Versi per ridere

1. Versi per ridere

La poesia può essere veicolo di sentimenti sublimi, che ci commuovono profondamente, ma è in grado anche di divertirci, strappando sorrisi a denti stretti o sonore risate. In alcuni casi la componente umoristica diventa la caratteristica dominante di un componimento: si parla allora di poesia satirica, parodica o giocosa. Sono filoni spesso a contatto fra loro, permeabili l’uno all’altro: avrebbe perciò poco senso separarli in una classificazione rigida. Si può comunque osservare come il motore della poesia giocosa sia il desiderio di scherzare con le parole; nella satira invece prevale l’aggressività verso il bersaglio scelto, spesso guidata da seri intenti morali. A quest’ultima si possono in misura variabile ricondurre le parodie, che consistono nella riscrittura – ora bonaria, ora beffarda, ora feroce – di un testo celebre.

La poesia satirica

La satira prende di mira aspetti ridicoli, difetti e vizi di una persona o di una categoria di persone. A questo scopo la poesia può contare sulla capacità dei versi di concentrare un concetto in una formula, facilmente memorizzabile grazie al sostegno della rima. Battute, sberleffi, irrisioni consentono di mostrare le contraddizioni della realtà sulla base di un punto di vista alternativo rispetto a quello comune, spesso promosso da diffuse convenzioni sociali e culturali.

La poesia satirica ricorre volentieri all’ironia antifrastica: afferma cioè una cosa intendendo il suo contrario. In tal modo, personaggi, ambienti, mentalità e luoghi comuni vengono messi alla berlina, con toni sempre comici, ma con modalità che vanno dal sorriso bonario e dal rimprovero affettuoso all’invettiva e alla cattiveria intrisa di sarcasmo – termine, quest’ultimo, che viene dal greco antico e che alla lettera significa “togliere la pelle”. Ciò spiega come mai la poesia satirica nei secoli abbia subìto pesanti censure provenienti dai detentori del potere politico e religioso, decisi a vietare la pubblicazione di opere in grado di incrinare la loro immagine dinanzi al pubblico.

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Nei testi satirici dell’antica Roma si mescolavano vari ingredienti stilistici e tematici: non a caso il termine “satira” deriva dall’espressione latina satura lanx, che indicava un piatto con un misto di pietanze offerte agli dèi. I Romani svilupparono in forme originali questo genere, di cui si vantavano di essere gli ideatori. Inaugurato nel II secolo a.C. dalla rude aggressività di Gaio Lucilio, viene portato a vette poetiche straordinarie da Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), che nelle sue Satire prende spunto da avvenimenti quotidiani, commentandoli con toni ora polemici ora moralistici ora scherzosi, nell’intento di suscitare la riflessione del lettore. Più asciutte e pungenti le forme che assume la satira nei componimenti di Marco Valerio Marziale (40 ca-104 d.C.). Nei suoi brevissimi epigrammi (testi che in origine erano iscrizioni funerarie o commemorative) Marziale dà prova di eccezionale abilità nell’arte del fulmen in clausula (“fulmine in chiusura”), cioè nella stoccata finale, la battuta che incenerisce il bersaglio, costituito per lo più dai vizi di una Roma decaduta e corrotta ( T1, p. 276). Violente e venate di indignazione sono invece le parole di fuoco che Decimo Giunio Giovenale (50/60-127 d.C.) riversa nei suoi esametri e che nulla risparmiano di una società ritratta con acre riprovazione morale.

Maestro inarrivabile della satira medievale è Dante Alighieri (1265-1321), che nella Divina Commedia rivolge feroci e sarcastiche invettive verso la sua Firenze, che l’aveva costretto all’esilio, e verso molti personaggi di rilievo dell’epoca. Ben più serene, al confronto, appaiono le Satire con cui Ludovico Ariosto (1474-1533) nel Cinquecento torna al modello oraziano, mettendo insieme una serie di lettere a parenti e amici nelle quali si interroga sulle piccole e grandi difficoltà della vita.

Nel XVIII secolo le idee di giustizia sociale propugnate dall’Illuminismo favoriscono il maturare di una satira rivolta agli ozi e ai privilegi ingiustificati dei quali godeva la nobiltà: il frutto più importante di quella stagione è Il Giorno, poema in endecasillabi sciolti di Giuseppe Parini (1729-1799) che descrive, ridicolizzandoli, i riti e i costumi della scioperata esistenza quotidiana di un rampollo dell’aristocrazia. Gli stessi temi alimentano le satire di poeti romantici in dialetto, come il milanese Carlo Porta (1775-1821) e il romano Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863). Il primo ritrae con arguzia le «damazze» dell’aristocrazia ambrosiana, gli ecclesiastici indegni della tonaca e le umiliazioni a cui deve sottostare il popolo; il secondo tempesta papi e cardinali, visti dalla prospettiva di un mordace plebeo, come nel sonetto Cosa fa er Papa? ( T3, p. 283).

Un caso singolare, infine, è rappresentato dai Paralipomeni della Batracomiomachia, un poemetto in ottave composto da Giacomo Leopardi (1798-1837) a partire dal 1833. Il titolo significa “continuazione della battaglia fra le rane e i topi”, sulla quale verteva un poema greco antico, che il poeta aggiorna trasformandolo in un’estrosa caricatura delle idee circolanti ai suoi tempi.

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All’indomani dell’Unità d’Italia Giosue Carducci (1835-1907) nella raccolta Giambi ed epodi veste i panni del censore per sferzare la condotta dei politici mediocri e corrotti che hanno tradito gli ideali del Risorgimento: «Tutto che questo mondo falso adora / col verso audace lo schiaffeggerò», scrive nella prefazione.

La tradizione della poesia satirica si mantiene ben viva per tutto il Novecento, coltivata anche da autori più noti come lirici. Eugenio Montale (1896-1981), per esempio, in Satura riprende il termine latino per contraddistinguere versi improntati a una visione amara e disincantata della società moderna. Viva è anche l’antica arte dell’epigramma, praticata da poeti come Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Franco Fortini (1917-1994), al quale si deve la poesia più breve della letteratura italiana, dedicata a un intellettuale con il quale non era in sintonia, Carlo Bo. Il testo consta di una sola sillaba: «No».

Con parodia si intende la contraffazione di un’opera [#1] (di qualsiasi genere: una poesia, un romanzo, ma anche un film o un fumetto) che viene riscritta in termini umoristici, per esempio abbassando il livello sociale dei personaggi, o il loro linguaggio. Affinché sia riconoscibile e quindi apprezzata, una parodia deve necessariamente esercitare la propria azione su un’opera nota: per questo implicitamente riconosce, se non il valore, almeno il successo e l’importanza di ciò che viene parodiato. Essa è dunque, in definitiva, uno strumento di satira, ma anche il modo per rendere un omaggio scherzoso a un ammirato capolavoro, come dimostrano le innumerevoli riscritture della Divina Commedia.

In altri casi la parodia si configura come mero espediente per muovere al riso: basti pensare ai canti goliardici dei giullari, sviluppati come controcanto della poesia provenzale, o ai poeti che nel Medioevo elevavano lodi iperboliche a donne mostruose, rovesciando i procedimenti dell’amor cortese; oppure ancora ai poemi eroicomici, che trasportano i cliché dell’epica in ambienti umili, costringendo gli eroi a misurarsi in situazioni imbarazzanti: per esempio recuperare una «secchia rapita», come ci ricorda il titolo del capolavoro di Alessandro Tassoni (1565-1635). La parodia [#2] può anche concentrarsi su un semplice personaggio a tutti noto, come Ulisse: il torinese Guido Gozzano (1883-1916), per esempio, nel Re di Tempeste lo trasforma in un dongiovanni da strapazzo, che scorrazza per il mondo a bordo del suo yacht.

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La poesia giocosa

L’idea di scrivere versi con lo scopo principale di rallegrare il lettore prende piede già nel Medioevo. Un maestro in quest’ambito è il senese Cecco Angiolieri (1260 ca-1313), che dà scandalo esibendo con rumorosa enfasi la sua visione anticonformista e trasgressiva dell’esistenza, come nel sonetto S’i’ fosse foco ( T2, p. 279), burlesco elenco di spacconate. Dal Cinquecento la poesia giocosa viene detta anche “bernesca”, dal nome del pistoiese Francesco Berni (1497-1535), che nei suoi versi si scaglia vivacemente contro una serie di bersagli: mogli petulanti, medici incapaci, anziane inguardabili, animali testardi, cibi ripugnanti, alloggi scomodi… Poco aggiungono a questo repertorio, ripetuto all’infinito, i secoli successivi. Solo nel Novecento si affaccia un nuovo modello di poeta umoristico, il saltimbanco, che con le sue piroette verbali mette in discussione i cardini stessi della società, come fa esemplarmente Aldo Palazzeschi (1885-1974) in Chi sono?

Un altro sentiero seguito dalla poesia giocosa è quello del nonsense, ovvero delle poesie prive di un senso logico riconoscibile. In questo campo uno straordinario anticipatore è il fiorentino Domenico di Giovanni, detto il Burchiello (1404-1449), autore di versi in cui parole e concetti si succedono senza coerenza; basti a questo proposito ricordare l’incipit di uno dei suoi più celebri componimenti: Nominativi fritti e mappamondi. La cultura che più volentieri pratica il nonsense è quella anglosassone, che spesso si diverte ad associare immagini assurde e surreali, in divertenti combinazioni sonore: a questa tendenza ha guardato il romano Toti Scialoja (1914-1998), che nel secondo Novecento ne ha offerto alcuni esempi memorabili ( T4, p. 287).

Molti poeti, infine, hanno praticato veri e propri giochi di parole, sfruttando procedimenti comuni all’enigmistica. Fra i più frequentati si possono ricordare l’acrostico (le lettere iniziali di ciascun verso formano un nome o una parola di senso compiuto), il centone (testo composto da frammenti di versi altrui, ricombinati in un collage), il lipogramma (testo in cui si rinuncia a utilizzare una o più lettere dell’alfabeto) e il tautogramma (testo in cui tutte le parole hanno la stessa iniziale).

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EmozionArti
L’immaginario della lingua e il nonsense

Hai mai pensato a quanto la lingua sia ricca di espressioni che, se prese alla lettera, possono proiettarci in mondi imprevedibili? L’artista Gino De Dominicis (1947-1998) l’ha fatto con la sua Mozzarella in carrozza! All’interno di una elegante e antica carrozza nera (un rea­dy made, ovvero un oggetto già esistente), ha collocato una mozzarella vera, un materiale reale e deperibile, che dovrà essere sostituito e mostrato sempre fresco in caso di esposizione in mostra. Ecco svelata la potenza dell’immaginario della lingua… Ti viene in mente altro? Un freddo cane!… L’uovo in camicia… E poi?

Verifica delle conoscenze

1. Quali sono i principali filoni della poesia umoristica?

2. Perché i poeti satirici sono stati spesso censurati?

3. Quale fu la prima patria della satira?

4. I poeti contemporanei praticano la satira?

5. Che cos’è una parodia?

6. Di che cosa tratta la poesia giocosa?

7. Che cosa si intende con nonsense?

8. Qual è il legame fra enigmistica e poesia giocosa?

L’emozione della lettura - volume B
L’emozione della lettura - volume B
Poesia e teatro