PERCORSO CULTURE E DIRITTI NEL MONDO GLOBALIZZATO

IL TEMA

1. I diritti umani e la loro tutela

Per diritti umani si intendono comunemente i diritti fondamentali e inalienabili (cioè che non possono essere revocati o sospesi) che ogni persona possiede in quanto essere umano, e quindi indipendentemente dal fatto di essere cittadino di un particolare Stato o da attributi come il sesso, la razza, la religione, le opinioni politiche, l’orientamento sessuale. I diritti umani in genere vengono divisi in due categorie: diritti civili e politici da una parte, diritti economici, sociali e culturali dall’altra. Nella prima categoria rientrano il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza, il diritto a non essere sottoposti a schiavitù e tortura, il diritto di avere un trattamento equo di fronte alla legge e subire un giusto processo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria opinione, il diritto di professare liberamente la propria religione (libertà di culto). Nella seconda categoria rientrano invece il diritto al lavoro e alla sua giusta retribuzione, il diritto di possedere un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere propri e della propria famiglia, il diritto all’istruzione. I diritti umani sono caratterizzati dall’universalità (sono cioè applicabili ovunque e in qualunque occasione) e dall’uguaglianza (sono gli stessi per tutti).
Nel 1948 l’Onu ha promulgato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ( Passato&presente), uno dei primi tentativi di far riconoscere i diritti umani a livello internazionale.
Nel 1966 sono state firmate, sempre in seno all’Onu, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che sono diventate ufficialmente parte del diritto internazionale nel 1976, essendo state ratificate da un numero di Paesi sufficiente a farle adottare a livello internazionale. Da allora l’Onu ha il potere di condannare le violazioni dei diritti umani che avvengono nei vari Paesi del mondo e, nei casi più gravi, di intervenire con strumenti come le sanzioni internazionali e l’invio di osservatori, oppure di contingenti militari, secondo il principio della cosiddetta ingerenza umanitaria.

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passato&presente

La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: un fondamento valido in tutto il mondo

La Dichiarazione consiste in un preambolo e in 30 articoli che stabiliscono i diritti fondamentali di ciascun essere umano.
Benché non fosse vincolante, la Dichiarazione ha posto le basi per l’inclusione dei diritti umani nelle norme del diritto internazionale.
Dal Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948:

«Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; […]
Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà [...]
L’ASSEMBLEA GENERALE
proclama la presente Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione».

IL PROBLEMA

2. I diritti violati

Come abbiamo visto, i diritti umani sono idealmente universali, cioè validi in qualunque luogo o circostanza, e posseduti da ogni individuo indipendentemente dalle sue caratteristiche e scelte. Eppure nel mondo le più gravi violazioni dei diritti umani individuali avvengono proprio nei confronti delle categorie ritenute più deboli o incapaci di difendersi, o che per particolari circostanze si trovano in una condizione di minoranza: donne, bambini e appartenenti a minoranze religiose, etniche e razziali.
Un’altra forma di violazione dei diritti umani, che non coinvolge la violenza diretta ma è spesso ancora più dannosa a causa della sua pervasività e della difficoltà nel combatterla, è la discriminazione, cioè la pratica di porre gli appartenenti a una determinata categoria umana o sociale in condizione di svantaggio rispetto agli altri per quanto riguarda molti aspetti della vita pubblica, come il lavoro, la scuola, l’esercizio di diritti civili, per esempio quello di voto.

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La condizione della donna

Nonostante le donne costituiscano la maggioranza della popolazione in vari Paesi (in quanto, come già accennato, vivono in media più a lungo degli uomini), in molte società e culture vivono in una condizione di subordinazione rispetto all’uomo, e sono vittima di forme di violenza e discriminazione “di genere”, cioè a causa del loro sesso. Diverse popolazioni in varie parti del mondo adottano ancora forme di organizzazione sociale di tipo patriarcale, in cui l’autorità, sia all’interno della famiglia sia nella vita comunitaria, è esercitata degli uomini più anziani, mentre le donne sono relegate a ruoli di secondo piano, e si dedicano alla cura della casa e dei figli oppure all’esercizio di lavori di scarsa responsabilità e poco specializzati.
In alcuni casi la condizione di inferiorità sociale della donna è sancita dalle leggi stesse dello Stato: per esempio in Iran e in Arabia Saudita alcuni reati (come l’adulterio, che è considerato un crimine dalla legge tradizionale islamica seguita in questi Paesi) sono puniti più duramente se a commetterli è stata una donna. In Arabia Saudita le donne sono considerate per tutta la vita come minorenni e sono soggette all’autorità di un “tutore” uomo: prima il padre e poi, una volta sposate, il marito.
Ci sono poi forme di violenza che riguardano in modo precipuo la donna, come le violenze o le molestie sessuali, spesso perpetrate da membri della famiglia: questa piaga è purtroppo diffusa in tutto il mondo. Un altro tipo di crimine commesso in prevalenza nei confronti delle donne è lo sfruttamento e l’impiego nel mercato della prostituzione: molte donne sono la “merce” di un vero e proprio traffico di esseri umani gestito dalle organizzazioni criminali.
La discriminazione delle donne avviene in molti campi: in Europa, per esempio, si stima che le donne lavoratrici guadagnino mediamente dal 15 al 30% in meno dei loro colleghi uomini a parità di occupazione; inoltre le donne sono quasi ovunque in minoranza nelle cosiddette “posizioni di potere”, cioè le occupazioni o le cariche pubbliche di più alto livello e maggiore responsabilità. I dirigenti d’azienda, parlamentari, ministri e capi di governo uomini sono ancora in netta maggioranza in molti Paesi.

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Lo sfruttamento dei bambini

Una delle categorie più indifese, e quindi maggiormente esposte a episodi di sfruttamento e abuso, è quella dei bambini e dei minori in genere. Nonostante il diritto dei bambini ad avere un’educazione e a vivere un’infanzia senza traumi sia sancito in tutti gli accordi internazionali sui diritti umani, come la Convenzione sui diritti dell'infanzia promossa dall’Onu nel 1989, sono moltissimi quelli che vivono in condizioni difficili, di sfruttamento o di mancanza delle più elementari forme di assistenza e protezione. Una delle forme più diffuse di sfruttamento dei piccoli è il lavoro minorile: si stima che nel mondo siano circa 215 milioni i bambini e i ragazzi sotto i 18 anni che lavorano; nell’Africa subsahariana lavora un ragazzino (tra i 5 e 17 anni) su quattro.
Un’altra violazione dei diritti fondamentali dei bambini è la negazione del diritto allo studio: sono oltre 130 milioni i bambini in età scolare nel mondo che non vanno a scuola, e che quindi, quando cresceranno, avranno poche possibilità di migliorare la propria posizione economica e sociale.
Come le donne, infine, i bambini sono spesso vittima di particolari forme di violenza e criminalità. Il traffico di minori è una realtà in molti Paesi, con oltre un milione di ragazzini all’anno che finiscono nella rete di organizzazioni criminali; molti vengono rapiti, poi trasferiti in altre regioni o Paesi, dove sono impiegati come lavoratori domestici, nelle fabbriche; a volte vengono sfruttati per arricchire il mercato della prostituzione minorile. Una delle organizzazioni internazionali più attive nel campo della difesa dei diritti dei minori è l’Unicef (United Nations Children’s Fund, Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia), un’agenzia dell’Onu fondata nel 1946.

La difficile vita delle minoranze

Spesso, in una comunità o un Paese, il solo fatto di essere “diversi” è motivo sufficiente per diventare bersaglio di discriminazioni, pregiudizi o addirittura violenze. È questo il caso, per esempio, degli appartenenti alle minoranze linguistiche, religiose, etniche o razziali, che in molti Paesi vedono minacciati o negati i propri diritti civili. I motivi possono essere molti, e qualche volta le discriminazioni e le violenze sono incoraggiate, o addirittura perpetrate, dallo stesso governo per motivi politici.
È il caso dei curdi, che in Iraq sono stati vittima di violenze ai tempi della dittatura di Saddam Hussein e che ancora oggi vengono discriminati dal governo della Turchia, deciso a salvaguardare l’unità nazionale del Paese non riconoscendo ufficialmente altre etnie e lingue che non siano quella turca. Sono moltissimi nel mondo i casi di intere popolazioni o etnie perseguitate da politiche di discriminazione legalizzate.
Fenomeni di intolleranza, discriminazione e violenza nei confronti delle minoranze possono anche essere causati da sentimenti di xenofobìa (dai termini greci xénos, “estraneo, insolito”, e phóbos, “paura”), cioè la paura irrazionale nei confronti di ciò che è ritenuto “diverso” o straniero. Spesso nel mondo moderno, infatti, la xenofobia si traduce nella paura che provano gli appartenenti a una comunità di perdere la propria identità, o lo stile di vita a cui sono abituati, a causa dell’arrivo di “stranieri”.
Strettamente legato alla xenofobia è il razzismo, cioè la convinzione che esistano diverse “razze” – vale a dire categorie di individui accomunati da determinate caratteristiche fisiche, morali o intellettuali –, e che alcune di queste razze siano naturalmente superiori o inferiori alle altre. Il razzismo è stato tra i fattori che hanno contribuito a far nascere fenomeni di violenza e sistematica violazione dei diritti umani, come la tratta degli schiavi neri dall’Africa all’America avvenuta dal XVI al XIX secolo, un fatto storico che ha ancora oggi forti ripercussioni nei Paesi americani, in particolare negli Stati Uniti. Qui infatti i cittadini di origine africana sono ancora vittima di violenze ed episodi di discriminazione, nonostante siano presenti nel Paese da secoli e abbiano contribuito a formare la cultura degli Stati Uniti, e nonostante le grandi battaglie combattute nel corso del Novecento per la conquista dei diritti civili dei neri.
Gli ideali di purezza razziale, cioè la convinzione che le razze “inferiori” siano da tenere separate (la cosiddetta “segregazione razziale”) o da eliminare del tutto per evitare che contaminino le razze superiori, sono stati poi una delle ragioni alla base dell’uccisione di milioni di ebrei, di rom, disabili mentali, prigionieri politici e omosessuali da parte della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Gli ebrei, in particolare, sono una minoranza etnica e religiosa soggetta a discriminazioni e violenze da migliaia di anni, tanto che per il sentimento di avversione e odio nei loro confronti è stato coniato un termine specifico: antisemitismo.

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IL TEMA

3. Modelli culturali per un mondo nuovo

Alla luce di fenomeni come la nascita del mercato economico globale, lo sviluppo di una rete mondiale di comunicazioni, l’incremento degli spostamenti individuali tra regioni e continenti, è aumentata la probabilità che individui, popoli, culture, idee, mode e valori si trovino oggi fianco a fianco e si confrontino. Da una parte si tratta di un’opportunità per gli uomini e le donne contemporanei, che hanno a disposizione una quantità di stimoli, suggestioni e idee impensabile soltanto qualche decennio fa. Dall’altra, una tale abbondanza può disorientare ed essere rifiutata.

Un cammino verso il multiculturalismo

Molti credono che i punti in comune siano superiori alle differenze e che nasceranno (o sono già nate) società in cui convivono valori e credenze differenti, e dove anche una singola persona può scegliere, nel grande “caleidoscopio culturale” che la società le offre, i valori e gli stili di vita che preferisce, combinandoli in un’identità unica.
Si tratta del cosiddetto multiculturalismo, al cui interno, tuttavia, esistono molte sfumature. Il tipico esempio di società multiculturale, usato come modello dagli studiosi, è quello degli Stati Uniti, un Paese la cui popolazione è formata da persone di diverse origini etniche e culturali. La metafora per indicare la società multiculturale e multirazziale americana è stata per molti decenni quella del melting pot, letteralmente il grande “calderone” dove le diverse identità si “fondono” per dare vita a una società nuova e unica, in nome della quale ogni persona residente negli Stati Uniti può dimenticare le proprie origini e dichiararsi semplicemente “americano”. Negli ultimi decenni, però, il modello del melting pot ha subito critiche da parte sia dei sostenitori del multiculturalismo sia dei suoi oppositori, in quanto prevede non solo l’integrazione ma la totale assimilazione culturale degli individui, che in questo modo perdono completamente la loro vecchia identità in favore di una nuova.
Da queste obiezioni sono nate nuove metafore e modelli per indicare una situazione ideale in cui gruppi e persone non perdono la propria identità iniziale, che anzi viene considerata una ricchezza, ma allo stesso tempo possono vivere pacificamente fianco a fianco e scambiarsi esperienze e valori. Il melting pot ha lasciato così il posto al salad bowl, l’insalatiera dove gli ingredienti sono mescolati ma non si fondono tra loro.
Non tutti però sono convinti che il mescolamento di culture e valori possa dar vita a una società migliore e più ricca; anzi, molti pensano che, più questi elementi così differenti verranno avvicinati e messi a contatto, maggiori saranno le opportunità di scontro e di disordine.
Molti ritengono che la convivenza ravvicinata di culture e valori di diversa provenienza sia negativa, poiché rischia di causare la perdita di identità, cioè di annullare le varie realtà culturali che si sono formate su un determinato territorio nel corso dei secoli in un’unica cultura omogenea e priva di un’autentica e forte identità.

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Organizzazioni non governative e tutela dei diritti

Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, le organizzazioni intergovernative come l’Onu sono in prima linea per promuovere il rispetto dei diritti umani nel mondo. Ma un ruolo molto importante in questo senso è svolto anche delle cosiddette Organizzazioni non governative (Ong), molte delle quali sono nate con lo scopo preciso di sensibilizzare la popolazione su questo tema. Come suggerisce il nome, le Ong non fanno parte dell’apparato di governo di alcuno Stato e non ricevono finanziamenti statali, ma si sostengono solo grazie al contributo di individui e associazioni private. Le Ong agiscono come osservatori imparziali, pubblicando inchieste e rapporti sul rispetto dei diritti umani nei vari Paesi del mondo, oltre a spingere i propri aderenti a fare pressione sui governi dei Paesi di cui sono cittadini perché risolvano i problemi interni sul fronte dei diritti umani o si schierino, in ambito internazionale, contro i Paesi colpevoli di violazioni.
Una delle più note è Amnesty International, fondata a Londra nel 1961. Forte di oltre 3 milioni tra iscritti e simpatizzanti, ha ricevuto nel 1977 il Premio Nobel per la Pace in riconoscimento della sua campagna contro la tortura nel mondo. Un’altra importante organizzazione è Human Rights Watch, fondata nel 1978 a New York e con sedi in diverse città del mondo.
La Ong francese Reporters Sans Frontières (“giornalisti senza frontiere”), fondata a Parigi nel 1985, si batte invece per la libertà di stampa e di informazione nel mondo, oltre ad agire come un’agenzia di stampa internazionale, diffondendo notizie sulle violazioni dei diritti umani ovunque avvengano.

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IL PROBLEMA

4. Il lavoro come fonte di schiavismo

La Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali promossa dall’Onu, entrata in vigore nel 1976 e attualmente firmata da 160 Paesi, riconosce a ogni individuo il diritto al lavoro. Specifica inoltre che si debba trattare di un lavoro dignitoso, cioè che offra un compenso equo e commisurato all’attività svolta, che si svolga in sicurezza e senza pericoli per la salute del lavoratore, che abbia orari limitati e fissati per legge e così via. Purtroppo in molti casi, e in particolare in alcune regioni del mondo, i diritti dei lavoratori non sono pienamente rispettati, se non del tutto ignorati. I lavoratori dei Paesi sviluppati come quelli europei e del Nord America hanno dovuto lottare duramente, nel corso del XIX e del XX secolo, per migliorare le proprie condizioni, ottenendo gradualmente una retribuzione minima più elevata, una diminuzione dell’orario lavorativo giornaliero e garanzie di sicurezza, oltre alla proibizione del lavoro minorile e a una serie di protezioni che rientrano nell’ambito della cosiddetta sicurezza sociale, come la tutela in caso di malattia e infortunio sul lavoro e le pensioni di invalidità e anzianità.
Tutto questo è avvenuto grazie al diritto (anche questo faticosamente conquistato) di organizzarsi in associazioni, i sindacati, che hanno il compito di trattare con i datori di lavoro i contratti collettivi, cioè uguali per tutti i lavoratori dello stesso settore.
Nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, invece, alcune di queste conquiste non sono ancora avvenute, e i lavoratori sono spesso costretti a guadagnarsi di che vivere in condizioni di sfruttamento che, in casi estremi, equivalgono a quelle della schiavitù.

Il prezzo dello sviluppo nei Paesi poveri

Nei Paesi in via di sviluppo molti lavoratori operano in condizioni difficili e senza alcuna tutela. Nelle regioni più povere come quelle africane, soprattutto nel Sahel, nel Corno d’Africa e nell’Africa subsahariana, la maggior parte delle donne, degli uomini e dei bambini è costretta a lavorare la terra per procurarsi il necessario per sopravvivere, senza alcun tipo di protezione da parte dello Stato.
Nei Paesi emergenti, dove la recente espansione industriale ha portato alla nascita di moltissime fabbriche che lavorano a ciclo continuo, le condizioni di lavoro negli stabilimenti sono simili a quelli che si potevano incontrare in Europa e Nord America durante la prima rivoluzione industriale, nel XIX secolo. Dall’India al Pakistan e al Bangladesh, dalla Colombia al Messico, dall’Indonesia alla Thailandia, enormi fabbriche e innumerevoli laboratori artigianali e industriali più piccoli ospitano milioni di persone (molti dei quali bambini) che lavorano anche 18 ore al giorno per un compenso giornaliero a malapena sufficiente a garantire la sopravvivenza. Molti utilizzano macchinari pericolosi e sono esposti a sostanze chimiche tossiche, e gli incidenti sono all’ordine del giorno. Parecchi stabilimenti sono di proprietà o lavorano per imprese e multinazionali con sede nei Paesi avanzati, che hanno spostato la produzione in zone più povere per abbattere i costi.
In Cina, i milioni di contadini che giungono dalle campagne nelle grandi città hanno fatto la fortuna del settore industriale, che li impiega come manodopera a basso costo: un’espansione economica e industriale che ha un alto prezzo in termini sociali. In stabilimenti grandi come città, sorti alla periferia di metropoli come Shanghai e Shenzhen, possono lavorare anche centinaia di migliaia di persone, impiegate con turni massacranti nelle linee di montaggio di circuiti integrati e microchip per i più moderni computer e telefoni cellulari. Molti operai dormono in locali simili a caserme a pochi metri dai macchinari e vengono puniti per ogni eventuale protesta organizzata, in quanto le organizzazioni sindacali sono proibite.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille