del Sud, invece, rimane in piedi fino al 587 a.C., quando il re babilonese Nabucodonosor conquista Gerusalemme, distrugge il Tempio e deporta un gran numero di Giudei a Babilonia: la cattività babilonese, ovvero il periodo di prigionia trascorso dal popolo ebraico in Mesopotamia, dura fino al 538 a.C., quando il re persiano Ciro concede agli ebrei il ritorno in Palestina. Queste vicende trovano un’eco letteraria nel libro del profeta Geremia, che canta l’inutilità della resistenza ai Babilonesi, e in quello del profeta Ezechiele, il quale già riflette sull’esperienza dell’esilio. La conquista babilonese segna anche l’inizio della diaspora (termine di origine greca, che vuol dire “dispersione”), continuata anche nei secoli successivi, soprattutto dopo la conquista romana. Gli ebrei tornati in patria, invece, in quella che è stata definita età postesilica, costruiscono il secondo Tempio, che sarebbe stato distrutto dall’imperatore romano Tito nel 70 d.C. Nei secoli compresi tra il ritorno dall’esilio babilonese e la nascita di Gesù, la Palestina è sotto il dominio persiano fino alla conquista di Alessandro Magno (332 a.C.) e alla costituzione del regno ellenistico dei Seleucidi, che a loro volta la controllano fino all’occupazione romana a opera di Pompeo (64 a.C.). I forti rischi di paganizzazione vissuti dalla società ebraica a contatto con la cultura greca in età ellenistica sono documentati nei libri dei Maccabei (II-I secolo a.C.), compresi nella Bibbia dei Settanta.

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4. Lo stile

In considerazione della varietà di libri che la costituiscono, non si può identificare uno stile uniforme della Bibbia, anche perché ogni testo risponde alle regole del genere letterario cui appartiene. Alcuni libri hanno carattere cronachistico o storico, altri profetico, alcuni come il Levitico sono di natura legislativa, altri invece hanno un’impronta sapienziale, come i Proverbi, o apocalittica, come il libro di Daniele o l’Apocalisse.

Al di là dalle differenze specifiche, spesso il linguaggio della Bibbia è simbolico, come si conviene a una narrazione trasmessa oralmente. Ne è un esempio il racconto della creazione nel libro della Genesi, presente in due versioni, entrambe affidate a un narratore onnisciente, che si fa veicolo di una verità rivelata attraverso immagini poetiche. Alcuni aspetti che sembrano inverosimili si prestano invece a una precisa ricostruzione storica, confortata dai dati sempre più ricchi e documentati che provengono dall’archeologia biblica.

La Bibbia, infatti, non è solo un testo sacro, ma anche la raccolta di tutte le informazioni utili per una comunità: oltre ai fatti del passato lontano e recente, necessari a mantenere la memoria storica, vi si trovano stratificati e gelosamente conservati precetti festivi, preghiere, leggi, usanze, abitudini alimentari.

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Nonostante la predominanza della prosa, la Bibbia raccoglie anche numerosi testi poetici. Un esempio illustre è costituito dai Salmi, 150 componimenti attribuiti in genere al re Davide, alcuni dei quali destinati a diventare i testi di alcune delle preghiere più famose del cristianesimo per la profondità del sentimento religioso, la finezza dell’espressione lirica e l’originalità delle immagini.

Tra i brani poetici dell’Antico Testamento meritano di essere ricordati:

  • il Cantico di Mosè, intonato da Mosè e dal popolo ebraico per esprimere la loro gioia dopo il miracoloso attraversamento del mar Rosso (Esodo 15,1-18);
  • il salmo 51 (Miserere, “abbi pietà”, dal titolo della traduzione latina), un salmo penitenziale, in cui il peccatore manifesta il suo pentimento e implora la misericordia divina;
  • il salmo 130 (De profundis, che in latino significa letteralmente “dal profondo”), una supplica che la Chiesa ha adattato per il ricordo dei defunti.

Rientra tra i libri poetici anche il libro di Giobbe, il cui protagonista, provato da dolori inspiegabili, svolge profonde meditazioni sul perché Dio permetta che il male si accanisca anche sugli uomini giusti. Il rapporto stretto tra uomo e Dio sembra qui più problematico che in altri testi della Bibbia ed è destinato a risolversi nella constatazione di una incommensurabile distanza, che potrà essere colmata solo dal redentore.

Tenero e sensuale, invece, è il Cantico dei Cantici ( T3, p. 33), il cui titolo significa “il più sublime dei cantici” o il “cantico per eccellenza”, una raccolta di testi poetici dedicati all’amore terreno, visto e celebrato come un valore della creazione. Protagonisti del poema sono due innamorati che si cercano, si perdono e si ritrovano per cantare finalmente la gioia dell’amore: secondo alcune interpretazioni, vi si deve leggere una metafora dell’amore di Dio per il suo popolo oppure di Gesù per la sua Chiesa.

A metà tra la poesia e la prosa è quel libro, destinato a così gran fortuna nella storia, che va sotto il nome di Ecclesiaste (in ebraico Qoèlet), che contiene una serie di riflessioni filosofiche sull’esistenza ed è definito da taluni «canto dello scetticismo» a causa del suo pessimismo. Vi si trovano alcune delle formulazioni più sorprendenti della Bibbia: Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, “Vanità delle vanità, tutto è vanità”) oppure Nihil sub sole novum (“Niente di nuovo sotto il sole”).

Verifica delle conoscenze

1. Che cos’è il Tanàkh per gli ebrei?

2. Che differenza c’è tra la Bibbia dei cristiani e quella degli ebrei?

3. Quali libri fanno parte del Pentateuco?

4. Che cosa si intende per “Bibbia dei Settanta”?

5. Da quali libri è composto il Nuovo Testamento?

6. Che cosa si intende per diaspora?

7. Perché la Bibbia non presenta uno stile omogeneo?

8. Quali sono i testi poetici più significativi dell’Antico Testamento?

L’emozione della lettura - volume C
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