Il tema: L’emigrazione

Affetti e radici strappate: il distacco dalla propria terra costituisce da sempre un’amputazione. Chi parte si lascia alle spalle una parte di sé: ma, come scrive lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, cambiare non è spesso solo inevitabile, ma è l’unica “chiave del desiderio” di un domani migliore.

«Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori»: così recita l’epigrafe apposta sul Palazzo della Civiltà italiana, detto anche “Colosseo quadrato”, costruito a Roma alla fine degli anni Trenta e considerato uno dei capolavori dell’architettura razionalista. In fondo a un elenco di così gloriose personalità capaci di dare lustro alla nazione, può stupire la presenza dei “trasmigratori”, termine aulico che sta a indicare gli “emigranti”. Tuttavia, i fatti sono incontestabili: dal 1861 al 1990 ben ventotto milioni di italiani hanno lasciato i confini della patria per disperdersi ai quattro angoli del globo.

In particolare fino ai primi anni del Novecento, la motivazione è stringente: sfuggire la fame nera e la schiavitù del lavoro agricolo, che imponeva – in un’Italia ancora sottosviluppata – condizioni degradanti. Per la maggior parte degli emigranti la meta privilegiata erano gli Stati Uniti, il regno del dollaro, del business, del consumo. Spesso stipati come bestiame su navi in cui dilagavano epidemie di morbillo e varicella, masse anonime di italiani affrontavano un vero e proprio “viaggio della speranza”, al termine del quale il più delle volte le attendevano la dura manovalanza, lo sfruttamento, la discriminazione o – ultima spiaggia dolorosa – la scorciatoia della devianza. La letteratura non manca di rappresentare questo esodo, ora con toni patetici e sentimentali, ora con mesta rassegnazione, ora, invece, celebrando la felice epopea dei primi connazionali che “ce l’avevano fatta”.

Nella seconda metà del Novecento, l’emigrazione diviene invece soprattutto un fenomeno interno: tra il 1951 e il 1965, circa un milione e mezzo di italiani si spostano ogni anno, principalmente da sud a nord e da nord-est a nord-ovest, dove si richiede manodopera, spesso a basso, bassissimo costo. Si spopolano le campagne e – diretti verso le grandi città del cosiddetto triangolo industriale (Milano, Genova, Torino) – vecchi, giovani, donne e perfino bambini affollano i vagoni ferroviari: nelle stazioni, i reportage e le inchieste giornalistiche, i servizi fotografici, le pellicole cinematografiche immortalano milioni di valigie. Dentro ognuna, una storia – individuale o familiare – di sacrificio e di fiduciosa attesa di un domani migliore.

Poco tempo dopo, a partire dagli anni Settanta in poi, la situazione si rovescia. L’Italia è ormai un paese ricco e sviluppato, e attrae immigrati stranieri in cerca di più favorevoli condizioni di vita. Un fenomeno, questo, che acquista proporzioni sempre più macroscopiche: oggi circa il 9% della popolazione italiana è composta da immigrati stranieri. I nuovi “trasmigratori” provengono da una larga varietà di paesi, tra cui Nordafrica, Filippine, Balcani, Asia e America Latina. I ruoli si invertono ma molti meccanismi rimangono gli stessi: come sempre, realizzare l’integrazione significa combattere illegalità, degrado sociale e rigurgiti razzisti.

L’emozione della lettura - volume A
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Narrativa