T5 - Il piccolo emigrante (M. Balzano)

Il tema: L’emigrazione

T5

Marco Balzano

Il piccolo emigrante

  • Tratto da L’ultimo arrivato, 2014
  • romanzo
L’autore

Marco Balzano nasce a Milano nel 1978. Dopo aver frequentato il liceo classico, si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Milano e parallelamente si dedica alla musica, suonando come batterista e percussionista in diverse band. Dopo la laurea, consegue il dottorato con una tesi sul pensiero politico di Leopardi, poi confluita nel volume I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo (2008). Nel 2007 pubblica una raccolta di poesie, Particolari in controsenso, e nel 2010 esce il suo primo romanzo, Il figlio del figlio, dedicato ai rapporti tra le generazioni all’interno di una famiglia pugliese, immigrata da tempo a Milano. Dopo Pronti a tutte le partenze (2013), si aggiudica il premio Campiello con L’ultimo arrivato (2014), epopea di un siciliano salito a Milano alla fine degli anni Cinquanta, nel pieno del cosiddetto “miracolo economico”.

È il 1959: Milano vive una rapidissima crescita economica, attraendo moltissimi immigrati dal Sud Italia. Ninetto – un bambino siciliano di nove anni – lascia il paese natale per cercare fortuna nel ricco capoluogo lombardo. Dopo un lungo viaggio in treno e una notte passata all’addiaccio, di fianco alla stazione, arriva a Baranzate, un paese di periferia dove i parenti di un compaesano sono pronti a ospitarlo. Il mattino dopo il giovane si mette all’opera, deciso a trovare subito lavoro.

Tirava un vento grosso1 e appena sceso dal tram mi arrivò addosso una coppola2 a
quadri volata dalla capa3 pelata di un signore. Subito me la infilai in testa e quando
quello si guardò attorno disperato entrai in un vicoletto come pure ce ne sono a
Milano se li sai cercare.

5      Cominciai dai barbieri. Entravo, mi toglievo la coppola che mi arrivava sul naso
e chiedevo.

«Napulì4 non ne vogliamo», rispondevano certi senza nemmeno lasciarmi finire
la domanda.

Chiariamoci subito: questa storia di essere chiamato napulì l’ho sopportata perché 

10    giravo con un maglione cucito da mamma mia con al centro una bella N, che
però era quella di Napoleone, il generale vittorioso, non di Ninetto e tanto meno di
napulì. Io credevo che fosse per la lettera del maglione che mi chiamavano in quel
modo e allora lasciai correre, mica potevo ogni volta stare a spiegare che io a Napoli
non c’ero stato mai e sapevo solo la scheda di geografia.5 Uscivo dalle botteghe e 

15    nella loro lingua strana mi gridavano di chiudere bene la porta. A furia di chiedere
capii che i barbieri avevano già tanti picciriddi6 che spazzavano per terra e passavano
forbici, pennellesse7 e pomate, allora entrai in una decina di bar, ma niente. In
una panetteria. In una pizzeria. In una libreria. In una camiceria! Un negozio mai
visto, con camicie ovunque, ma niente pure lì. Finché il corso terminò. Davanti a me 

20    cominciava un’altra strada larga e poi i giardini di Porta Venezia. Mi fermai con le
mani a visiera sulla fronte a guardarmi in giro. Feci ballare gli occhi e vidi dall’altra
parte della strada nuovi negozi. Su uno c’era scritto «Lavanderia del Corso». Andai
a vedere. Dietro i vetri c’erano quattro ragazze che stiravano e sbuffi di vapore gli
facevano le guance rosse come pesche. Erano belle, ma più di tutte una, bionda e 

25    con le minne8 abbondanti! Un cartello sulla porta diceva «Cercasi galoppino».9 Di
scatto mi pettinai con le mani ed entrai. Una di loro mi guardò senza interesse e 

chiamò la padrona. Quella gridò: «Chiedigli se può cominciare oggi! Chiedigli se ha
la bicicletta!», finché la ragazza mi accompagnò nella stanza da dove arrivava quella
voce sgraziata. Prima di farmi entrare mi disse nell’orecchio: «Quando ti chiede 

30    se conosci le strade di Milano, rispondi sempre sì, altrimenti niente lavoro», e mi
spinse dentro.

Dietro a un tavolo c’era una grassona con gli occhiali in punta di naso e le mani
piene di ricevute, fatture e cartacce.

«Mi devo fidare di te o sei come gli altri napulì?».

35    «Neanche per sogno, signora mia».

«Conosci le vie di questa zona?».

«A menadito».10

«Sicuro che non sei come gli altri napulì?».

«Signora, ve lo giuro», e mi baciai le dita a croce.

40    «Per la bicicletta mi devi lasciare tre giorni di caparra.11 Lo stipendio è di 1.800
lire12 alla settimana, ti pago il sabato».

«Signora, io sono pronto, la paga mi va bene, ma purtroppo non so cos’è questa
caparra altrimenti ve la lasciavo».

Borbottava e sbruffava13 la grassona ma ormai ce l’avevo in pugno. Le raccomandazioni 

45    che mi faceva sull’educazione da tenere coi signori a cui dovevo consegnare
vestiti e con i camerieri dei ristoranti a cui dovevo portare tovaglie e tovaglioli erano
aria fritta.14 Avevo un lavoro e una bicicletta! Mi venne voglia di scrivere una lettera
con la carta velina per dare la notizia a tutta San Cono.15 Sul momento mi sentii
eccezionale e fortunatissimo, ma la verità è che il lavoro, in quegli anni, e anche in 

50    quelli dopo, non mancava mai. Potevi permetterti di mandare pure il padrone a
farsi fottere, lui e tutta la sua razza, che uscivi disoccupato il venerdì e il lunedì avevi
rimediato da un’altra parte.

Il lavoro era semplice. Ritirare le vestaglie nel cellophane16 dalla Carmela, le camicie
dalla Elena, le tovaglie dalla Maria Rosa e insieme alla Lucia sistemarle con 

55    cura nella cesta di vimini legata alla bicicletta. Le ragazze mi sorridevano come tante
mamme e ogni volta che tornavo per ricaricare la cesta morivo dalla voglia di farmi
abbracciare e infilare la testa nelle minne della Maria Rosa. Le consegne erano
quasi tutte sul Corso, al limite in viale Abruzzi, e non mi perdevo perché da cercare
c’era solamente il numero civico. Però ero lento, ancora stordito dal treno che mi 

60    fischiava nelle orecchie, il freddo nelle ossa per la notte alla stazione, lo squallore
dell’alveare…17 Sulla bicicletta, poi, non toccavo terra e per montare dovevo salire
sul gradino della lavanderia. Una faccenda molto complicata. Forse non sono caduto
mai perché Dio mi teneva con la sua mano grande e invisibile.


Marco Balzano, L’ultimo arrivato, Sellerio, Palermo 2014

 >> pagina 626

Come continua

Quando Ninetto torna a casa, riceve le congratulazioni per la rapidità con cui ha trovato lavoro, ma nei giorni seguenti la nuova vita si rivela più dura del previsto. Inoltre, alle difficoltà del lavoro se ne aggiungono altre: è costretto infatti a lasciare l’alveare di Baranzate e a cercare un’altra sistemazione. Dopo qualche tempo si impiega come muratore, sposa una ragazza calabrese e trova infine lavoro come operaio, all’Alfa Romeo. I due giovani comprano casa, hanno una figlia, ma le difficoltà familiari, l’alienazione per i ritmi lavorativi e la gelosia ossessiva rodono l’anima di Ninetto, portandolo a compiere, ormai quarantenne, un gesto inconsulto. Passa così dieci anni in carcere, e quando esce è ormai vecchio, il mondo è cambiato e la sua famiglia è un vaso in frantumi che non può più ricomporre.

a TU per TU con il testo

Il tipico contadino meridionale che, negli anni Sessanta, saliva dalle campagne del Sud per lavorare a Milano, si sentiva come un astronauta. “Atterrato” in stazione centrale, si trovava di fronte il grattacielo Pirelli, nuovo di zecca, con i suoi trentadue piani di vetro, simbolo di un pianeta sconosciuto e abitato da una folla frenetica, convulsamente operosa, impegnata a sparpagliarsi in ogni direzione. Come adattarsi alla grigia foschia della città, ai ritmi disumani della fabbrica, a nuovi appartamenti vissuti come una prigione soffocante? Leggendo questo brano di Marco Balzano, si possono intuire i contraccolpi culturali, le violenze, lo spaesamento di tanti ragazzi come Ninetto, e capire come il rapido benessere, conosciuto in Italia in quell’epoca, non fosse semplicemente, come si dice molte volte, un “miracolo”, un evento straordinario e improvviso, ma un paziente sacrificio, uno sforzo collettivo, una somma esorbitante di tante piccole rinunce.

 >> pagina 627 

Analisi

Partendo per fare fortuna a Milano, Ninetto vuole lasciarsi alle spalle la povertà di San Cono, un paese dell’entroterra siciliano. Fino a nove anni ha vissuto nella fame nera, in una famiglia contadina dai modestissimi mezzi economici, tanto che – nella prima pagina del romanzo – dichiara di essersi nutrito per lo più di acciughe: è talmente magro che i compagni lo chiamano “pelleossa”. Quando, nell’ottobre del 1959, la madre rimane paralizzata in seguito a un colpo apoplettico, il ragazzo viene tolto dalla scuola e mandato a lavorare nei campi. Il padre, amareggiato, si dà al gioco delle carte, mentre alla sera, spesso, alza le mani contro di lui: a Ninetto non resta che la soluzione estrema, lasciare tutto e partire alla ricerca di un futuro migliore. Arrivato a Milano, si sistema in un condominio a Baranzate, un paese-dormitorio di periferia che accoglie molti emigranti: pieno di speranza e di energia, il ragazzo si mette subito a cercare un’occupazione nei negozi e nei locali del centro di Milano.

Dietro la scenetta tenera e ironica del piccolo emigrante che si toglie la coppola appena rubata, chiedendo lavoro nei bar o nelle pizzerie, è riassunto il dramma di migliaia di giovani meridionali costretti nel secondo dopoguerra a trasferirsi nell’Italia del Nord. Alcuni milanesi non danno a Ninetto neanche il tempo di parlare: Napulì non ne vogliamo (r. 7). Ma la sua non è una condizione isolata o soggettiva. La diversità di mentalità e di lingua, infatti, rendeva molto difficile l’integrazione dei nuovi arrivati: gli autoctoni si sentivano, talvolta, minacciati e invasi da frotte di individui giudicati rozzi e primitivi, incompatibili con la fredda efficienza del Nord.

Le difficoltà incontrate dagli emigranti meridionali non dipendevano però soltanto dai pregiudizi dei milanesi. Infatti, per i contadini siciliani, pugliesi o calabresi, passare dal paese alla metropoli comportava un vero e proprio “shock culturale”, un termine tecnico della sociologia che indica lo spaesamento provato da chi si trova trapiantato in un contesto molto diverso da quello di provenienza. Questi uomini, spesso, come Ninetto, dovevano affrontare una specie di “salto nel buio”, non solo nello spazio ma anche nel tempo: ai loro occhi la realtà metropolitana appariva quasi fantascientifica rispetto al contesto rurale in cui erano nati e cresciuti.

Del resto, emigrare significava – nonostante tutto – migliorare la propria condizione materiale, anche a costo di finire nella massa anonima della manodopera sottopagata: Ninetto accetta senza esitare lo stipendio di 7200 lire mensili per consegnare le tovaglie (una miseria ancora più evidente se si considera il salario di un operaio, che all’epoca superava le 40 000 lire). Ciò che per lui costituisce una conquista importante e gioiosa (il suo primo lavoro), è in realtà sfruttamento minorile in piena regola.

Con una prosa affabile e talvolta comica, Balzano rende l’entusiasmo e l’intraprendenza di Ninetto, che emergono per esempio nel suo modo di guardare la prosperosa Maria Rosa (Erano belle, ma più di tutte una, bionda e con le minne abbondanti!, rr. 24-25) e nel dialogo con la burbera e robusta padrona della lavanderia, un vero e proprio tipo, sotto il profilo psicologico e caratteriale (Dietro a un tavolo c’era una grassona con gli occhiali in punta di naso e le mani piene di ricevute, rr. 32-33; Borbottava e sbruffava la grassona, r. 44).

Dopo l’assunzione, il protagonista inizia a barcamenarsi per le vie di Milano, in sella alla bicicletta presa in prestito dalla lavandaia e con la baldanza di chi sa di potersi concedere qualche trasgressione visto che l’offerta di lavoro è tale da non correre rischi di rimanerne privo (uscivi disoccupato il venerdì e il lunedì avevi rimediato da un’altra parte, rr. 51-52). E in effetti, con il passare del tempo, il ragazzo riuscirà a migliorare sensibilmente la sua condizione, diventando un operaio dell’Alfa Romeo e guadagnando abbastanza per ottenere un mutuo, comprare una casa e mandare avanti una famiglia. Tuttavia Ninetto non supererà mai fino in fondo il trauma dovuto allo sradicamento dalle sue origini: tale ferita si ripresenterà molti anni dopo, quando – ormai padre di famiglia e operaio di lungo corso, ma ancora figlio di una cultura arcaica e rurale – dovrà gestire il difficile rapporto con la figlia.

 >> pagina 628 

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. I milanesi chiamano Nino napulì perché

  •     ha la N di “Napoli” sul maglione. 
  •     viene da Napoli. 
  •     in milanese significa “ragazzino”. 
  •     è un soprannome generico per i meridionali. 


2. In quali negozi Nino va a cercare lavoro?


3. Che tipo di lavoro trova Nino alla Lavanderia del Corso?

  •     Deve aiutare le lavoranti a lavare i panni. 
  •     Deve aiutare la padrona con i conti e le fatture. 
  •     Deve andare a consegnare la biancheria lavata e stirata. 
  •     Deve andare a ritirare la biancheria da lavare. 


4. Quali sono le due caratteristiche richieste al galoppino della lavanderia?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

5. Il narratore della vicenda è

  •     interno protagonista. 
  •     interno testimone. 
  •     esterno onnisciente. 
  •     esterno con focalizzazione interna. 


6. Il protagonista racconta la sua storia di emigrazione parecchio tempo dopo i fatti: da quali passi del testo lo puoi comprendere?


7. Il piccolo Nino, pur venendo da un contesto sociale povero e arretrato, non è del tutto incolto e analfabeta, ma ha frequentato, almeno in parte, la scuola: da che cosa lo capisci?


8. Qual è l’atteggiamento della padrona della lavanderia verso Nino?


9. Che tipo di rapporto si instaura fra Nino e le lavoranti della lavanderia?


10. Nonostante l’entusiasmo per il nuovo lavoro, la nuova vita milanese di Nino è ancora difficile: individua il passo del testo da cui lo si evince.

COMPETENZE LINGUISTICHE

11. Il narratore, di origine siciliana, al momento della scrittura vive a Milano ormai da decenni: prova a rintracciare, nel testo, gli usi linguistici (termini, espressioni, modi di dire) siciliani e quelli lombardi.


Sicilianismi Lombardismi
   
   
   
   
   

12. I registri linguistici. Nino usa un registro linguistico ricco di espressioni familiari e colloquiali: prova a sostituirle con espressioni equivalenti ma di registro più formale.


a) lasciai correre (r.13) 

 


b) niente pure lì (r. 19) 

 


c) Feci ballare gli occhi (r. 21) 

 


d) gli facevano le guance rosse (rr. 23-24) 

 


e) A menadito (r. 37) 

 


f) ce l’avevo in pugno (r. 44) 

 


g) erano aria fritta (rr. 46-47)

 

 >> pagina 629 

pRODURRE

13. Scrivere per raccontare. Probabilmente conosci qualcuno (familiare, amico, vicino di casa) che ha una storia, più o meno recente, di emigrazione dal Meridione d’Italia verso le regioni settentrionali. Raccogli la sua testimonianza e mettila per iscritto (massimo 20 righe).

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Gli immigrati meridionali nelle regioni del Nord hanno dovuto spesso subire i pregiudizi, il razzismo e l’intolleranza verso i “terroni”: questo tipo di pregiudizio è ancora vivo oppure si è estinto o modificato, trovando altri bersagli? Presenta oralmente in classe il tuo punto di vista.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Negli ultimi anni il fenomeno dell’emigrazione è tornato a interessare anche noi italiani: sono infatti sempre di più i ragazzi e le ragazze che, terminata scuola e università, cercano lavoro e maggiori gratificazioni economiche fuori dal nostro paese. Come si differenzia questa nuova ondata da quella di sessanta-settanta anni fa descritta da Balzano nel suo romanzo?

L’emozione della lettura - volume A
L’emozione della lettura - volume A
Narrativa