T3 - Portatemi il tramonto in una coppa (E. Dickinson)

T3

Emily Dickinson

Portatemi il tramonto in una coppa

  • Data di composizione 1859 ca
  • Titolo originale Bring me the sunset in a cup
  • Metro dell’originale sestine rimate AAbccb, con irregolarità
  • Metro della traduzione sestine di versi liberi
L’autrice

Emily Dickinson nasce nel 1830 ad Amherst, nel Massachusetts, in una famiglia di estrazione borghese e di princìpi puritani. Diciassettenne, trascorre un anno in un rigido collegio religioso, ma la salute cagionevole la costringe a tornare a casa, sotto il controllo oppressivo del padre. Insofferente e anticonformista, si distacca dalla religione della famiglia e intraprende una serie di viaggi: a Filadelfia conosce il reverendo Charles Wadsworth, con il quale intratterrà una fitta corrispondenza epistolare, animata da un travolgente sentimento amoroso. Verso i trent’anni, Emily decide di isolarsi nella casa paterna, dove passerà il resto dei suoi giorni dedicandosi alla scrittura di lettere e poesie. A un certo punto si rifiuta addirittura di uscire dalla sua camera da letto, comunicando all’esterno solo con biglietti scritti; dopo il 1865, inoltre, indossa spesso un abito bianco da «monaca ribelle», per sottolineare la sua dedizione verso l’assoluto e la scrittura poetica. Muore nel 1886, pressoché ignorata dagli ambienti letterari. La Dickinson ha scritto oltre 1700 componimenti, in parte pubblicati nella raccolta postuma Poems (1890); l’edizione definitiva della sua opera in versi è uscita soltanto nel 1955.

Questa poesia di Emily Dickinson è costruita su una serie di domande incalzanti. È possibile contare le meraviglie della natura, come le stelle del cielo o i fiori su cui si posano le api? Quanto è grande il mattino? E chi è l’architetto, l’ingegnere che progetta e mantiene tanta perfezione?

Portatemi il tramonto in una coppa,

numerate i flaconi del mattino,

contate la rugiada:

ditemi dove il mattino si spinge,

5      ditemi quando dorme il tessitore

che ordì l’azzurra vastità!


Descrivetemi quante son le note

dell’estasi del nuovo pettirosso

fra gli attoniti rami;

10    quanti viaggi fa la tartaruga,

e quanti calici deliba l’ape –

la dissoluta di rugiade!


E chi fece i piloni dell’arcobaleno

e chi conduce le docili sfere

15    con vincastri di tenero azzurro?

Quali dita intrecciarono stalattiti,

chi conta i chicchi della notte,

perché nessuno manchi?


Chi costruì questa casetta argillosa

20    e così forte chiuse le finestre

che il mio spirito nulla può distinguere?

E chi mi farà uscire qualche giorno di gala,

con ali per volare

più belle d’ogni fasto?


Emily Dickinson, Tutte le poesie, trad. di M. Guidacci, Mondadori, Milano 1997

 >> pagina 228 

a TU per TU con il testo

Secondo alcuni il pensiero scientifico, scoprendo le leggi della natura, ha dissipato l’incanto e il mistero che in passato avvolgevano il mondo. Sapere come bruciano le stelle o come nascono le montagne non le rende però meno affascinanti ma, al contrario, ancora più portentose. Comprendiamo allora la meraviglia che portò sacerdoti e poeti dell’antichità a celebrare Dio come un grande costruttore, sublime artefice del creato. Chi conosce la mae­stria necessaria, per esempio, a costruire un ponte, una nave o una città, non può rimanere indifferente dinanzi alla struttura dell’universo: un meccanismo, anzi, un insieme sterminato di meccanismi che funziona alla perfezione. Dei grandi spettacoli della natura non colpisce tanto, o non solo, la bellezza, ma soprattutto l’efficienza. Pensiamo all’anatomia del fiore, al balzo della tigre, alla forma di una conchiglia… tutto è calcolato al millimetro, serve il suo scopo, è disegnato con meticolosa accuratezza. Man mano che la conoscenza allarga i suoi orizzonti, la macchina dell’universo si scopre sempre più complessa e perfetta: qualunque siano le nostre convinzioni in materia religiosa, siamo commossi, e talvolta inquietati, da tale progetto. Dalla sua vastità, dalla sua ambizione: dal marchio di fabbrica sicuro, inconfondibile, che accomuna il microbo e la galassia.

 >> pagina 229 

Analisi  attiva 

La poetessa formula una serie di pressanti richieste, indirizzate a un “noi” generico e impersonale. Lo fa con un atteggiamento esuberante e giocoso: vuole che le sia servito il tramonto dentro una coppa (v. 1), che la luce dell’alba, il mattino, al pari di un liquido, venga misurata in recipienti (flaconi del mattino, v. 2) e che venga svelato il numero delle stille di rugiada (v. 3). A prima vista, si tratta di pretese assurde, alle quali gli imperativi, la sintassi paratattica e l’anafora dei vv. 4-5 (ditemi dove […] / ditemi quando) conferiscono il tono di un’insistenza capricciosa, quasi infantile.


1. L’appello-richiesta a un “noi” indica che

  •     l’io lirico desidera comunicare con qualcuno. 
  •     l’io lirico desidera comunicare con Dio. 
  •     le domande che l’io lirico si pone sono di portata universale. 
  •     le domande che l’io lirico si pone riguardano lei e Dio.


2. Ditemi dove il mattino si spinge (v. 4) significa

  •     ditemi a che ora finisce il mattino. 
  •     ditemi a che ora comincia il mattino. 
  •     ditemi se è possibile stabilire i limiti del mattino. 
  •     ditemi se è mattino.

La curiosità divertita però non deve ingannare: attraverso i suoi desideri paradossali, la poe­tessa aspira a penetrare i segreti della natura, e contemporaneamente a ribadirne l’incommensurabilità rispetto alle possibilità della ragione umana. Non a caso, dopo la richiesta su dove “sparisce” il mattino (v. 4), la sua voglia di conoscere si appunta sul tessitore / che ordì l’azzurra vastità (vv. 5-6), immagine metaforica dietro la quale si cela la presenza di Dio. Il tema è impegnativo, ma viene sviluppato con leggerezza attraverso domande destinate a non avere risposta: a che ora dorme il creatore, mentre l’universo è continuamente pervaso dal moto incessante della vita?

La seconda strofa si sposta dai fenomeni meteorologici e celesti al regno animale, mantenendo invariata la necessità di “quantificare” le manifestazioni con le quali il mondo mostra la propria bellezza: si chiede così di contare le note del pettirosso (vv. 7-9), i viaggi della tartaruga (v. 10) e il numero dei fiori su cui si posa l’ape (vv. 11-12). Prorompe in tal modo il quadro di una gioiosa natura primaverile, nella quale balena il motivo del piacere amoroso, introdotto dall’estasi del […] pettirosso (v. 8) e dal bizzarro epiteto associato all’ape, la dissoluta di rugiade (v. 12).


3. Che cos’è l’azzurra vastità dei vv. 5-6?


4. Dissoluta di rugiade (v. 12) significa che

  •     si scioglie con la rugiada. 
  •     si libera dalla rugiada. 
  •     ama appassionatamente la rugiada. 
  •     beve con voluttà la rugiada. 


5. Quali sono gli elementi della creazione enumerati dall’io lirico? Inseriscili nella seguente tabella.


Elementi grandi/infiniti  
Elementi piccoli/minuti  

 >> pagina 230 

Nella terza strofa un ulteriore passaggio sintattico e argomentativo introduce una serie di interrogative dirette (e non indirette, come ai versi precedenti) dedicate alla misteriosa identità del creatore. La poetessa si chiede chi abbia progettato l’arcobaleno, utilizzando un’elaborata e implicita sineddoche che si può parafrasare così: “Chi ha costruito i pilastri che sostengono l’arcobaleno, come se fosse un vero ponte?”. Ai vv. 14-15, invece, Dio è rappresentato come un pastore che conduce un gregge composto da “sfere celesti”, usando bastoni fatti d’azzurro.

La strofa si chiude illustrando altri portenti naturali, che l’“ingegnere della creazione” fabbrica e modella direttamente: le stalattiti delle grotte, intrecciate come fili (v. 16), e le stelle, metaforicamente trasfigurate nei chicchi della notte al v. 17. Vediamo come in questo verso emerga ancora il motivo della “numerazione”: il creatore è in grado di contare le stelle, per definizione innumerevoli, addirittura verificando eventuali assenze.


6.piloni dell’arcobaleno (v. 13) indicano

  •     gli archi di cui è composto. 
  •     le estremità su cui sembra poggiare. 
  •     i colori di cui è costituito. 
  •     il vertice del suo arco. 


7. Nell’espressione chi conduce le docili sfere con vincastri di tenero azzurro (vv. 14-15) viene usata un’immagine tratta dal mondo

  •     militare. 
  •     agricolo-pastorale. 
  •     mercantile. 
  •     naturale.

A fronte della potenza creatrice esaltata poco prima, la quarta e ultima strofa propone un brusco e drammatico cambio di tono. Infatti, sebbene la sintassi crei un legame con i versi precedenti (si veda l’anafora del Chi a inizio strofa, collegata a quelle dei vv. 13, 14 e 17), l’oggetto costruito da Dio è stavolta una piccola casetta argillosa (v. 19), in cui lo spirito (v. 21) dell’io lirico si trova completamente murato. Se a una prima interpretazione la casetta può sembrare un’allusione al corpo o alla camera in cui ha vissuto reclusa, il raffronto con la simbologia tipica delle poesie della Dickinson fa propendere per un riferimento al motivo della morte e dell’aldilà, oltre i limiti angusti dell’esistenza terrena.

Ma la speranza di entrare nel regno sontuoso del Paradiso non impedisce alla poetessa di esternare gli ultimi dubbi sulla natura e sulle intenzioni di chi ha creato la vita: se Dio ha fabbricato stelle, arcobaleno e grotte, perché ha costruito anche la morte, che chiude le finestre e impedisce di distinguere (v. 21) le portentose bellezze della natura? L’ultima frase, infine, suona come un interrogativo sulla possibile resurrezione: chi libererà l’anima dal carcere della morte, nell’occasione di una lussuosa festa (giorno di gala, v. 22) “spirituale”? È davvero possibile raggiungere l’immortalità, al di là della vuota e pomposa retorica religiosa, simboleggiata dal fasto del v. 24? In caso affermativo, lo spirito della protagonista volerebbe ancora – grazie a elegantissime ali, v. 23 – ad assaggiare le meraviglie del mondo.


8. La casetta argillosa (v. 19) è una dimora

  •     solida e robusta. 
  •     ricca e sfarzosa. 
  •     povera e umile. 
  •     moderna e confortevole. 


9. Perché al chiuso della casetta argillosa lo spirito della poetessa non può distinguere nulla? Che cosa cambia nell’interpretazione se consideriamo la casetta come metafora del corpo mortale o come metafora della morte?

 >> pagina 231 

Laboratorio sul testo

COMPETENZE LINGUISTICHE

10. Il linguaggio figurato. La catacresi. Quando utilizziamo il termine “calice”, che propriamente indica un particolare tipo di bicchiere, per indicare l’insieme dei petali di un fiore, stiamo usando una “catacresi”, ovvero una figura retorica consistente nell’estendere una parola o una locuzione oltre i limiti del suo significato proprio: è, in pratica, una sorta di metafora “normalizzata”, che ormai non è più avvertita come tale. Sembrerebbe qualcosa di molto complesso, ma in realtà è una figura molto utilizzata anche nel linguaggio quotidiano (per esempio: “voglio proprio vedere che cosa mi dirà”). Ecco alcune parole o espressioni che possono essere usate sia in senso proprio sia come catacresi: scrivi una frase per ciascuna possibilità.


Collo  
Gamba  
Calzare  
Essere a cavallo  
Albero  

PRODURRE

11. Scrivere per esprimere. La concezione del sacro espressa dalla Dickinson è simile alla tua? Perché? Rispondi in massimo 25 righe.

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

LETTERATURA E…

Il libro dei Salmi è uno dei libri poetici della Bibbia che raccoglie componimenti di diverso tipo: inni di lode, suppliche o ringraziamenti a Dio. Leggi alcuni degli inni dedicati alla bellezza della creazione (per esempio, il salmo 8 e il salmo 104) e confrontali con il testo che hai appena letto.

 >> pagina 232 

Se ti è piaciuto…

Un personaggio onnipotente: Dio

Sono parecchi, nella storia del cinema, gli attori che si sono sentiti chiedere di interpretare il più inatteso dei ruoli: Dio. Nel tempo, produttori, registi e sceneggiatori hanno elaborato un originale ventaglio di idee per fare spazio a una figura così… ingombrante. Nessuno per fortuna ha pensato di recuperare la soluzione classica, quella della tragedia greca, che prevedeva l’irruzione dall’alto di un deus ex machina, appeso a una fune mossa da una gru di legno, incaricato di risolvere felicemente una soluzione senza vie di uscita.

Al cinema la scelta più ovvia è stata quella di lasciare Dio fuori scena, o rappresentarlo in forma astratta, per esempio come luce o fuoco: è ciò che accade nel film diretto da Cecil B. DeMille (1881-1959) I dieci comandamenti (1956), dove la fiamma divina intaglia nella roccia le tavole della legge sotto lo sguardo attonito di Mosè, interpretato da Charlton Heston (1923-2008).

In un altro colossal americano, La Bibbia (1966), il regista John Huston (1906-1987) si limitò a fare udire la voce tonante della divinità: che era poi la sua…

Non è mancato chi ha provato a dare alla divinità sembianze umane, ispirandosi alla tradizione cristiana, che a differenza di quella ebraica e islamica non vieta rigidamente questa opportunità. Oltre ai connotati di maschio anziano e barbuto, ripresi da una millenaria tradizione pittorica, ci sono state operazioni singolari, soprattutto nei film girati in chiave di commedia. Nella produzione più recente si può ricordare Dogma (1999) di Kevin Smith (n. 1970), nel quale la parte è affidata a una donna, Alanis Morissette (n. 1974), che impersona un Dio vicino alla filosofia hippie, appassionato giocatore di flipper.

In Una settimana da Dio (2003)a interpretare il ruolo dell’Ente Supremo è invece un attore afroamericano, Morgan Freeman (n. 1937), che sfrutta tutto il suo carisma costruendo un personaggio memorabile, che cede temporanea­mente i suoi poteri a un anonimo giornalista di provincia, interpretato da Jim Carrey, il quale li gestisce nel peggiore dei modi, con esiti rovinosi… e comici!

L’incarnazione più bizzarra e scanzonata si trova probabilmente in una pellicola del belga Jaco Van Dormael (1957), Dio esiste e vive a Bruxelles (2015). In questo caso il Signore vive con la moglie e una figlia in uno scalcinato appartamento della capitale belga, dove ha allestito una stanza segreta dalla quale governa i destini degli uomini tramite un personal computer, in sandali e vestaglia.

All’interno del mondo videoludico, infine, spiccano i cosiddetti god game, in cui il giocatore impersona il ruolo di un dio chiamato a intervenire nello sviluppo di una civiltà con i propri poteri soprannaturali. Uno dei più famosi god game dei primi anni Duemila è Black and White (2001), che ci permette di costrui­re, passo passo, una carriera da dio misericordioso oppure crudele e sanguinario. Attraverso una “mano divina” che si muove sullo schermo, il giocatore influisce direttamente sulla vita dei suoi fedeli: può curare, punire, convertire, eseguire miracoli, signore indiscusso del suo popolo.

L’emozione della lettura - volume B
L’emozione della lettura - volume B
Poesia e teatro