Maestro inarrivabile della satira medievale è Dante Alighieri (1265-1321), che nella Divina Commedia rivolge feroci e sarcastiche invettive verso la sua Firenze, che l’aveva costretto all’esilio, e verso molti personaggi di rilievo dell’epoca. Ben più serene, al confronto, appaiono le Satire con cui Ludovico Ariosto (1474-1533) nel Cinquecento torna al modello oraziano, mettendo insieme una serie di lettere a parenti e amici nelle quali si interroga sulle piccole e grandi difficoltà della vita.
Nel XVIII secolo le idee di giustizia sociale propugnate dall’Illuminismo favoriscono il maturare di una satira rivolta agli ozi e ai privilegi ingiustificati dei quali godeva la nobiltà: il frutto più importante di quella stagione è Il Giorno, poema in endecasillabi sciolti di Giuseppe Parini (1729-1799) che descrive, ridicolizzandoli, i riti e i costumi della scioperata esistenza quotidiana di un rampollo dell’aristocrazia. Gli stessi temi alimentano le satire di poeti romantici in dialetto, come il milanese Carlo Porta (1775-1821) e il romano Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863). Il primo ritrae con arguzia le «damazze» dell’aristocrazia ambrosiana, gli ecclesiastici indegni della tonaca e le umiliazioni a cui deve sottostare il popolo; il secondo tempesta papi e cardinali, visti dalla prospettiva di un mordace plebeo, come nel sonetto Cosa fa er Papa? (▶ T3, p. 283).
Un caso singolare, infine, è rappresentato dai Paralipomeni della Batracomiomachia, un poemetto in ottave composto da Giacomo Leopardi (1798-1837) a partire dal 1833. Il titolo significa “continuazione della battaglia fra le rane e i topi”, sulla quale verteva un poema greco antico, che il poeta aggiorna trasformandolo in un’estrosa caricatura delle idee circolanti ai suoi tempi.