Alla scoperta dei testi

T1

Giovanni Pascoli

L’assiuolo

  • Tratto da Myricae, 1897 (IV edizione)
  • Metro tre strofe a rima alternata (ABABCDCd) formate da sette novenari e un ternario tronco
L’autore

Giovanni Pascoli nasce nel 1855 a San Mauro di Romagna. La sua giovinezza è segnata da una serie di lutti familiari: prima muore il padre, assassinato da sconosciuti nel 1867, poi la madre e quattro fratelli. Nel 1873 grazie a una borsa di studio può iscriversi all’Università di Bologna, ma dopo qualche anno abbandona gli studi. Vive in povertà e conosce nel 1879 il carcere per motivi politici: è infatti un rivoluzionario socialista, ma la reclusione lo induce a rivedere le proprie idee e a riprendere l’università. Dopo la laurea, nel 1882, insegna Latino e Greco nei licei di Matera, Massa e Livorno, prima di trasferirsi, nel 1895, a Castelvecchio di Barga, in Toscana. Dal 1897 lavora all’Università di Messina, che lascia per approdare a Bologna, dove nel 1905 subentra al suo maestro, Giosue Carducci, alla cattedra di Letteratura italiana. È la definitiva consacrazione come studioso; nei panni di poeta ha invece raggiunto la celebrità da tempo, grazie alla raccolta Myricae (1891), più volte rivista e ampliata, alla quale fanno seguito i Poemetti (1897), i Canti di Castelvecchio (1903), i Poemi conviviali (1904). Pascoli scrive versi anche in latino, che gli garantiscono varie medaglie al concorso internazionale di Amsterdam. Muore a Bologna nel 1912.

Pascoli descrive le impressioni di una notte suggestiva in campagna, il suo scenario preferito. All’orizzonte, il nero di un temporale. Intorno, il chiarore della luna nel cielo velato si riverbera su alberi e campi. Il silenzio è rotto soltanto da rumori lievissimi e dal verso ritmato di un uccello simile alla civetta, l’assiuolo, che dà al quadro un tocco misterioso e sinistro.

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

5      Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù


Le stelle lucevano rare

10    tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

15    Sonava lontano il singulto:

chiù


Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

20    finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?…);

e c’era quel pianto di morte…

chiù


Giovanni Pascoli, Myricae, a cura di G. Lavezzi, Rizzoli, Milano 2015

 >> pagina 129 

a TU per TU con il testo

Immagina di essere in un luogo che conosci bene. Un luogo domestico, familiare, che vedi spesso o addirittura tutti i giorni, senza farci troppo caso. Immagina di capitarci in un’ora inconsueta, un’ora in cui non l’avevi mai visto. Nella solitudine, noti una luce particolare, che ti sorprende. Un rumore strano ti fa sobbalzare: ci vuole un po’ per capire di che cosa si tratta, e da dove arriva. Oppure nessuna luce, buio totale e un silenzio perfetto. Una combinazione molto rara ai nostri tempi, che piano piano instilla una sottile inquietudine. È lo stesso sentimento che prova Pascoli nel guardare il solito melo, il solito mandorlo, inondati dalla luce lunare. In casi come questi, una sensazione indefinibile di disagio si impadronisce di noi. All’improvviso nella mente esplode un ricordo doloroso, o si risveglia una vecchia paura che credevamo sepolta. Ora siamo pronti a sentire il verso dell’assiuolo.

 >> pagina 130 

Analisi

Lo spettacolo della natura, che si manifesta attraverso il sorgere della luna in una notte chiara e i rumori che animano la campagna, si carica progressivamente di valenze misteriose. Come sempre accade nelle poesie di Pascoli, ogni particolare rimanda a qualcos’altro di più profondo e ignoto: la realtà, in tutti i suoi aspetti, nasconde un significato simbolico che il poeta coglie grazie alla propria sensibilità. Qui la serena luminosità dei primi versi viene filtrata dall’interiorità dell’io lirico: gli elementi del paesaggio finiscono per alludere ad antiche memorie personali, a passati dolori, a segreti luttuosi.

Già nella domanda con la quale il componimento si apre (Dov’era la luna?, v. 1) si riconosce la presenza di una soggettività inquieta. L’attesa dell’apparizione della luna si trasmette alla natura che, umanizzata, risente di questo turbamento: il cielo sembra nuotare, e il mandorlo e il melo (v. 3) danno l’impressione di elevarsi per scrutare meglio l’orizzonte.

Gli alberi vengono designati da Pascoli con precisione ed esattezza lessicale, ma questa scelta non conduce al realismo della rappresentazione: tutto il testo infatti presenta contorni sfumati, in cui domina l’indeterminatezza. Nei primi versi possiamo cogliere un cromatismo indefinito che rende l’atmosfera come sospesa: il profilo delle piante si staglia su un’alba di perla (v. 2), una nebbia di latte (v. 10), che allude al chiarore opalescente del cielo. A queste analogie si oppongono la sinestesia soffi di lampi (v. 5), che lascia soltanto immaginare il rombo dei tuoni, ai quali in genere i lampi si accompagnano, e la metonimia del nero di nubi (v. 6), che evidenzia il colore cupo di una parte del cielo attraverso un’espressione in cui la qualità (nero) prevale sulla sostanza materiale indicata dal sostantivo (nubi). Solo alla fine della prima strofa, dopo aver insistito su sensazioni visive, Pascoli introduce una lieve notazione sonora, la voce dell’assiuolo che dai campi fa sentire il proprio richiamo, chiù

Altri suoni cadenzati vengono a sommarsi nella seconda strofa: il cullare del mare (v. 11), il cui ondeggiare viene imitato musicalmente dalla ripetizione della desinenza -are, e il fru fru tra le fratte (v. 12), reso con l’allitterazione in fr. Nel cuore del poeta, che li filtra (come sottolinea la triplice anafora sentivo ai vv. 11-13, che pare collegare per analogia la dimensione esteriore della natura a quella interiore dell’anima dell’io lirico), questi rumori si traducono in un sussulto, com’eco d’un grido che fu (v. 14): probabile allusione all’evento che segnò la sua esistenza, ovvero l’agguato in cui il padre perse la vita.

L’angoscia che si percepisce conosce un crescendo sottolineato dal ripetersi dell’onomatopea chiù, che da semplice voce (v. 7) diventa, mediante un climax ascendente, singulto (v. 15), per poi trasformarsi nell’ultima strofa in un misterioso pianto di morte (v. 23).

Il fonosimbolismo, ovvero la creazione di parole ed espressioni che riproducono i suoni della natura, acquisisce così un senso tragico. Il cupo e ossessivo richiamo dell’assiuolo assurge infatti a sinistro messaggio funebre, come traspare più chiaramente nei versi finali della poesia.

Nell’ultima strofa l’osservazione di normali fenomeni naturali si fa minuta. Con acutissima sensibilità il poeta considera prima il vento notturno che fa oscillare le cime degli alberi (vv. 17-18), poi i fruscii prodotti dalle ali delle cavallette, paragonati con una raffinata allitterazione a finissimi sistri d’argento (v. 20). Cade qui, al capo opposto della poesia, il secondo punto interrogativo dopo quello iniziale: quale significato ha quel tintinnio? È forse chiamato ad aprire invisibili porte (v. 21), in grado di mettere in comunicazione il poeta con i propri cari defunti? Il riferimento ai sistri, strumenti legati al culto della dea egizia dei morti Iside, lo lascia credere. Ma anche questa domanda resta senza risposta, come fanno intendere i puntini di sospensione (v. 22). Il chiù dell’assiuolo ribadisce l’unica realtà certa e incontrovertibile che incombe sul poeta, così come su ogni uomo: la morte.

 >> pagina 131 

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Il paesaggio descritto è

  •     di montagna. 
  •     cittadino. 
  •     di campagna, ma con tracce umane. 
  •     di campagna, senza tracce dell’uomo. 


2. Rielabora in un sintetico testo descrittivo il contenuto di ciascuna delle tre strofe (2-3 righe per strofa).

ANALIZZARE E INTERPRETARE

3. In ciascuna delle tre strofe possono essere individuati dei temi ricorrenti: la descrizione del paesaggio notturno, il verso dell’assiuolo, la percezione di suoni familiari e quella di suoni che generano inquietudine. Individua la disposizione di questi temi in ogni strofa: quali osservazioni puoi fare?


4. A quali suoni viene associato il verso dell’assiuolo? Quale figura retorica puoi individuare? Che significato assume allora il verso dell’uccello notturno?


5. Individua nel testo i termini e le espressioni riferite al colore: che tipo di paesaggio notturno ne emerge?


6. Individua nel testo tutti i termini riferibili a sensazioni uditive e inseriscili nella tabella. Quale valore ha l’udito, in questo componimento?


Nomi  

Verbi  

Onomatopee/parole onomatopeiche  

7. Individua nel testo un esempio delle seguenti figure retoriche:


a) Anafora: 

 


b) Sinestesia: 

 


c) Metafora: 

 


d) Rima interna: 

 


e) Allitterazione: 

 


f) Onomatopea:

 

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COMPETENZE LINGUISTICHE

8. Lessico. La derivazione. Inserisci nella tabella i nomi e i verbi che hai individuato nell’esercizio 6. Per ciascuno di essi indica poi il verbo o il nome che derivano dalla stessa radice.


Nome Verbo
   
   
   
   
   
   
   
   

PRODURRE

9. Scrivere per descrivere. Prova a ribaltare la situazione descritta da Pascoli e a trasformare questo “notturno” in un paesaggio diurno altrettanto inquietante (massimo 15 righe).

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

SCIENZE

L’assiuolo, come il gufo e la civetta, è un rapace notturno; oltre a essi, molti altri animali preferiscono vivere di notte anziché di giorno: prova a individuarne alcuni e fai una ricerca su come vivono, come si nutrono e come funzionano i loro sensi, che si sono evoluti così da adattarsi al buio.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Questo “chiaro di luna” pascoliano è tutto fuorché romantico: che cosa ha trasformato una situazione quasi stereotipata dell’immaginario comune in un paesaggio inquietante e misterioso? Prepara un’esposizione orale di circa due minuti per comunicare le tue impressioni.

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Se ti è piaciuto…

Luna da mangiare e… da uccidere

La luna è una fonte ricorrente dell’ispirazione di poeti e pittori. Perfino Omero, che ambienta di giorno i combattimenti dell’Iliade e le avventure dell’Odissea, non può resistere alle suggestioni del calare delle tenebre, mentre la luna signoreggia sul mondo degli uomini e finalmente si placa l’ira dei guerrieri: «come quando in cielo stelle intorno a una fulgente luna / appaiono, splendidi punti, e l’aria si distende, senza vento» (Iliade, VIII, vv. 555-556).

Per Saffo (630 a.C. ca-570 a.C.) è un’amica nelle notti trascorse in solitudine («Calata è la mia luna / e Plèiadi: mezza / notte. Scivolano ore. / Io, sola, in questo letto…», fr. 468); per Catullo (85-54 a.C.), invece, è la madre di tutti noi, la protettrice dei popoli e la garante della vita: «Tu sei dea. Con l’orbita del mese / suddividi il corso d’ogni anno. / Col raccolto buono riempi / il rustico granaio al contadino» (XXXIV). Chi può fare a meno di specchiarsi nella luna, che diventa spesso simbolo dell’esistenza? Perfino nutrimento, cibo vero e proprio, un boccone da assaporare.

Per l’inglese Emily Brontë (1818-1848) è la «polpa di una mezzanotte estiva», per lo spagnolo Antonio Machado (1875-1939) è «un favo di luce, lavoro di bianche pecchie», cioè puro miele creato dalle api, per Andrea Zanzotto (1921-2011) è «glabro latte», un liscio concentrato di zucchero. Insomma, una luna da mangiare, sempre «grazïosa», come recita il più famoso dei cantori del corpo celeste, Giacomo Leopardi, che la invoca nella lirica Alla luna come confidente delle proprie angosce.

Tuttavia, a fronte delle legioni di poeti estasiati dalla sua bellezza, non manca neppure chi canta fuori dal coro, dipingendo la luna come vecchia, noiosa, sempre uguale a se stessa, materia retorica di facili verseggiatori. E allora ecco gli insulti confezionati da parte dei poeti del Seicento barocco, sempre alla caccia di invenzioni originali e sorprendenti: rivolgendosi alla «Luna perversa», Giambattista Marino (1569-1625) deride il suo «pallor di nere macchie immondo». O peggio vere e proprie dichiarazioni di odio, come quella pronunciata da Giosue Carducci (1835-1907): «Odio la faccia tua stupida e tonda, / L’inamidata cotta, / Monacella lasciva ed infeconda, / Celeste päolotta» (Classicismo e romanticismo, vv. 37-40). La povera luna insomma diventa perfino l’incarnazione dell’ipocrisia e del bigottismo (il termine “päolotta” viene dall’ordine religioso di San Francesco de Paoli). La “colpa” è del Romanticismo che ha eletto l’astro notturno a simbolo del sentimento, testimone silenziosa degli amori e dei dolori dell’individuo. Il plenilunio, i languori e i sospiri degli innamorati…: i poeti futuristi, nel 1911, arrivano a gridare Uccidiamo il chiaro di luna! Ma forse non ce n’è più bisogno da quando nel 1969 l’uomo ha messo piede sul luogo principale della sua immaginazione. Non è che la povera luna è morta, almeno nella poesia, in quel momento?

L’emozione della lettura - volume B
L’emozione della lettura - volume B
Poesia e teatro