3 - La crisi del III secolo

Unità 9 ROMA: L’ETÀ IMPERIALE >> Capitolo 25 – L’impero verso la crisi

3. La crisi del III secolo

Invasioni e guerre civili

L’instabilità politica e l’assenza di un saldo potere centrale che coordinasse la difesa dei confini favorì il susseguirsi di invasioni di varie popolazioni nomadi (i Franchi in Gallia, gli Alemanni in Spagna, i Vandali in Italia, i Carpi e gli Eruli nei Balcani, e i Goti in Tracia e in Asia minore) e la parziale frammentazione territoriale dell’impero, con la nascita, nel 267, del regno autonomo di Palmira, in Siria, che sotto la guida della regina Zenobia conquistò ampi possedimenti anche in Egitto e nella penisola anatolica. Inoltre, nel 260 il comandante dell’esercito presso il confine del Reno, Postumo, aveva proclamato l’indipendenza dell’impero delle Gallie, che si estendeva fino alla Britannia e alla Spagna, e che fu riconquistato solo nel 274 dall’imperatore Aureliano.
Le guerre civili danneggiavano l’economia anche a causa della consuetudine dei generali di elargire denaro ai soldati e di autorizzare il saccheggio delle terre che attraversavano. Questa pratica, che garantiva ai comandanti la fedeltà delle truppe, aveva effetti deleteri sia sulle finanze imperiali, sia sulla situazione delle campagne, sottoposte a continue devastazioni e violenze.
Ai saccheggi si sommavano le carestie, dovute ai danni causati alle colture agricole, e le epidemie di peste, la cui diffusione era favorita dal passaggio dei soldati, poiché durante il transito delle truppe, le scarse condizioni igieniche e il sovraffollamento aumentavano il rischio del contagio. Inoltre, per fronteggiare le spese necessarie a mantenere l’esercito, gli imperatori ricorsero all’inasprimento delle tasse, che colpiva in modo particolare proprio gli abitanti delle campagne, i quali dovevano aumentare le quote annonarie togliendo il cibo alla propria famiglia.

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Un impero sempre più insicuro

Per fronteggiare la carenza di soldati, provocata dal calo demografico dovuto alla crisi economica, gli imperatori arruolarono con sempre maggiore frequenza truppe mercenarie, reclutate tra le popolazioni stanziate al di fuori dei domini imperiali. Il mutamento delle condizioni economiche e demografiche comportò quindi anche una profonda revisione delle strategie militari adottate dai Romani. Nei primi secoli dell’impero la sicurezza dei confini era stata garantita dalla presenza di “popoli-clienti” legati a Roma da vincoli di dipendenza economica e politica; le truppe imperiali avevano il compito di sorvegliarli ma non erano impegnate nel controllo diretto dei confini, ed erano quindi disponibili per le campagne di espansione territoriale. A partire dal III secolo i popoli-clienti furono annessi all’interno dell’impero; la loro funzione protettiva dei confini venne meno, e perciò le truppe romane dovettero essere stanziate direttamente a difesa della sicurezza interna, con l’impiego di enormi risorse e, appunto, il reclutamento dei soldati “barbari”. In questa situazione, tramontava ogni possibilità di avere a disposizione truppe per promuovere nuove conquiste.
Malgrado tutto ciò, la potenza di Roma, almeno sotto il profilo difensivo, continuò a dimostrarsi relativamente efficace ancora per un paio di secoli, riuscendo a superare anche crisi pericolose come quella, nel 260, in seguito alla sconfitta e alla cattura dell’imperatore Valeriano in Siria da parte dei Sasanidi.
L’equilibrio imperiale era tuttavia ormai compromesso a causa delle frequenti incursioni dei popoli confinanti, fattore che si univa alla crisi economica e monetaria. Giungeva anche a conclusione il modello di “città romana”, aperta e vivace: per la prima volta, dopo secoli di pace e di prosperità, le città manifestarono le loro insicurezze, sentendosi talvolta aggredite. La popolazione urbana tornava a patire l’incertezza del vivere.
La perdita della sicurezza interna e la situazione di pericolo in cui l’impero ormai versava sono testimoniate anche dalla costruzione di una nuova cinta di mura difensive attorno alla città di Roma, realizzata sotto Aureliano (270-275): era dai tempi della discesa in Italia di Annibale, alla fine del III secolo a.C., che Roma non temeva un’invasione straniera.

La grave crisi economica

La crisi del III secolo, indubbiamente aggravata dalle guerre civili, aveva radici lontane nel tempo. A lungo l’impero romano si era impegnato in campagne belliche di espansione territoriale, divenendo inevitabilmente (soprattutto dopo Traiano) un impero a ordinamento tributario, che si sorreggeva cioè con le tasse che era in grado di raccogliere. Abbiamo visto, fin dal secolo precedente, come enormi risorse finanziarie fossero però state impiegate per sovvenzionare l’esercito e la burocrazia statale, entrambi indispensabili per controllare in modo efficace un impero vastissimo. Tuttavia, mentre un tempo le nuove conquiste fornivano introiti sufficienti a sostenere la complessa struttura imperiale, nel III secolo l’espansione si era fermata e le entrate non furono più in grado di coprire le spese, dando luogo a un pesante squilibrio di bilancio.
La fine dell’espansione militare aveva determinato anche il venir meno del flusso costante di schiavi dai territori sottomessi, privando l’economia romana della manodopera gratuita. L’aumento delle tasse e le distruzioni provocate dalle guerre si inserivano in questo quadro di crisi della produzione agricola. I piccoli proprietari furono costretti a vendere i loro appezzamenti ai latifondisti; la nuova espansione dei latifondi si accompagnò all’aumento del colonato: si assistette dunque al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei coloni, che, avendo compensato la drastica diminuzione degli schiavi nei grandi appezzamenti di terreni, erano regrediti a uno stato semi-servile, ai limiti della sopravvivenza.

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Il fallimento della politica monetaria e l’inflazione

La diminuzione della produzione agricola e la contemporanea crisi urbana provocarono a loro volta una contrazione degli scambi commerciali, già danneggiati dalle guerre e dall’insicurezza dei viaggi su lunghe distanze. La situazione fu ulteriormente aggravata dalle politiche monetarie degli imperatori, soprattutto di Settimio Severo con la diminuzione del valore nominale della moneta (già Caracalla introdusse una nuova moneta, l’antoniano, che aveva il valore nominale di due denari ma il valore effettivo di un denaro e mezzo). Ne derivò una crescita straordinaria dell’inflazione, a causa della quale con la stessa quantità nominale di moneta di un tempo era adesso possibile acquistare una quantità molto inferiore di beni (già saliti vertiginosamente di prezzo a causa delle difficoltà dei traffici).
La crisi economica si trasformò rapidamente in crisi monetaria. Prime vittime della crisi furono così le città e l’esercito; l’economia monetaria regredì e in alcuni casi vi fu addirittura il ritorno a forme di commercio basate sul baratto, cioè sullo scambio diretto di merci contro merce, senza l’intermediazione della moneta.
In una spirale negativa, l’inflazione favorì il fenomeno della tesaurizzazione, cioè dell’accaparramento dei metalli preziosi: chi possedeva monete coniate prima della svalutazione, e dunque con un valore più elevato di quelle in circolazione, le custodiva in luoghi sicuri, per utilizzarle in caso di estrema necessità. In questo modo, però, si aggravava la crisi dei commerci e la crisi monetaria.
Il peso della drammatica crisi economica che caratterizzò il III secolo gravò soprattutto sugli strati più deboli della popolazione, che subirono un sensibile peggioramento delle proprie condizioni di vita. Tale situazione determinò un ulteriore aggravamento degli squilibri tra le classi sociali, ampliando il divario tra gli honestiores, sempre più ricchi e influenti, e gli humiliores, ridotti in miseria e di fatto esclusi da qualsiasi opportunità di ripresa economica.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille