T4 - Una classe di poveri (L. Sciascia)

T4

Leonardo Sciascia

Una classe di poveri

  • Tratto da Le parrocchie di Regalpetra, 1956
  • cronaca saggistico-narrativa
L’autore

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, un paese nell’entroterra di Agrigento, nel 1921. Lettore appassionato, conosce da vicino il mondo popolare siciliano, prima come impiegato al consorzio agrario e poi come insegnante alle scuole elementari del suo paese, dove lavora sino al 1957. Da queste esperienze nasce la prima opera significativa, Le parrocchie di Regalpetra (1956), in cui ricostruisce la storia, la società, la cultura di Racalmuto, preso a emblema delle difficili condizioni in cui versa il Meridione. Nel 1961 ottiene grande successo con il romanzo Il giorno della civetta, in cui affronta un argomento allora tabù come la mafia. Seguono molti altri romanzi (quali A ciascuno il suo, 1966; Todo modo, 1974) e saggi che consacrano Sciascia – molto attivo anche sulle colonne dei giornali – come narratore, studioso e polemista di primo piano. Negli anni Settanta entra in politica: eletto al Parlamento nelle file del Partito radicale, siede nella commissione che si occupa del rapimento di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse. Non interrompe comunque l’attività letteraria, che lo vede attivo sino al 1989, quando si spegne a Palermo.

In prossimità dell’estate, il maestro Sciascia si aggira pensieroso nell’aula in cui trenta ragazzi scribacchiano di malavoglia i loro esercizi. Ogni giorno, dice, entra a scuola con lo stesso animo con cui uno zolfataro entra in miniera. Non ama il suo mestiere, perché non riesce ad accettare le tante miserie con cui ogni giorno deve fare i conti. La povertà degli scolari lo costringe a riflettere sul suo ruolo.

Io li incontro per strada, i miei alunni, mentre gridando domandano chi ha le uova
da vendere, li vedo intorno alle fontane che litigano e bestemmiano aspettando il
loro turno per riempire le grandi brocche di creta1 rossa, in giro per le botteghe. Poi
li ritrovo dentro i banchi, chini sul libro o sul quaderno a fingere attenzione, a leggere 

5      come balbuzienti. E capisco benissimo che non abbiano voglia di apprender
niente, solo di giocare, di far vibrare lamette2 e fare conigli di carta, di far del male
e di bestemmiare e ingiuriarsi. Prima di cominciare a spiegare una lezione debbo
anzi superare un certo impaccio, il disagio di chi viene a trovarsi di fronte a persona
contro cui ordiamo3 qualcosa, e quella non sa, e magari sta credendo in noi. 

10    Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta che veramente li
guardi, che veramente li veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un
binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro
arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco
luminosa4 della poesia. Uno di loro è stato cacciato via dal servizio5 perché pisciava 

15    nell’acqua che i padroni bevevano; un altro ha rubato un migliaio di lire a una vicina
di casa; e tutti son capaci di rubare, di sputare nel cibo degli altri, di pisciare sulle
buone cose che toccano agli altri. E sento indicibile disagio e pena a stare di fronte
a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata,6 le mie armoniose giornate.

Un tempo ogni classe aveva il suo banco degli asini, un limbo7 dove fin dai primi 

20    giorni di scuola venivano respinti gli irredimibili,8 stralunati ragazzi dalla testa
a pera, restavano per tutto l’anno in quell’ultimo banco, come non ci fossero. Di
tanto in tanto il maestro, per ironico scrupolo, li chiamava a ripetere una lezione, a
svolgere sulla lavagna un esercizio; non si alzavano nemmeno, reprimendo uno sbadiglio
dicevano «Non mi fido», cioè non mi fido a farlo, credo di non spuntarcela. 

25    C’erano ancora quando io frequentavo le elementari, e ancora ci sono nelle classi
dei maestri più anziani. Ma i regolamenti li proibiscono e qualche direttore ha pensato
fosse pedagogicamente più ortodosso9 istituire le classi degli asini, una classe di
ragazzi tutti allo stesso livello mentale e nozionale. È facile formarle: basta, per ogni
gruppo di classi, formarne una di ripetenti. Coloro che vengono respinti a ripetere 

30    una classe sono di solito irrecuperabili, assolutamente irriducibili alla sia pure vaga
disciplina dello studio, se no davvero i maestri non li boccerebbero.

A me, non so se perché il direttore confida nelle mie positive qualità o, al contrario,
perché mi ritiene affatto sprovveduto,10 tocca di solito una classe di ripetenti. Se
mi ritiene capace di risollevare le condizioni della classe, il direttore si illude di certo, 

35    come si illuderebbe su chiunque altro, nessuno essendo capace di un miracolo
simile; se invece intende dare un calcio alla classe, mandarla al diavolo, e me con la
classe, bisogna riconoscere che concretamente capisce le cose della scuola.

Io svolgo il programma come si trattasse di una classe normale, ce ne sono due
tre quattro al massimo, che mi seguono. Da sei anni, da quando ho incominciato 

40    a insegnare, mi pare di avere sempre la stessa classe, gli stessi ragazzi. Il fatto più
vero, di là dalle scolastiche valutazioni, è che non una classe di asini o di ripetenti
mi tocca ogni anno, ma una classe di poveri, la parte più povera della popolazione
scolastica, di una povertà stagnante11 e disperata. I più poveri di un paese povero.
Quelli dei paesi vicini lo chiamano il paese del sale,12 la campagna intorno è tarlata 

45    di gallerie13 che inseguono il sale, il sale si ammucchia candido e splendente alla
stazione, sale, nebbia e miseria; il sale sulla piaga, rossa ulcera14 di miseria. E io me
ne sto tra questi ragazzi poveri, in questa classe degli asini che sono sempre i poveri,
da secoli al banco degli asini, stralunati di fatica e di fame.

Vengono a scuola, i ragazzi, dopo che la famiglia riceve la cartolina di precettazione15 

50    con citati gli articoli di legge e ricordata la multa: la posta non porta loro
che di queste cartoline, per andare a scuola per il servizio di leva per il richiamo16
per la tassa. Spesso la cartolina non basta, il direttore trasmette gli elenchi degli inadempienti
all’obbligo scolastico
al maresciallo dei carabinieri; il maresciallo manda in
giro l’appuntato, a minacciare galera e – io vi porto dentro – i padri si rassegnano a 

55    mandare a scuola i ragazzi. C’era un maresciallo che questo servizio lo aveva a cuore,
mandava a chiamare i padri e sbatteva in camera di sicurezza,17 per una notte che
avrebbe portato consiglio, quelli che più resistevano. E allora a me maestro, pagato
dallo Stato che paga anche il maresciallo dei carabinieri, veniva voglia di mettermi
dalla parte di quelli che non volevano mandare a scuola i figli, di consigliarli a resistere, 

60    a sfuggire all’obbligo. La pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino
ai quattordici anni; come se i ragazzi cominciassero a mangiare soltanto dopo, e
mangerebbero le pietre dalla fame che hanno, e d’inverno hanno le ossa piene di
freddo, i piedi nell’acqua.18 Io parlo loro di quel che produce l’America, e loro hanno
freddo, hanno fame; e io dico del Risorgimento e loro hanno fame, aspettano 

65    l’ora della refezione,19 giocano per ingannare il tempo, e magari pizzicando le lamette
dimenticano la fatica del servizio, le scale da salire con le brocche dell’acqua, i piatti
da lavare.


Leonardo Sciascia, Opere. 1956-1971, Bompiani, Milano 2001

 >> pagina 580 

Come continua

Sciascia prosegue nella descrizione del difficile rapporto della comunità di Regalpetra (ovvero Racalmuto) con la scuola e con le istituzioni pubbliche in genere. Si rende conto che la categoria alla quale appartiene, quella dei maestri, è malvista tanto dai poveri quanto dai ricchi, tutti d’accordo nel considerarli dei fannulloni. Davanti a lui, in classe, siede un’umanità che la miseria rende gretta: ma Sciascia non vuole abituarsi, non vuole considerare fatale questa condizione. Eppure l’alternativa sembra una sola, l’emigrazione: ogni anno il maestro perde due o tre alunni, partiti con la famiglia verso il Belgio, la Francia o l’America. Guardando indietro, vede la fatica con cui la sua stessa famiglia si è emancipata dal lavoro manuale, un incubo nel quale si fa presto a precipitare. La latitanza dello Stato garantisce intanto lo strapotere della mafia, che fa capolino anche a scuola, chiedendo di usare un occhio di riguardo per i figli delle persone “di rispetto”.

a TU per TU con il testo

Per gli scolari di Sciascia, la fame a scuola non è quella che ti prende a metà mattina, in vista della ricreazione. È la fame di chi a casa non mangia abbastanza e ogni giorno spera di essere fra i pochi che avranno accesso alla mensa. Fino alla metà del Novecento, nelle zone più disagiate dell’Italia, l’alimentazione era ancora un problema. Le case, poi, non erano certo confortevoli e ben riscaldate. Che un ragazzo della tua età lavorasse, era normale: capitava già ai bambini delle elementari, costretti a pulire le case dei signori o a pascolare le bestie. Per troppe famiglie povere la scuola non era la soluzione, ma un problema. Oggi le cose sono cambiate, ma la piaga del lavoro minorile non è ancora completamente debellata. Si calcola che nel nostro paese riguardi ancora un ragazzo su venti nella fascia fra i sette e i quindici anni. Non si tratta soltanto di chi dà una mano nell’attività di famiglia. In sottoscala e capannoni migliaia di ragazzini – spesso immigrati di recente – in questo momento fabbricano palloni da calcio o cuciono abiti, fuori da ogni regola, per una paga miserabile, come fanno milioni di loro coetanei in Asia, Africa e Sudamerica.

Analisi  attiva 

Il primo nucleo delle Parrocchie di Regalpetra è costituito dalle Cronache scolastiche, nelle quali Sciascia riflette sulla sua esperienza di insegnante elementare nel paese siciliano in cui nacque, Racalmuto. L’idea gli viene compilando un registro: perché non dare conto di come stanno veramente le cose, al di fuori di ogni routine burocratica, documentando il vissuto quotidiano delle persone comuni? È ciò che appunto fa lo scrittore, assumendo un atteggiamento di perplessità e amarezza dinanzi alla terribile situazione che gli si presenta, dalla quale non vede – almeno nell’immediato – vie d’uscita facilmente percorribili. Il desiderio di scrivere nasce dall’imbarazzo che sperimenta quotidianamente nei panni di maestro, non ancora rassegnato allo scandalo della miseria. Non si tratta di commuovere i lettori, ma di diffondere consapevolezza riguardo una situazione intollerabile, della quale è testimone.


1. Individua i passi in cui il maestro Sciascia esprime il proprio imbarazzo davanti alla classe.


2. Il maestro Sciascia si sente a disagio di fronte ai propri studenti perché

  •     gli studenti non sono in grado di capirlo.
  •     gli studenti sono sporchi e maleducati.
  •     si sente un privilegiato in confronto a loro.
  •     sa che comunque non impareranno nulla.

 >> pagina 581 

Di fronte a ragazzi che a tutto pensano, tranne che a studiare, Sciascia non si abbandona alla satira o alle lamentele sulla decadenza dei tempi, ma cerca di comprendere meglio le cause della situazione. Sarebbe troppo sbrigativo, e ingiusto, cavarsela addossando semplicemente la colpa alla stupidità e all’ignoranza dei suoi scolari che, nella loro realtà di miseria e rancore, sono lontani con i loro arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose (rr. 12-13). Malvestiti, infreddoliti, affamati lavorano già a dieci anni. Per loro la violenza è un’esperienza quotidiana, non solo nelle liti fra compagni per un posto a mensa, ma anche fra le mura domestiche. Odiano di tutto cuore chi sta meglio di loro, siano i padroni che danno loro qualche soldo o il maestro stesso, che guardandoli prova disagio, pensando alla vita dignitosa che grazie al suo stipendio riesce ad assicurare ai propri figli.

Sciascia si sente il delegato di uno Stato lontano e ingiusto, che impone di radunare tutti i ripetenti in una classe degli asini (r. 47) a lui affidata dal Direttore, forse per punizione, forse per disprezzo o forse per un’eccessiva fiducia nelle sue capacità. Presto però si rende conto di avere dinanzi una classe di poveri, I più poveri di un paese povero (r. 43).


3. Quale lavoro svolgono molti degli alunni di Sciascia?

  •     I fattorini.
  •     I servitori nelle botteghe o nelle case.
  •     I braccianti.
  •     I minatori.


4. Da chi è composta la classe degli asini (r. 47)?

  •     Da ragazzi stupidi.
  •     Da ragazzi svogliati.
  •     Da ragazzi diversamente abili.
  •     Da ragazzi ripetenti.


5. Perché Sciascia, descrivendo la realtà dei suoi alunni, parla di miseria e rancore (r. 12)?

  •     Perché a causa della loro povertà i ragazzi provano rancore nei confronti della scuola.
  •     Perché essi provano rancore nei confronti di chi è povero.
  •     Perché essi vivono la propria condizione di povertà come un’ingiustizia.
  •     Perché il maestro prova rancore nei confronti della loro povertà.

Come si manifestano queste due condizioni?

La posta porta soltanto brutte notizie, elencate una dopo l’altra senza virgole, come una scarica che si abbatte sui racalmutesi, i quali si vedono recapitare cartoline per andare a scuola per il servizio di leva per il richiamo per la tassa (rr. 51-52). Ma spesso la cartolina non basta, e occorre un intervento personale del maresciallo dei carabinieri perché i genitori si decidano a inviare a scuola i figli. Di fronte a dei padri di famiglia mandati in prigione, il maestro è tentato di mettersi dalla loro parte. Si chiede che cosa farebbe, se fosse nei loro panni. Che è poi la domanda che tutti dovremmo porci, di fronte ai drammi della miseria: non per giustificare, ma per capire.

Mandare a scuola i ragazzi, in queste condizioni, è a suo giudizio come sequestrarli. La pubblica istruzione, che il maestro rappresenta, è Obbligatoria e gratuita, fino ai quattordici anni (rr. 60-61), ma i ragazzi hanno fame già prima, e freddo. Le nozioni sull’industria americana, o sulla storia del Risorgimento, non li nutrono né li scaldano. Come rimproverarli se in aula si distraggono e non seguono la lezione? Per questo egli decide di stare dalla parte dei vinti: non ama la scuola, ma ama i suoi alunni, anche se non studiano, anche se non si sognano neppure di affezionarsi a lui.


6. Per quali motivi gli studenti descritti da Sciascia quando sono a scuola non hanno voglia di imparare, ma solo di giocare e litigare tra loro? (sono possibili più risposte)

  •     Perché sono maleducati e non ascoltano il maestro.
  •     Perché sono affamati e ingannano il tempo nell’attesa del pranzo.
  •     Perché hanno bisogno di distrarsi dopo le ore di lavoro.
  •     Perché il maestro non è in grado di coinvolgerli.
  •     Perché vengono a scuola solo per incontrare i propri amici.


7. Anche se non in modo esplicito, a chi viene attribuita, da Sciascia, la responsabilità di questo stato di cose?

  •     Alle famiglie.
  •     Ai ragazzi.
  •     Ai carabinieri.
  •     Allo Stato.

 >> pagina 582 

Laboratorio sul testo

COMPETENZE LINGUISTICHE

8. Coordinazione e subordinazione. Riconosci la funzione del che nelle frasi seguenti.


  Congiunzione Pronome relativo soggetto Pronome relativo c. oggetto
a) li vedo intorno alle fontane che litigano e bestemmiano      
b) E capisco benissimo che non abbiano voglia di apprender niente      
c) basta che veramente li guardi      
d) Uno di loro è stato cacciato via dal servizio perché pisciava nell’acqua che i padroni bevevano      
e) Coloro che vengono respinti a ripetere una classe sono di solito irrecuperabili      
f) bisogna riconoscere che concretamente capisce le cose della scuola.      
g) la campagna intorno è tarlata di gallerie che inseguono il sale      
h) me ne sto tra questi ragazzi poveri, in questa classe degli asini che sono sempre i poveri      
i) e mangerebbero le pietre dalla fame che hanno      

 >> pagina 583 

PRODURRE

9. Scrivere per argomentare. Nel 1967 il libro Lettera a una professoressa ( Se ti è piaciuto…, Insegnare agli ultimi) lanciò una durissima accusa alla scuola italiana, colpevole di bocciare soprattutto i ragazzi appartenenti alle classi sociali più povere e disagiate. Nel volume viene proposta una riforma radicale della scuola, allo scopo di renderla davvero inclusiva:

«Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme:

I – Non bocciare.

II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.

III – Agli svogliati basta dargli uno scopo».

Scegli una delle tre proposte dei “ragazzi di Barbiana” e discutila, motivando la tua posizione in proposito (massimo 20 righe).

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Leggi l’articolo 33 della Costituzione italiana, quello che sancisce il diritto allo studio, e discutilo in classe: ti sembra che i princìpi in esso espressi siano effettivamente realizzati? Come? Che cosa dovrebbe fare lo Stato per renderli davvero operativi? Stila un elenco di proposte e prepara una presentazione orale di circa cinque minuti.

Se ti è piaciuto…

Insegnare agli ultimi

Negli anni in cui Sciascia raccontava la difficile vita dei suoi alunni, Maria Giacobbe (n. 1928) compiva la stessa operazione in Sardegna, testimoniando nel Diario di una maestrina (1957) le difficoltà nel fronteggiare la mentalità arcaica di comunità che faticavano a vedere nella scuola un mezzo per uscire dalla povertà. Emigrazione e banditismo erano soluzioni più immediate rispetto a quelle promesse dall’istruzione.

Dieci anni più tardi, nel 1967, alla vigilia di una stagione di grandi cambiamenti sociali, un gruppo di ex alunni di don Lorenzo Milani (1923-1967), che aveva impiantato una scuola popolare a Barbiana, nella campagna fiorentina, scrisse Lettera a una professoressa, nella quale si esprimeva un giudizio durissimo sulle modalità dell’insegnamento in Italia, considerato classista e incapace di stimolare l’interesse. Sin dalla prima frase – «La scuola dell’obbligo non può bocciare» – le tesi del libro suscitarono accese discussioni, che durano tuttora.

Lo scrittore che di recente si è confrontato più intensamente con l’insegnamento di don Milani è Eraldo Affinati (n. 1956), che al sacerdote toscano ha dedicato un appassionato volume, L’uomo del futuro (2016), in cui torna nei luoghi in cui visse, nel tentativo di capire che cosa sia rimasto oggi della sua lezione. Una risposta personale alla domanda Affinati l’ha data nei suoi libri precedenti, e in particolare nella Città dei ragazzi (2008), dove narra di un viaggio in Marocco insieme a due allievi di una comunità nella quale insegna, alla ricerca delle loro radici.

L’emozione della lettura - volume A
L’emozione della lettura - volume A
Narrativa