Prova B
Il traduttore
Luciano Bianciardi, L’antimeridiano, I, Isbn, Milano 2005
Luciano Bianciardi, L’antimeridiano, I, Isbn, Milano 2005
Luciano Bianciardi ha scritto alcuni importanti romanzi del Novecento, quali L’integrazione (1960) e La vita agra (1962). Acuto osservatore del boom economico italiano e del suo impatto sul lavoro e sulla funzione dell’intellettuale, è stato anche critico cinematografico, sportivo, televisivo, autore di antologie scolastiche nonché traduttore di molti libri. In questo brano riflette sul suo mestiere di traduttore e sul mestiere di traduttore in generale, con una scrittura di prodigiosa bellezza e un occhio provvisto di umanissima e malinconica ironia.
Non tutti forse pensano sempre alla fatica del traduttore, io invece ci penso perché
oramai da quindici anni faccio soprattutto quel mestiere, traduco. Fino a oggi, più
di cento libri, e non è detto che sia finita qui. Per tradurre bene occorrono tre cose:
conoscere la lingua da cui si traduce, anzitutto. Non è necessario saperla parlare:
5 conosco ottimi traduttori, dall’inglese, che portati a Londra morirebbero di fame,
perché non saprebbero farsi intendere nei ristoranti. E all’opposto: persone che
dell’inglese conoscono e pronunciano perfettamente quel migliaio di parole occorrenti
per una conversazione ordinaria, rimarrebbero basiti di fronte a un romanzo
appena appena difficile. Occorre poi, seconda cosa, conoscere la lingua da cui si
10 traduce, cioè l’italiano. Le traduzioni, ha detto qualcuno, se vogliono essere belle,
debbono essere infedeli. Perché? Proprio perché è cattivo traduttore quello che, volendo
restare fedelissimo al testo, adopera alla fine un italiano contorto e striminzito,
che infastidisce il lettore. Una certa dose di libertà occorre, se si vuol rendere in
bell’italiano un bello scritto straniero. Fedeltà allo spirito più che alla lettera.
15 La terza cosa che occorre avere, per tradurre, è saper tradurre. Sembrerà un paradosso,
ma non lo è. Conosco buoni scrittori italiani, capaci di leggere e comprendere
correntemente un libro di Joyce, ma assolutamente incapaci di voltarlo in italiano.
O che, perlomeno, penerebbero parecchio se ci si provassero. Il buon traduttore,
se vuol lavorare in economia, deve avere una curvatura mentale particolarissima,
20 per cui la frase straniera, mentre la legge, gli si rovescia subito nell’equivalente frase
italiana. Legge, per fare un esempio, “let’s shake hands” e pensa “diamoci la mano”.
Legge “will you have a drink?” e pensa “vuoi bere qualcosa?”. Sono esempi, come
si vede, molto semplici. Le cose si complicano quando un personaggio di romanzi
parla con l’accento irlandese, e allora è un pasticcio cercare di trovare un equivalente
25 dialettale italiano. Peggio che mai quando l’autore straniero vuole che una sua macchietta,
londinese, faccia il verso, malamente, a un irlandese, e cioè parli un dialetto
non suo, sbagliando.
Problema annoso del traduttore è voltare in italiano l’inglese “you”. Gli inglesi,
come si sa, usano soltanto il “voi” (il tu esiste solo poeticamente, quando ci si rivolge
30 a Dio). Ora, questo “voi” inglese, con che cosa lo rendiamo nella nostra lingua?
Il voi esiste anche in italiano, d’accordo, ma è ormai molto poco usato. Noi preferiamo
ormai rivolgerci al nostro prossimo con il “lei” o con il “tu”. In uno dei due
pronomi andrà quindi tradotto il “voi” degli inglesi. Sì, d’accordo, ma quale? E se risulta
verosimile che due personaggi di romanzo, a un certo punto, entrino in dimestichezza
35 e passino dal “lei” al “tu”, come stabiliremo quale sia il punto? Di regola
il cambiamento lo si fa avvenire quando i due personaggi cessano di chiamarsi “Mr.
Smith” e “Mr. Brown” e si dicono più semplicemente “dear John” e “dear Charles”,
ma la regola non vale sempre. Il capoufficio, da noi, chiama semplicemente Marisa
la sua dattilografa, ma le dà del “lei”.
40 Ci sono poi altri inconvenienti più spiccioli e talvolta comici. Come gli attori,
anche i traduttori pigliano le “papere”. A me accadde di far stare un personaggio, in
piedi, davanti alla vedova. Per mia fortuna qualcuno se ne accorse prima che il libro
fosse stampato, e mise il personaggio al posto giusto, cioè davanti alla finestra.
Un palese errore di lettura, favorito dal fatto che in lingua inglese le due parole
45 sono quasi identiche: window è la finestra, widow è la vedova. Un mio amico fece correre
le ostriche, giù in Africa. Sedotto dalla parola inglese, ostrich, s’era dimenticato
che in realtà si trattava di struzzi. Addirittura, certi errori di traduzione sono ormai
entrati nell’uso corrente e nessuno ci fa più caso. Noi leggiamo e forse diciamo
“cortina di ferro”, che è la versione a orecchio dell’inglese iron curtain e significa in
50 realtà “sipario di ferro”. L’espressione la adoperò per la prima volta, in quel senso,
Winston Churchill.
L’ideale sarebbe, per il traduttore, consultarsi il più spesso possibile con l’autore
straniero che sta mettendo in italiano. Io ebbi una volta la fortuna di poter chiedere
spiegazione a uno scrittore americano che stavo traducendo. E debbo dire che in
55 tre o quattro casi non seppe neanche lui dire che cosa significava quella certa frase.
Se n’era dimenticato. E debbo anche confessare che quando, dopo anni di lavoro
traduttorio, un mio libro fu a sua volta tradotto all’estero, io mi stropicciavo le mani
per la gioia un po’ maligna di vedere in che modo il mio collega francese, inglese,
tedesco, e spagnolo, avrebbero messo nella loro lingua alcuni brani miei scritti in
60 dialetto pisano. O addirittura, come se la sarebbero cavata dinanzi a una espressione
quale “buona notte al secchio”.
1. Nel testo Bianciardi riflette sul mestiere di traduttore e sull’arte della traduzione portando esempi tratti dalla sua esperienza personale e da una specifica lingua di partenza. Quale?
2. Quali competenze ha, secondo Bianciardi, un buon traduttore? (sono possibili più risposte)
3. Per tradurre bene, afferma Bianciardi, occorrono tre cose, ultima delle quali il saper tradurre. Al proposito di quest’ultima affermazione, l’autore scrive: Sembrerà un paradosso, ma non lo è. Con quale altra parola si potrebbe sostituire “paradosso” senza alterare il senso di una frase?
4. In quali situazioni il mestiere del traduttore si fa complicato?
5. Perché la traduzione di you è un problema per il traduttore italiano d’ogni tempo?
6. Alcune volte, afferma Bianciardi, è difficile stabilire quando due personaggi, in un romanzo inglese, passano dal “lei” al “tu”. In che modo è possibile regolarsi nella traduzione?
7. Indica se le seguenti affermazioni si possono ricavare dal testo oppure no.
a) “Mr. Smith” e “Mr. Brown” sono due personaggi di un romanzo inglese tradotto da Bianciardi.
b) Marisa è la dattilografa di un ufficio.
c) A Bianciardi è accaduto di far stare un personaggio, in piedi, davanti alla suocera.
d) Gli attori alle volte dicono una parola per un’altra. Questo capita anche ai traduttori, cui capita di commettere errori marchiani nella traduzione.
e) In inglese ostrich in inglese significa sia “struzzo” sia “ostrica”.
8. Nel testo si cita un’espressione entrata nell’uso comune in una traduzione errata. Tale espressione indica “la separazione, territoriale e ideologica, esistente fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale venutasi a creare dopo la Seconda guerra mondiale e mantenutasi fino al 1990, in seguito alla divisione dell’Europa in due sfere d’influenza, quella sovietica e quella angloamericana” (Enciclopedia Treccani). Di quale espressione si tratta?
9. Bianciardi, sulla scorta della sua esperienza personale, afferma che l’ideale, per un traduttore, sarebbe
10. Il testo è diviso in 6 capoversi. Attribuisci a ciascuno di essi il titolo più adatto, scegliendolo tra quelli proposti. (Attenzione! Il numero dei titoli che ti proponiamo è maggiore di quello dei capoversi)
Capoversi
1) rr. 1-14
2) rr. 15-27
3) rr. 28-39
4) rr. 40-43
5) rr. 44-51
6) rr. 52-61
Elenco titoli
a) Belle e infedeli
b) Paradossi e complicazioni
c) Tradurre il dialetto, tradurre “you”
d) Davanti alla vedova
e) Tre competenze per ben tradurre
f) Voi, lei, tu
g) Anni di lavoro traduttorio
h) Le papere dei traduttori
i) Dimenticanze e gioie maligne
j) Le ostriche corrono in Africa
11. L’origine dell’espressione idiomatica “Buona notte al secchio” è stata spiegata, tra gli altri, da Enzo Caffarelli, direttore della “Rivista italiana di onomastica”. In romanesco, ha scritto Caffarelli, “buonanotte” si dice spesso per indicare un’impresa o un’azione che si conclude in modo negativo. Secondo alcuni, nell’espressione “buonanotte al secchio” il riferimento è al secchio del pozzo che, tirato su pieno d’acqua, cade quando si rompe la fune cui è legato e non può essere più recuperato. Secondo altri, potrebbe alludere al secchio di cui ci si serviva a scopi igienici, prima di andare a letto. Una frase affine a “buonanotte al secchio”, in italiano, potrebbe essere
12. Perché, secondo te, Bianciardi ha intitolato il suo articolo Il traduttore e non Un traduttore?
L’emozione della lettura - volume B
Poesia e teatro