2 - Adriano e gli Antonini

Unità 9 ROMA: L’ETÀ IMPERIALE >> Capitolo 23 – L’età aurea dell’impero

2. Adriano e gli Antonini

Il consolidamento dei confini

Alla morte di Traiano la guida dell’impero passò nelle mani di Publio Elio Adriano (117-138 d.C.), anch’egli originario della penisola iberica e pronipote del suo predecessore.
La difficile situazione finanziaria dell’impero indusse Adriano ad abbandonare la politica di espansione territoriale e a optare invece per una strategia di mantenimento delle conquiste. La pressione dei popoli nomadi ai confini diveniva infatti sempre più minacciosa e le difficoltà finanziarie impedivano di allestire grandi campagne militari per allontanarli; per questo, il nuovo imperatore ripiegò sulla scelta di presidiare le frontiere. Nella Britannia settentrionale fece costruire una muraglia difensiva lunga oltre 100 km (il “vallo di Adriano”), per difendere i territori occupati dai Romani dalle bellicose popolazioni stanziate nella parte settentrionale dell’isola. La vastità dei territori dell’impero, agli inizi del II secolo d.C., rendeva difficili i collegamenti tra la capitale e le regioni periferiche. Nonostante l’estensione capillare della rete stradale, i mezzi di trasporto dell’epoca imponevano tempi molto lunghi per la percorrenza delle grandi distanze: per spostare le truppe da un confine all’altro dell’impero erano necessarie settimane o mesi, con ovvie conseguenze sull’efficacia delle strategie difensive ( carta).

L’amministrazione dell’impero

Nella gestione dello Stato, i maggiori sforzi di Adriano riguardarono il risanamento delle finanze e una riforma dell’amministrazione finalizzata a rendere più efficiente la burocrazia (i cui funzionari provenivano ancora dall’ordine equestre). Egli promosse anche una raccolta ordinata delle norme giuridiche emanate dai suoi predecessori (definita editto perpetuo) e, sempre in ambito legislativo, introdusse norme che riguardavano la vita quotidiana e i costumi: per esempio deliberò sulla modalità di portare la toga e decretò di non riconoscere la cittadinanza romana al figlio nato da un romano e una straniera.
Consapevole delle difficoltà di controllare un organismo imperiale così complesso, Adriano si fece affiancare da un consiglio imperiale in cui chiamò gli intellettuali più autorevoli dell’epoca e gli amministratori più capaci.
Interessato allo sviluppo economico e culturale delle province, Adriano le visitò di persona in lunghi e frequenti viaggi. Per esempio, intervenne direttamente nelle tensioni sociali che turbavano la Palestina. Teatro delle rivolte delle comunità ebraiche fin dal 70 d.C., l’area continuava a rimanere instabile. Per ottenere una volta per tutte l’assimilazione degli Ebrei all’organismo imperiale, nel 131 d.C. Adriano impose una loro romanizzazione forzata attraverso la diffusione dei culti religiosi romani e l’abolizione di alcune pratiche tradizionali come la circoncisione. Questi provvedimenti scatenarono una violenta ribellione da parte della popolazione locale, soffocata, con difficoltà, solo nel 135 d.C. Molti centri abitati furono distrutti e i loro abitanti si dispersero in vari territori dell’impero, dove furono perseguitati e trattati come sudditi privi di qualsiasi diritto.

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La dinastia degli Antonini

Tra i membri del consiglio imperiale creato da Adriano vi era anche Tito Aurelio Antonino, un ricco senatore romano discendente da una famiglia originaria della Gallia. Scelto da Adriano come suo successore, alla morte di questi (138 d.C.), egli si vide assegnata la guida dell’impero.
Antonino Pio (138-161 d.C.), come fu chiamato per la profonda devozione che nutriva nei confronti del padre adottivo, proseguì per molti aspetti l’azione politica di Adriano: anch’egli infatti puntò al rafforzamento delle difese dell’impero e al risanamento del bilancio statale; portò avanti la politica di assistenza alle fasce sociali più deboli, aumentando le distribuzioni di cibo alla plebe romana; pose fine alla discriminazione nei confronti degli Ebrei all’interno dell’impero.
Alla sua morte gli succedette il genero, Marco Annio Vero, che assunse il nome di Marco Aurelio Antonino (161-180 d.C.). Il nuovo imperatore condivise il potere con il fratello Lucio Vero (161-169 d.C.). Per la prima volta nella storia dell’impero il potere era gestito collegialmente da due imperatori che si trovavano tra loro in una posizione di assoluta uguaglianza. Marco Aurelio si guadagnò il soprannome di “imperatore filosofo” per la saggezza dimostrata nella sua azione di governo e per la sua onestà e caratura morale, conforme ai precetti dottrinali dello stoicismo, di cui fu uno dei più importanti esponenti. Egli scrisse nell’ultimo decennio di regno anche un libro di memorie in lingua greca (Colloqui con se stesso), nel quale le antiche tradizioni patriottiche romane lasciavano il posto ai princìpi morali della cultura ellenistica.

Le incrinature dell’impero

Nonostante le sue indubbie capacità politiche e militari, Marco Aurelio non fu in grado di risollevare l’impero dalla crisi economica in cui stava precipitando. Il declino produttivo e commerciale della penisola italica, iniziato già alla fine del I secolo d.C., aveva provocato forti squilibri nelle finanze imperiali e il progressivo impoverimento dei suoi abitanti.
Questi fattori determinarono una minore coesione sociale che andava a indebolire la stabilità dell’impero, proprio nel momento in cui, a causa della mancanza di nuove conquiste territoriali, si interrompeva l’afflusso di nuove risorse utili al mantenimento dell’esercito e della burocrazia statale.
A questi problemi si aggiungeva la crescente minaccia dei popoli cosiddetti “barbarici” che premevano su molti fronti dell’impero, dalla Britannia ai confini lungo il Reno, dal Danubio alla Siria. Attratti dalle ricchezze delle province e pressati da altri popoli provenienti da regioni più lontane, i loro sconfinamenti erano sempre più difficili da respingere, sebbene in molte occasioni si fossero raggiunti in passato accordi di collaborazione e di reciproco rispetto.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

MARCO AURELIO: LE REGOLE DEL COMPORTAMENTO

Nei Colloqui con se stesso, opera in dodici libri scritti in greco, più conosciuti come Ricordi, Marco Aurelio svela il suo temperamento di uomo che perennemente si interroga sul destino ineluttabile degli uomini, sul senso del limite, sulla enorme responsabilità cui lui stesso è chiamato e per la quale si sente inadeguato; eppure è costante in Marco Aurelio il richiamo a rispettare il dovere, a svolgere il proprio compito, per quanto arduo, con la maggior serietà possibile.



«Dal padre mio [ho appreso] mitezza e perseveranza irremissibile nelle deliberazioni ben ponderate; il disprezzo dei cosiddetti onori; l’amore al lavoro, la tenacia; l’ascoltare quanti propongono cose di pubblica utilità; la fermezza nel ricompensare ciascuno secondo i meriti; l’esperienza nel conoscere quando sia necessaria la severità, quando la clemenza; […] l’avere il senso della comunità; il lasciare gli amici veri di non cenare sempre con lui e di non seguirlo per forza nei viaggi, il mostrare sempre lo stesso animo a coloro che per qualche impegno non avevano potuto accompagnarlo; la cura, nei consigli, di indagare le cose con attenzione e con diligenza e non già d’accontentarsi delle prime il opinioni; […] il vigilare sempre sui bisogni dello Stato, limitando le spese pubbliche e sopportando il malcontento che ne proveniva; il non essere superstizioso verso gli Dei, e verso gli uomini né piaggiatore né lodatore della plebe per goderne il favore, ma in ogni caso sobrio e tetragono;1 il non essere mai volgare né vagheggiatore di mutamenti; il trarre vantaggio senza ostentazione e senza scrupoli da quel che rende più facile l’esistenza, e di cui la fortuna ci è generosa, in modo da goderne con umiltà, allorché poteva disporne, e da non sentirne la necessità, se non lo poteva; [...] la dolcezza e la gentilezza del discorrere senza eccessi; l’aver cura della propria persona, non tanto da parere esageratamente attaccato alla vita o vanesio, e nemmeno da parere trascurato, ma quant’è sufficiente per non aver bisogno, con le proprie cure, che pochissime volte di medicine e di medici, insomma di interventi esterni. E, soprattutto, la virtù di cedere senza invidia il posto a coloro che avessero qualità particolari, o nell’oratoria o nella giurisprudenza, o nella conoscenza dei costumi o in ogni dottrina; e il collaborare con loro perché ciascuno acquistasse fama nell’arte in cui eccelleva […].»


Marco Aurelio, Ricordi, Libro I, 16, trad. di F. Cazzamini-Mussi, Einaudi, Torino 2015



1. tetragono: solido.


PER FISSARE I CONCETTI
  • Quali sono le virtù elencate nel brano da Marco Aurelio e quali invece i comportamenti criticabili?
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La debolezza dei confini

In Oriente, tra il 161 e il 166 d.C. l’esercito imperiale riuscì a respingere gli attacchi dei Parti, che erano penetrati nella Cappadocia (nell’odierna Turchia) e in Siria. Nel frattempo si era aperto (167 d.C.) un altro fronte lungo i confini nordorientali, dove i Sarmati Iazigi (e forse altre tribù) avevano invaso la Dacia e attaccato le miniere d’oro e i Longobardi erano penetrati nella Pannonia. Mentre gli imperatori erano impegnati a fermare questa invasione, un’altra minaccia si andò profilando sulla frontiera danubiana. Una grande coalizione di diversi popoli germanici dell’Europa centrale, in particolare dei Quadi e dei Marcomanni, spinti probabilmente a loro volta da Burgundi e Vandali, sfruttò la debolezza delle difese romane e per la prima volta dai tempi di Mario superò il confine (limes), penetrando nell’impero dall’Italia nordorientale, distrusse Oderzo e cinse d’assedio Aquileia (168/169 d.C.). Le guerre marcomanniche, condotte per ristabilire il confine danubiano, costituirono per i Romani un evento inatteso e destabilizzante: per oltre un quindicennio le province del Danubio, della Rezia, del Norico e perfino dell’Italia settentrionale, fino ad allora al sicuro, furono scosse da frequenti episodi di violenza e attacchi esterni.
La situazione generale venne resa ancor più grave da una devastante epidemia di peste (la cosiddetta “peste antonina”, arrivata sino a Roma e durata quasi un ventennio dal 165 d.C.), che ridusse grandemente la popolazione e di conseguenza anche le forze dell’esercito. La vastità dell’impero e il suo carattere multiforme erano tali da richiedere una più frequente presenza degli imperatori nei vari territori (saranno detti “imperatori itineranti”); inoltre, le difficoltà di governo e amministrazione delle risorse, non più sufficienti per difendersi dagli attacchi esterni, richiedevano ormai interventi coraggiosi: l’improvvisa morte di Lucio Vero, nel viaggio di ritorno dall’Illirico (169 d.C.), lasciava Marco Aurelio da solo alla guida dell’impero in un momento molto delicato. Infatti i Costoboci, popolazione proveniente dai territori compresi tra i monti Carpazi e il fiume Dnestr (corrispondenti alle regioni settentrionali della Romania), avevano invaso la Macedonia spingendosi fino quasi ad Atene. Marco Aurelio, con l’aiuto del generale Pertinace e del genero Pompeiano, riuscì a respingerli.
Nel 172 d.C. venne firmato un primo trattato di pace con i Marcomanni, i Quadi e altre popolazioni limitrofe, cui venne anche consentito di installarsi nei territori spopolati da guerre e peste. I trattati però ebbero vita breve: gli scontri furono continui e, nel 178 d.C., l’ennesima ribellione dei Quadi e dei Marcomanni provocò lo scoppio di una nuova guerra; nel 180 d.C., mentre si trovava sul fronte, provato dalle fatiche e dal sopraggiungere di una malattia, Marco Aurelio morì.

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Il dispotismo di Commodo

Alla morte di Marco Aurelio il potere passò nelle mani del figlio Commodo (180-192 d.C.), già associato dal 176 al trono imperiale. La prassi della successione per adozione, che aveva garantito per buona parte del II secolo d.C. la stabilità delle istituzioni imperiali, si interruppe quindi in favore del ritorno della successione dinastica.
Da tempo l’impero romano aveva perso la compattezza acquisita all’epoca di Traiano. Commodo, dal canto suo, si rivelò del tutto inadeguato a governare un organismo statale complesso e compromesso da una crisi politica, economica e sociale sempre più evidente.
Difficile dire se Marco Aurelio intendesse arrivare a una colonizzazione dei territori oltre il Danubio, sui quali comunque l’esercito romano era insediato; il figlio Commodo, tuttavia, decise di modificare la strategia di politica estera e optò per un sostanziale abbandono dei territori danubiani, lasciandoli a Marcomanni, Quadi e Sarmati. Fece ritirare l’esercito a sud del Danubio e fissò nel fiume stesso un confine anche per i Romani: si segnava così non solo l’abbandono spontaneo delle ultime conquiste ma anche la fine, almeno momentanea, della politica espansionistica.
La remissiva politica estera fece perdere a Commodo il sostegno degli ambienti militari, e anche il senato giudicò negativamente la sua figura. All’opposto del padre, intellettuale austero e misurato, egli visse in modo dissoluto: organizzando grandi feste e spettacoli di gladiatori, sperperò le risorse del già esausto fisco imperiale, mentre gli strati più poveri della popolazione vedevano crescere la loro miseria. Questa situazione fece aumentare le preoccupazioni e il risentimento dei senatori e dei comandanti militari, che nel ritorno alla successione dinastica vedevano i rischi di una ricaduta in un regime dispotico. Nel 192 d.C., una congiura organizzata dal prefetto del pretorio con il sostegno del senato ne provocò la morte.
Com’era già successo nel 68 d.C., il vuoto di potere che seguì alla morte dell’imperatore fece ripiombare Roma in un’epoca di guerre civili.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille