Capitolo 4 - L’espansione degli imperi

Capitolo 4 L’ESPANSIONE DEGLI IMPERI

i concetti chiave
  • La fragilità dello sviluppo: la crisi agricola e il calo demografico
  • Migrazioni di popoli nomadi verso la mezzaluna fertile
  • Età del ferro e rivoluzione metallurgica: la produzione di nuove armi e l’imporsi della guerra come nuova fonte di ricchezza
  • La formazione di nuovi imperi basati su una politica di integrazione 
  • La potenza degli Ittiti e la conquista di Babilonia grazie all’esercito e a nuove tecniche di guerra
  • L’impero degli Assiri e la sottomissione militare dei popoli, ridotti in schiavitù
  • Il regno neobabilonese: cade l’impero assiro, emergono nuovi popoli (Medi e Caldei), Nabucodonosor conquista Gerusalemme e deporta gli Ebrei
  • L’impero persiano: le conquiste, la riorganizzazione del territorio, le nuove vie di comunicazione, lo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci, lo zoroastrismo e la legittimazione religiosa del re

1. La crisi del II millennio a.C.

Nel corso del II millennio a.C. una crisi di grandi proporzioni si abbatté sul Vicino Oriente. Fu il collasso di un intero sistema politico ed economico. Dopo quasi mille anni di relativa stabilità, incursioni straniere, guerre e periodi di crisi agricole portarono a frequenti scontri militari, deportazioni, riduzioni in schiavitù, violenze, carestie e pestilenze. Ne conseguì inevitabilmente un forte calo demografico: quasi ovunque la popolazione si dimezzò. I territori furono abbandonati, gli insediamenti si concentrarono di nuovo nelle vallate irrigue e alcune tribù tornarono al pieno nomadismo. Un’estesa e lunga siccità, diffusa in tutto il Mediterraneo, causò una devastante crisi produttiva con gravi conseguenze sull’agricoltura: il sistema di canalizzazione delle acque non resse più e le scarse risorse dell’entroterra non poterono rimediare alle rovinose carestie. Aridità dei terreni e abbandono dei centri abitati sconvolsero le attività e ridussero drasticamente gli scambi mercantili. Perfino la scrittura fu abbandonata, non essendoci derrate da registrare.

In Mesopotamia la crisi ebbe pesanti conseguenze sociali. Da molte fonti sappiamo che le famiglie rurali erano talmente impoverite che furono spesso costrette a svendere i terreni, a indebitarsi e a consegnarsi come schiavi o a dare figli e mogli in pegno. Il debito divenne il segno dello squilibrio sociale: provocò la fine della solidarietà tradizionale di famiglia, di clan, di tribù e, nel contempo, l’arricchimento incontrollato dell’aristocrazia di palazzo che si fece ancora più predatoria e arrogante. I re, rivelando miopia politica, per mantenere prestigio e potere imposero tasse più pesanti impossibili da onorare. A intere tribù non restò che scappare, abbandonando le terre.

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Migrazioni e spostamenti

Probabilmente la crisi fu aggravata dalle incursioni o migrazioni di popoli nomadi che vivevano in Anatolia, in Asia centrale e nella penisola arabica. Le risorse alimentari disponibili in queste aree non erano più sufficienti a sostenere l’incremento demografico delle popolazioni che le abitavano: attirate dalla ricchezza e dalla prosperità delle città mesopotamiche, esse si spostarono dunque verso il Tigri e l’Eufrate, dando vita a grandi movimenti migratori.

Gli storici discutono molto su queste “migrazioni” poiché le fonti documentarie sono poche e il riferimento più affidabile è la mappa linguistica, che mostra, nella presenza di termini e forme verbali di ciascun idioma, il grado di integrazione tra chi migrava e le popolazioni residenti. Piuttosto che una “grande migrazione” di interi popoli, è più verosimile immaginare una lunga fase di spostamenti di piccoli gruppi, tribù e clan da un territorio inaridito a uno più prospero. Si trattava, per lo più, di spostamenti di popolazioni che interessarono a fasi alterne, più o meno accentuate, il periodo tra il III e il II millennio a.C. e che ebbero due centri di irradiazione principali: la pianura ungherese e il bassopiano sarmatico (corrispondente più o meno all’attuale pianura russa europea) la terra degli indoeuropei, a nord, il deserto arabico delle popolazioni semitiche a sud-est.

Gli indoeuropei: non un insieme di popoli ma una famiglia linguistica

Con il termine “indoeuropei” non si fa riferimento a un’etnia o a una razza omogenea, bensì a una famiglia linguistica, cioè a un gruppo di antiche popolazioni le cui lingue sembrano essere accomunate da un numero tale di affinità che i glottologi hanno ipotizzato l’esistenza di una lingua comune da cui deriverebbero.
Gli studiosi discutono ancora sull’effettiva identità di questi popoli, sulla presenza di eventuali affinità culturali tra di essi e sulla sede originaria di provenienza. A oggi, una delle ipotesi più accreditate è che si tratti di antiche tribù guerriere provenienti dalle terre comprese tra Urali e Danubio, che si sarebbero poi spostate verso sud tra IV e III millennio a.C. in una serie di successive ondate migratorie, in seguito alle quali i dialetti parlati dai popoli emigrati si sono diffusi su un territorio compreso tra l’India e l’Europa, sostituendosi alle lingue indigene, ma talvolta anche fondendosi con esse, differenziandosi ulteriormente in una serie di altre lingue.
Il cosiddetto “indoeuropeo comune” è una ricostruzione frutto del confronto e della comparazione delle lingue interessate.

Invasioni da terra e dal mare

Alla fine del II millennio, il peggioramento delle condizioni climatiche nell’altopiano iranico, a oriente della valle del Tigri e dell’Eufrate, da dove era possibile controllare gli scambi commerciali che avvenivano tra la mezzaluna fertile e la valle dell’Indo, spinsero le tribù nomadi a minacciare con rapide incursioni le ricche città delle pianure, prive di difese naturali. Oltretutto questo altopiano costituiva anche un’agevole via di comunicazione tra l’Asia centrale e la Mesopotamia, per cui le stesse vie commerciali che avevano contribuito a incrementare la ricchezza delle città-Stato mesopotamiche si trasformarono in un varco per l’arrivo di popolazioni bellicose, e i sentieri di terra battuta utilizzati dai mercanti furono sfruttati dai popoli nomadi come vie di accesso per l’invasione delle pianure.

Negli spostamenti periodici che da secoli compivano nelle regioni circostanti le valli fluviali del Vicino Oriente, le tribù nomadi si muovevano in lunghe carovane con donne, bambini, attrezzi e oggetti di uso quotidiano al seguito. I loro mezzi di trasporto erano i dromedari nella penisola arabica e i cammelli in Asia centrale. Questi animali, a differenza degli ovini e dei bovini allevati nella mezzaluna fertile, non erano utili nelle attività agricole, ma in compenso, erano adatti a percorrere lunghe distanze nei deserti, avevano solo la necessità di fare tappe intermedie per rifornirsi d’acqua. Le  oasi spontanee divennero così punti di riferimento indispensabili, all’interno delle quali si formarono piccole comunità che facevano da collegamento con i popoli delle pianure irrigue e che permisero la diffusione di scambi commerciali in un territorio difficile come il deserto.

Nello stesso periodo, altri invasori giunsero nel Vicino Oriente via mare, attraverso le rotte che fino ad allora erano state usate per i commerci. Si tratta dei cosiddetti popoli del mare, che compirono violente incursioni nel Mediterraneo orientale. Le fonti antiche designano con questo nome quei popoli provenienti dai territori costieri dell’Europa e dell’Asia minore (i Teucri dalla Troade, in Turchia, i Sicelioti dalla Sicilia, i Danai dalla Grecia, i Sardi dalla Sardegna) che devono la loro iniziale superiorità all’adozione di una nuova tecnica di guerra basata non sul carro trainato da cavalli, ma sulla fanteria leggera armata di giavellotti e spade.

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2. Ferro e guerre: nuove fonti di ricchezza

Inadatti all’agricoltura a causa dei terreni aridi e del territorio montuoso, gli altopiani attraversati dalle popolazioni nomadi erano tuttavia ricchi di una fondamentale risorsa naturale: grandi giacimenti di ferro. Rispetto al rame e allo stagno (quest’ultimo diffuso solo in poche zone del Vicino Oriente), necessari per la produzione del bronzo, il ferro era più facile da reperire, ma per le difficoltà connesse alla sua lavorazione rimase a lungo impossibile rea­lizzare armi o strumenti di uso quotidiano sufficientemente resistenti; di conseguenza, sino alla fine del II millennio a.C. il ferro venne utilizzato soltanto per produrre oggetti preziosi (vasi, anelli o collane).

La rivoluzione metallurgica: tecnologia per nuove armi e nuove guerre

I progressi nella lavorazione del ferro furono una diretta conseguenza delle invasioni delle popolazioni nomadi, perché rivoluzionarono i sistemi di approvvigionamento delle materie prime. La crisi delle organizzazioni statali, fondamentali per amministrare i commerci di lunga distanza, portò infatti a una diminuzione degli scambi e di conseguenza divenne molto difficile procurarsi lo stagno per produrre il bronzo. La necessità di trovare un’alternativa al bronzo e l’abbondante presenza di minerale di ferro stimolarono quindi la ricerca di un nuovo metodo di lavorazione, in grado di rendere più resistenti i manufatti in ferro. In breve tempo, questo metallo sostituì tutti gli altri materiali nella produzione di molti utensili e in particolare delle armi, molto più dure e resistenti di quelle in bronzo utilizzate fino a quel momento.

La diffusione delle nuove tecniche di lavorazione del ferro determinò dunque profondi cambiamenti economici e sociali in tutto il Vicino Oriente, in quanto il commercio dei prodotti in ferro influenzò la nascita e l’evoluzione dei nuovi imperi che si affermarono nella regione tra il 1200 e l’800 a.C., in grado di sostenere battaglie e incursioni con armi di ben più elevata efficienza. In ragione dell’importanza della rivoluzione metallurgica, tale periodo è stato definito dagli storici età del ferro.

Grazie alle nuove armi, i popoli nomadi poterono sconfiggere gli organismi statali della Mesopotamia, dando avvio a una fase storica caratterizzata da numerosi avvicendamenti nella supremazia territoriale della regione. Se nei millenni precedenti la principale risorsa economica era stata l’agricoltura, con l’età del ferro i nuovi imperi sorti nel Vicino Oriente fondarono la propria prosperità su una nuova fonte di ricchezza: la guerra. La potenza degli Stati si misurava ormai sull’espansionismo militare, che comportava un ricorso continuo alle invasioni e agli scontri armati.

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• SOTTO LA LENTE • TECNOLOGIA

L’evoluzione della lavorazione del ferro

Il ferro ottenuto dalla prima fusione del minerale grezzo era molto fragile, quindi gli utensili realizzati con questo procedimento erano meno resistenti di quelli in rame. Si spiega così perché sino alla fine del II millennio a.C. il ferro venne utilizzato soltanto per produrre vasi, anelli o collane, mentre rimase a lungo impossibile realizzare armi o strumenti di uso quotidiano sufficientemente solidi. Un’accurata lavorazione del ferro doveva prevedere una seconda fusione, durante la quale veniva arricchito con il carbonio, che lo trasformava in acciaio. Un’ulteriore difficoltà tecnica era dovuta alle sue >elevate temperature di fusione (1537 °C), che i forni più antichi non erano in grado di raggiungere.

Alla fine del II millennio a.C., gli artigiani introdussero un nuovo procedimento, articolato in varie fasi. La lavorazione che ne derivò rimase la stessa per molti secoli: in un forno a ventilazione naturale si riscaldavano i minerali di ferro (limonite, ematite, siderite, magnetite) assieme a carbone di legna, fino a separare dalle scorie una massa spugnosa, che veniva ribattuta più volte (ferro battuto) per eliminare impurità e conferire compattezza e malleabilità.

A questo punto del processo si inseriva la principale innovazione introdotta dai fabbri dell’età del ferro, ossia la carburazione: il ferro ancora caldo veniva martellato sulla brace incandescente, a contatto con il carbone della legna bruciata; in questo modo si arricchiva del carbonio prodotto dalla combustione della legna, diventando molto più resistente. Per indurire ulteriormente il ferro si procedeva poi con la tempra: il metallo rovente veniva immerso nell’acqua fredda, perché il rapido abbassamento della temperatura rendeva più solido il manufatto.

3. I nuovi imperi tra conquista e integrazione

Dopo i frequenti rivolgimenti politici che interessarono il Vicino Oriente tra l’età del bronzo e l’età del ferro e che portarono a una continua frammentazione politica, presero avvio organismi statali più stabili, frutto della fusione tra i conquistatori e le popolazioni del luogo. Le strategie di conquista degli invasori si possono racchiudere in uno schema che si riproduceva con modalità analoghe: i conquistatori sottomettevano con la forza le comunità preesistenti e sfruttavano a proprio beneficio le loro risorse economiche, assumendo il ruolo di aristocrazia guerriera dedita all’esercizio delle armi mantenuta dalle popolazioni sottomesse, costrette a lavorare nei campi in condizioni di schiavitù. Quando poi le dimensioni degli imperi superavano una certa soglia, gestire territori troppo vasti per quei livelli di organizzazione diventava prima difficile e poi impossibile; gli organismi statali entravano in crisi, si indebolivano e nuove popolazioni bellicose si avvicendavano al potere.
Dopo una prima fase caratterizzata da un potere violento, nei rapporti tra i conquistatori e le popolazioni sottomesse si svilupparono fenomeni di integrazione, grazie alla quale la cultura dei vinti veniva ereditata dai vincitori bellicosi. L’esempio più interessante è quello dei Sumeri: la loro scrittura si diffuse in tutto il Vicino Oriente; le loro leggi ispirarono nuove legislazioni; l’espansione dell’agricoltura in altre regioni mutuò le tecniche di coltivazione nate in Mesopotamia.

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L’impero ittita

Il ricco impero babilonese, all’apparenza solido grazie al forte potere centrale del sovrano, era crollato anche per la spinta delle popolazioni nomadi. Tra queste, un ruolo di primo piano fu svolto dagli Ittiti, popolo indoeuropeo originario delle steppe dell’Asia centrale, che traevano le proprie risorse economiche soprattutto dai bottini di guerra, che razziavano nelle loro frequenti scorrerie, e dal commercio dei prodotti in ferro, ancora principalmente monili e vasellame. La potenza degli Ittiti arrivava dall’esercito, in particolare dall’abilità degli arcieri e dalla velocità dei carri da guerra, trainati da cavalli e dotati di ruote a raggi, più resistenti e più leggere di quelle in legno pieno ancora usate, che davano grande manovrabilità ai carri ittiti, rendendoli decisivi in battaglia.

Agli inizi del II millennio a.C., le tribù ittite si erano spostate verso l’Europa, penetrando poi nella parte settentrionale dell’Anatolia attraverso lo stretto dei Dardanelli; qui si erano integrate con gli Hatti. Organizzate in numerosi e piccoli regni indipendenti, le tribù riconoscevano però l’autorità di un re comune, insediato nella capitale Hattusha, il cui potere era sottoposto al controllo di un’assemblea di nobili capi guerrieri, chiamata pankush.

Le scorrerie degli Ittiti divennero vere e proprie guerre verso il 1650 a.C., quando il re Hattushili I conquistò gran parte della penisola anatolica e della Siria. Nel 1595 a.C. il suo successore Murshili I si spinse fino al centro della Mesopotamia, occupando la città di Babilonia: l’impero fondato dagli Amorrei crollò rapidamente, disgregandosi in vari Stati indipendenti. Temendo che le vittorie militari rafforzassero troppo il potere del sovrano, il pankush pretese a questo punto che il re si sottomettesse alla volontà dei nobili ittiti. Ne conseguì un indebolimento del regno e la sua frammentazione. Intorno al 1350 a.C., però, sotto la guida del re Shuppiluliuma I e dei suoi successori, gli Ittiti riunificarono l’Anatolia e riconquistarono la Siria, creando un vasto impero e fermando l’avanzata degli Egizi, guidati dal faraone Ramses II, nella battaglia di Qadesh (1284 a.C.;  p.102).

L’impero assiro

La disgregazione dell’impero babilonese seguita alla conquista ittita aveva favorito l’invasione della Mesopotamia da parte dei Cassiti, un popolo inizialmente stanziato sull’altopiano iranico, che controllarono la bassa Mesopotamia tra il 1700 e il 1150 a.C. circa. Alla loro dominazione seguì quella degli Elamiti, provenienti dalle coste orientali del golfo Persico, che imposero il loro potere in Mesopotamia intorno al 1150 a.C.

In mancanza di un grande impero centralizzato, si affermarono a vicende alterne numerosi altri regni indipendenti, tra i quali il regno degli Assiri, popolazione di origine semitica proveniente anch’essa dall’altopiano iranico. Già intorno al 1400 a.C. gli Assiri si erano imposti sull’area centrosettentrionale della Mesopotamia; in seguito, grazie alle armi in ferro e agli efficaci carri da guerra, la cui struttura era non solo più solida, ma anche più leggera per l’impiego del nuovo metallo, essi divennero militarmente superiori a tutti i popoli della regione e, a partire dal 900 a.C. circa, fondarono un impero esteso fino alla Siria e alla Palestina. Nel 671 a.C. conquistarono anche l’Egitto, entrato in una grave crisi dopo la fine del Nuovo Regno. Sotto il sovrano Assurbanipal (668-629 a.C.), l’ultimo grande sovrano assiro, l’impero raggiunse la sua massima espansione, controllando di fatto tutto il Vicino Oriente.

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Il regno neobabilonese

La supremazia dell’impero assiro si basava sull’inarrestabile espansione militare e sulla crudele sottomissione delle popolazioni sconfitte, ridotte in stato di schiavitù per mantenere un’aristocrazia guerriera dedita esclusivamente alle occupazioni militari.

Le guerre comportavano però un ingente dispendio di risorse economiche. La crescente difficoltà nel finanziare le campagne militari, insieme all’indebolimento causato dalle lotte interne tra i nobili guerrieri, provocò intorno al 700 a.C. la crisi dell’impero assiro e favorì l’indipendenza delle popolazioni sottomesse. Tra queste si affermarono i Medi, popolo di origine indoeuropea che aveva occupato l’altopiano iranico: essi posero fine all’impero assiro, conquistandone la capitale Ninive nel 612 a.C.

Anche i Caldei, una popolazione semitica che si era stanziata a Babilonia, approfittarono della caduta degli Assiri e diedero vita a un regno neobabilonese, esteso su tutta la Mesopotamia. Nel 586 a.C. il re caldeo Nabucodonosor conquistò anche Gerusalemme, capitale del regno degli Ebrei in Palestina, e ne deportò la popolazione a Babilonia.

I giardini pensili di Babilonia

Tra i lavori architettonici fatti realizzare da Nabucodonosor si ricordano anche i giardini pensili di Babilonia. Il sovrano caldeo aveva fatto erigere, forse nei pressi della porta di Ishtar, una sorta di parco botanico sopraelevato, ricco di moltissime varietà di piante. Secondo la leggenda, i giardini pensili erano stati progettati per alleviare la nostalgia della principessa Amiti (probabilmente la moglie di Nabucodonosor), originaria della regione della Media (a est della Mesopotamia), per le fertili terre in cui aveva vissuto la sua giovinezza. Nella realizzazione dell’imponente costruzione, di cui non sono stati ancora localizzati con certezza i resti archeologici, furono sfruttate le conoscenze idrauliche elaborate dai popoli mesopotamici nel corso dei millenni. Grazie a queste tecnologie, i neobabilonesi riuscivano a far arrivare fino ai piani elevati delle terrazze le abbondanti quantità di acqua necessarie a mantenere irrigate le piante che ornavano i giardini.
L’immagine, una xilografia del 1529, ricostruisce i giardini pensili di Babilonia secondo la descrizione dello storico greco Erodoto (480-425 a.C. ca), che visitò Babilonia. 

Il vasto impero persiano

Il regno neobabilonese fu travolto dall’avanzata di un popolo indoeuropeo, i Persiani. Sotto la guida di Ciro II il Grande (559-530 a.C.), membro della famiglia reale degli Achemenidi, nel VI secolo a.C. i Persiani formarono con i Medi un unico Stato, e tra il 547 e il 538 a.C. conquistarono tutto il Vicino Oriente. Cambise II (530-522 a.C.), figlio di Ciro, conquistò l’Egitto e, nel 521 a.C., il suo successore, Dario I (522-486 a.C.), estese i confini imperiali in Tracia (Grecia settentrionale) e in Asia centrale, giungendo fino alla valle dell’Indo. Per la prima volta, un unico potere imperiale estendeva il controllo sia sulle aree delle grandi civiltà fluviali, sia sulle zone di provenienza delle popolazioni nomadi che ne avevano a più riprese cambiato gli equilibri politici e militari.

Un’organizzazione politica e sociale all’insegna dell’innovazione

Per governare con efficacia questa enorme varietà di popoli (Indiani e Traci, Etiopi e Cissi, Assiri e Moschi), spesso pronti alla ribellione, Dario diede avvio a una profonda riorganizzazione amministrativa dell’impero. Pur mantenendo una forte centralità (il Re dei Re, così si chiamava il sovrano, era il centro dell’impero) e un rigido controllo, suddivise il territorio in venti satrapìe, province guidate da governatori locali fedeli al re, ma spesso affiancati da funzionari che ne tenevano sotto controllo l’operato e che per questo venivano chiamati occhi e orecchie del re. I governatori, o sàtrapi, non erano scelti solo tra la cerchia di familiari e amici del re, ma anche tra i membri delle aristocrazie dei popoli sottomessi. In questo modo si combinava l’esigenza di cooptazione con la scelta di una politica di tolleranza: mentre si chiedeva ai popoli sottomessi di pagare tributi e fornire soldati per l’esercito imperiale, si consentiva loro di conservare le tradizioni culturali e religiose, nella speranza di contenere pericolose ribellioni.

Le riforme di Dario rafforzarono l’impero, basato su un ingente apparato burocratico, lento ma efficiente, di cui era parte una vera e propria rete spionistica e su un efficace sistema di strade in terra battuta e di canali navigabili, utile per lo sviluppo dei commerci tra Mediterraneo, Mesopotamia e Oriente, per gli spostamenti dei soldati e per gli scambi di informazioni tra il palazzo reale e le regioni più lontane (un messaggero attraversava l’impero in meno di due settimane). Pur mantenendo rigida la stratificazione sociale, Dario diede impulso a una straordinaria riforma fiscale e tributaria, che si avvantaggiò anche dell’adozione delle prime monete di metallo e dell’incremento degli scambi commerciali.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana