Terre, mari, idee - volume 2

Unità 9 ROMA: L’ETÀ IMPERIALE >> Capitolo 25 – L’impero verso la crisi

L’anomalia di Elagabalo

Il nuovo imperatore, appena quattordicenne, discendeva per parte di madre da una nobile famiglia siriana, legata al culto di origini orientali della divinità solare El-Gabal, latinizzato in Elagabalo (nome con cui sarà ricordato l’imperatore, a partire dal IV secolo d.C.). Il culto di El-Gabal venne importato a Roma tra il II e il III secolo d.C. e fu denominato Sol Invictus (“sole invincibile”) e assimilato in un primo momento a Giove e, successivamente, al culto solare. Il bisnonno del giovane imperatore, Giulio Bassiano, era stato il sacerdote del tempio del dio Sole di Emesa: come discendente della famiglia materna, Elagabalo era dunque il sommo sacerdote del culto rivolto a El-Gabal, che egli impose a tutti i Romani.
In realtà, per legittimare la sua discendenza e ripristinare la continuità della dinastia dei Severi dopo la parentesi dell’usurpatore Macrino, gli era stato imposto il nome di Marco Aurelio Antonino, come il cugino Caracalla.
Per età e per indole, Elagabalo risultò del tutto inadeguato ad affrontare i complessi problemi dell’impero. Adolescente, si dedicò per lo più a un’esistenza dissoluta compiendo atti che vennero giudicati immorali e che gli alienarono il consenso della classe dirigente romana. Anche diversi contingenti militari dislocati nelle province si ribellarono al suo potere, ma le rivolte furono soffocate con durezza dalle legioni fedeli all’imperatore. L’esercito era del resto saldamente manovrato dalla famiglia dei Severi, che con le sue immense ricchezze poteva corrompere i soldati e i loro comandanti. Tuttavia, perfino la stessa nonna Giulia Mesa, che aveva tirato abilmente i fili per consentirgli l’ascesa al trono nella speranza di manipolarne la volontà, alla fine si rese conto che il risentimento contro il nipote si era ormai diffuso pericolosamente in tutto l’impero. Nel 221 lo convinse ad associare al trono il cugino Gessio Alessiano Bassiano, appena tredicenne, che assunse il nome di Marco Aurelio Alessandro Severo. Tale risoluzione non evitò però l’ennesimo conflitto: i pretoriani che sostenevano Alessandro Severo infatti si ribellarono e nel 222 uccisero l’imperatore, insieme a tutti i suoi seguaci più vicini, con la complicità di Giulia Mesa.

Alessandro Severo non arresta la crisi dell’impero

L’impero passò dunque nelle mani di Alessandro Severo, che, considerata la sua giovane età, fu affiancato da un collegio di consiglieri scelti dal senato. L’antica assemblea riuscì così a recuperare parte della propria tradizionale autorità, ottenendo la possibilità di influenzare le scelte politiche dell’impero e ponendo quindi fine al potere assoluto instaurato pochi decenni prima da Settimio Severo, anche grazie all’azione del prefetto del pretorio, il giurista Ulpiano, che deteneva di fatto il potere e che tornò a improntare l’azione politica su uno spirito di collaborazione con l’istituzione senatoria.
Sotto il principato di Alessandro Severo (222-235 d.C.) furono ripristinati i culti della tradizione religiosa romana e venne eliminata ogni traccia delle dissennatezze di Elagabalo. La sua figura fu addirittura oggetto della cosiddetta damnatio memoriae ( p. 42), in conseguenza della quale il suo nome venne cancellato dai luoghi pubblici e non poté più essere trasmesso ai discendenti. Il nuovo imperatore si impegnò – con risultati incerti – anche nel risanamento delle finanze dello Stato e nella difesa dei confini, rafforzata da nuovi arruolamenti tra le popolazioni orientali e dal consolidamento delle fortificazioni lungo le frontiere più a rischio. Nonostante questi provvedimenti, però, la crisi dell’impero, già in atto da tempo, ma fino ad allora contenuta dalle riforme economiche e istituzionali, si manifestò in tutta la sua gravità.

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Tra minacce esterne e cambiamenti nell’esercito

Come abbiamo visto, l’impero era indebolito sia da fattori interni, primo tra tutti l’instabilità politica che si aggravò con la fine della dinastia dei Severi, e che condusse a frequenti avvicendamenti al potere; sia da fattori esterni, cioè la pressione dei popoli stanziati ai confini dell’impero.
Alessandro Severo si era trovato in particolare a dover fronteggiare, a Oriente, l’espansione dei Sasanidi, una dinastia che si dichiarava erede degli antichi sovrani persiani (gli Achemenidi, il cui ultimo rappresentante era stato Dario III) e che aveva conquistato il regno dei Parti. I Romani tardarono a comprendere che la nuova dinastia aveva caratteri molto diversi dai predecessori e aveva sviluppato strategie belliche e offensive innovative: i tradizionali arcieri a cavallo della cavalleria catafratta erano stati rafforzati da un’armatura pesante (cavalli e cavalieri erano interamente ricoperti di una corazza in scaglie di ferro rilegate o sovrapposte parzialmente l’una all’altra e muniti di faretra con 30 frecce e di lancia), affiancati da quelli che i Romani chiameranno, e poi imiteranno, i clibanarii (cioè cavalieri catafratti provenienti dall’Anatolia, anch’essi rivestiti di armatura pesante ma meglio protetti); era stato reintrodotto l’uso degli elefanti in battaglia. I Sasanidi avevano inoltre preso dai Romani un modello di schieramento in campo più serrato e compatto, oltre alle loro tecniche di assedio. Di fronte a un nemico ben organizzato ed equipaggiato, i tentativi di bloccare la loro avanzata si rivelarono un insuccesso e, nel 233, i Romani furono costretti a stringere accordi di pace. Questa scelta derivava anche dal fatto che i fronti di crisi ai confini si moltiplicavano e le forze militari imperiali dovevano nel frattempo respingere una nuova minaccia, questa volta nei Balcani, dove le tribù dei Goti avevano attraversato la frontiera del Danubio. Nel 234, inoltre, si era verificata una nuova invasione da parte degli Alemanni oltre il Reno.
Gli insuccessi in guerra alienarono ad Alessandro Severo l’appoggio dei soldati. Il malcontento degli ambienti militari era accresciuto, tra l’altro, dalla condiscendenza mostrata dall’imperatore nei confronti dell’aristocrazia senatoria e della sua politica finanziaria, che aveva ridotto le sovvenzioni all’esercito per risparmiare sulle eccessive spese statali.
Nel 235, di fronte a una tattica giudicata troppo rinunciataria nei confronti dei “barbari”, che aveva condotto ad accordi di pace con gli Alemanni e aveva dunque precluso la possibilità di conquistare nuove terre, l’esercito si ribellò, e Alessandro Severo venne assassinato assieme alla madre Giulia Mamea mentre si trovava sul fronte germanico. Al suo posto, i legionari elessero Massimino il Trace (235-238), un semplice centurione.
Lo stesso Massimino era considerato un “barbaro”: era infatti detto il Trace proprio perché nato nell’arretrata regione greca. L’origine non italica di un imperatore non era una novità: dalle province provenivano numerosi imperatori, come Traiano e Adriano che erano spagnoli, Caracalla era nato in Gallia e Settimio Severo in Libia. Tutti costoro si erano però ricollegati alla tradizione imperiale e alla cultura greco-romana, di cui si presentavano come eredi. La vera novità di Massimino il Trace era un’altra: egli fu il primo imperatore a provenire dagli strati più umili della popolazione e a non avere un ruolo di rilievo nell’esercito.

Nel cuore della STORIA

Mogli e madri al centro del potere

Nel corso della storia imperiale di Roma, non mancarono donne particolarmente attive, a vario titolo, nella vita politica: tra esse, Livia, moglie di Augusto; Plotina, moglie di Traiano; Annia Galeria Faustina (Faustina minore), moglie di Marco Aurelio. Nessuna però fu tanto influente quanto Giulia Domna, seconda moglie di Settimio Severo. Nata all’interno di una delle più influenti famiglie sacerdotali siriane, era una donna colta (fu dedita infatti a studi religiosi e filosofici, ponendosi al centro di un movimento intellettuale prestigioso), raffinata e carismatica. Ricoprì accanto al marito il ruolo di consigliera e suggeritrice (anche nelle campagne militari, tanto che ottenne il titolo di mater castrorum, “madre degli accampamenti”) e ne orientò spesso le scelte politiche e amministrative, pur restando nel costume romano, che impediva di conferire incarichi ufficiali alle donne. Il suo ascendente crebbe durante il governo del figlio Caracalla, a cui rimase vicino, malgrado avesse assassinato il fratello, cercando di muovere i fili per rimediare alle conseguenze della sua trascuratezza per gli affari correnti.
Accanto a lei troviamo la sorella minore Giulia Mesa, con le due figlie Giulia Soemia e Giulia Mamea. Dotata di altrettanto forte personalità, abile e ambiziosa, Giulia Mesa prese il posto della sorella maggiore dopo la sua morte ad Antiochia (217). Assieme alla figlia Soemia, architettò l’elevazione al soglio imperiale del nipote Elagabalo (figlio di Soemia), decidendo poi di farlo eliminare, assieme alla madre, quando si rivelò inetto e pericoloso per l’impero stesso. Avendo Elagabalo adottato Alessandro Severo, ora il figlio di Giulia Mamea divenne imperatore ed ella esercitò su di lui un’influenza determinante. Alla sua morte (226) ne prese il posto la figlia Mamea, dal carattere altrettanto deciso e abile, anche se meno duttile e meno pragmatico, sempre attenta, assieme al figlio, a valorizzare la giurisprudenza e l’attività dei qualificati giuristi di riferimento (Paolo e Ulpiano).
La venerazione del figlio nei confronti della madre trova riscontro non solo nell’assidua presenza di Mamea al suo fianco in tutte le spedizioni, ma anche nella decisione di Massimino il Trace, acclamato nuovo imperatore dalle truppe renane, di far uccidere entrambi.
Con Giulia Mamea terminò un periodo particolare nella storia dell’impero, in cui un gruppo di donne, dalla personalità forte e autorevole e con un attento sguardo strategico, da dietro le quinte aveva profondamente influenzato l’attività di governo.

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L’anarchia militare sconvolge l’impero

Il breve governo di Massimino – durato un triennio – può essere considerato un momento cruciale nella storia dell’impero romano. La sua ascesa al trono non solo pose fine alla dinastia dei Severi, ma segnò anche l’inizio di nuove guerre civili per la conquista del potere. Per un trentennio, fino al 268, l’impero fu alternativamente nelle mani di esponenti dell’aristocrazia senatoria oppure di generali appoggiati dal senato che, forti del sostegno delle truppe che comandavano, si contendevano il potere. L’impero era ancora una volta in balia degli eserciti delle province, che acclamavano imperatori i loro comandanti e sostenevano la loro lotta per il potere. Tra il 235 e il 283, nel periodo che gli storici definiscono dell’“anarchia militare”, gli scontri armati e i colpi di Stato provocarono la successione al trono di ben ventuno imperatori.

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Da Roma imperiale all’anno Mille