Capitolo 2 - Il Neolitico e il passaggio all’agricoltura

Capitolo 2 IL NEOLITICO E IL PASSAGGIO ALL’AGRICOLTURA

i concetti chiave
  • L’ultima glaciazione limita l’abbassamento delle temperature e migliora le condizioni ambientali di sopravvivenza
  • L’osservazione del ciclo della natura e i primi esperimenti di coltivazione avviano il percorso verso l’agricoltura
  • Cereali e legumi entrano nell’alimentazione, modificando la dieta e diversificando i nutrienti necessari alla sopravvivenza
  • L’allevamento degli animali e la creazione dei primi villaggi portano alla sedentarizzazione delle comunità umane
  • La formazione delle prime comunità conduce alla divisione del lavoro

1. La domesticazione di piante e animali e la diffusione dell’agricoltura

Le condizioni ambientali avverse e il bisogno di cibo costringevano i primi esseri umani a cambiare spesso i luoghi di insediamento; ciò tuttavia non modificava le loro abitudini di vita, che infatti si mantennero pressoché immutate per centinaia di migliaia di anni. I gruppi di Homo sapiens continuavano a procurarsi il cibo come i loro antichissimi predecessori. Le principali fonti di sostentamento erano la caccia degli animali selvatici, la raccolta di vegetali (frutti, erbe e radici) e la pesca nei fiumi e nei laghi. L’unica sostanziale differenza consisteva nell’evoluzione degli strumenti usati per la caccia, sempre più efficaci e funzionali. Questa forma di sussistenza viene definita economia di raccolta, poiché prevede il reperimento del cibo attraverso lo sfruttamento delle risorse già presenti nell’ambiente, senza alcun intervento umano volto a modificarne i cicli naturali di riproduzione.
Un mutamento fondamentale, che pose i presupposti per il superamento dell’economia di raccolta, si verificò intorno al 12 000 a.C., in corrispondenza della fine dell’ultima glaciazione. Da quel momento non vi furono più fenomeni di drastico abbassamento delle temperature e il clima subì un notevole riscaldamento, diventando più umido. Intorno al 10 000 a.C., nella zona del Vicino Oriente che verrà chiamata mezzaluna fertile (il nome deriva dall’aspetto ad arco dell’area), questo cambiamento climatico creò le condizioni ideali per la diffusione di alcune specie di piante e di animali adatte alla domesticazione, cioè all’intervento diretto degli esseri umani sui loro cicli di riproduzione e di crescita. In quest’area si iniziò allora a coltivare il farro, l’orzo, il “piccolo farro” o grano, i piselli, le lenticchie, i ceci, la cicerchia. Sebbene cereali e legumi fornissero un apporto energetico inferiore a quello della carne, potevano però essere conservati a lungo: ciò rappresentava un primo grande vantaggio per i gruppi umani, che cominciarono a immagazzinarli per poterli poi utilizzare nei periodi di scarsità o carestia. Altro vantaggio è che si potevano coltivare facilmente con rese piuttosto elevate.

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Le donne scoprono il ciclo naturale delle piante: la rivoluzione agricola

Con buona probabilità la domesticazione delle piante fu suggerita dall’osservazione del loro ciclo naturale. Dalle piante di cereali cresciute in modo spontaneo si raccoglievano generalmente le spighe più dritte e leggere, con meno chicchi; le spighe più cariche, invece, rimanevano ripiegate verso il basso a causa del loro peso e spesso non venivano raccolte. Furono probabilmente le donne, che svolgevano in prevalenza l’attività di raccolta, ad accorgersi per prime che i semi caduti a terra dopo poco tempo germogliavano e davano vita a nuove piante più forti.
L’osservazione e la comprensione dei fenomeni naturali furono la premessa al passaggio successivo. Dopo la raccolta, si cominciò a selezionare i chicchi più grandi, da seminare per ottenere cereali più nutrienti. In questo modo si influì sul processo di selezione naturale, favorendo la diffusione di piante sempre più rigogliose.
Per la prima volta, intorno al 9000 a.C., gli esseri umani riuscirono dunque a riprodurre artificialmente il ciclo naturale delle piante: nacque l’agricoltura. Questo fu il primo caso di passaggio dal prelievo diretto di cibo disponibile in natura alla produzione di risorse alimentari per mezzo dell’intervento umano sull’ambiente: per la sua straordinaria portata innovativa e per le conseguenze che ebbe nella storia dell’umanità, questa trasformazione è stata definita rivoluzione agricola.
Il successo delle attività di coltivazione dei cereali e dei legumi spinse la popolazione che abitava la mezzaluna fertile a estendere gradualmente lo stesso procedimento ai semi di altre piante e non solo a scopo alimentare: ci si accorse, per esempio, che dal lino, il cui seme contiene il 40% di olio, si potevano ricavare grassi vegetali o fibre tessili, come pure dalla pianta del cotone. In seguito fu un rapido crescendo: verso il 4000 a.C. le coltivazioni si estesero a uva, fichi, datteri, olive, melograni, riso, tutti prodotti ad alto contenuto energetico. Man mano che i terreni venivano messi a coltura, si diffuse la pratica del debbio (o addebbiatura), che prevedeva l’uso di incendiare i residui delle coltivazioni rimasti sul terreno e fertilizzare così i campi prima della successiva semina. Si tratta di una tecnica antichissima e ancora in uso in alcune aree del pianeta.

La domesticazione degli animali

Nella mezzaluna fertile, nello stesso periodo in cui si diffondevano le colture, fu introdotto anche l’allevamento. La fine dell’ultima glaciazione, con il conseguente riscaldamento del clima, e l’attività di caccia dell’uomo, che aveva ridotto notevolmente il numero di animali di grandi dimensioni, favorirono la sopravvivenza delle specie più piccole e docili, come le pecore e le capre selvatiche. Questi animali erano facili da catturare e, quando non venivano uccisi subito per il consumo della carne, potevano essere rinchiusi in recinti e allevati per produrre lana e latte. Attraverso l’allevamento dei cuccioli, inoltre, si potevano ottenere nuovi esemplari già abituati alla vicinanza con l’uomo.
È possibile che la domesticazione di ovini e caprini selvatici sia stata suggerita dall’osservazione del comportamento del cane, già a quel tempo in grado di convivere con l’uomo pacificamente. I primi resti fossili che testimoniano la presenza di cani domestici presso gruppi umani risalgono infatti al 10 000 a.C. e sono stati ritrovati nel Vicino Oriente, in Cina e in America settentrionale. A differenza della domesticazione delle altre specie, quella del cane non era però finalizzata al consumo della sua carne: il cane era un aiuto durante la caccia e un animale da difesa, che poteva avvisare gli uomini dell’approssimarsi di individui sconosciuti o di animali pericolosi.
Le tecniche di allevamento si diffusero gradualmente nelle regioni circostanti, favorendo la domesticazione di asini, maiali, bovini, galline, dromedari, cammelli e cavalli; altri animali sarebbero stati domati e sfruttati, ma non addomesticati (elefanti, api); altri solo cacciati (selvaggina di piccola e grande taglia, come lepri e cinghiali); soltanto il gatto godrà di uno status speciale: presso gli Egizi, per esempio, sarà considerato addirittura un animale sacro.

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La diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento

Per alcuni millenni, nonostante i progressi e le innovazioni, nel Vicino Oriente gli esseri umani continuarono a sostentarsi ancora con la raccolta e la caccia: ottenere grandi quantità di cibo dall’agricoltura e dall’allevamento richiedeva tempi molto lunghi, mentre prelevando direttamente le risorse presenti in natura si potevano ottenere subito vegetali e carne. Le battute di caccia, tuttavia, costringevano gli uomini a lunghi spostamenti e li esponevano al rischio di incontrare predatori pericolosi. Inoltre, non avevano sempre esito favorevole, anche perché, come abbiamo visto, i cambiamenti climatici e l’espansione delle attività di caccia avevano già ridotto la presenza di animali selvatici di grande taglia.
Per questi motivi, l’agricoltura e l’allevamento diventarono a poco a poco le attività produttive dominanti e si svilupparono ulteriormente grazie alla loro integrazione; intorno al VI millennio a.C., per esempio, nell’area della mezzaluna fertile si diffuse la pratica di impiegare lo sterco degli animali allevati come concime per i campi, che in questo modo divennero più fertili. Ulteriori vantaggi derivarono dalla diffusione dell’allevamento dei bovini: oltre a fornire carni, latte e pelli, a partire dal V millennio a.C. i buoi furono utilizzati come animali da tiro per trainare un nuovo strumento agricolo, l’aratro.
I primi agricoltori usavano zappe di legno con la punta di pietra per rompere la superficie compatta dei terreni. Questa operazione permetteva di far risalire le sostanze minerali presenti nel sottosuolo, fondamentali per la crescita delle piante, e di far penetrare i semi nel terreno, rendendo ottimale la resa della semina; se fossero rimasti in superficie, infatti, i semi non avrebbero trovato le condizioni ideali per germogliare, senza considerare che uccelli o altri animali avrebbero potuto mangiarli, o che sarebbero stati dispersi dal vento.
L’azione di depositare i semi in profondità, praticata dapprima con la zappatura, divenne più efficace con l’introduzione dell’aratro. Questo strumento, inizialmente molto rudimentale, era composto da un bastone alla cui estremità era fissata una punta di pietra, che svolgeva le funzioni della zappa con maggiore efficacia e minore fatica per l’agricoltore, in quanto l’uso dell’aratro non richiedeva di sollevare e abbassare il bastone, come avveniva per la zappa, ma solo di trascinarlo, in senso orizzontale, sul terreno. In principio era trascinato a mano dagli uomini; in seguito, come accennato, fu introdotto il traino degli animali da tiro, che rese più facile e veloce il dissodamento dei terreni. L’importanza di questo strumento per la produttività dei campi è testimoniata dal fatto che, nelle zone in cui non si diffuse, l’agricoltura restò molto più arretrata rispetto a quella del Vicino Oriente. Insieme alla concimazione, infatti, questa innovazione tecnologica contribuì ad aumentare la resa dei campi, favorendo l’incremento della produzione agricola.

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2. L’inizio della sedentarietà

Per alcune migliaia di anni i gruppi di Homo sapiens continuarono a condurre una vita nomade, spostandosi periodicamente alla ricerca di nuove risorse alimentari. In seguito alla rivoluzione agricola e grazie alla domesticazione di piante e animali, questa situazione mutò per la prima volta, perché i gruppi insediati nella mezzaluna fertile non dovettero più cambiare territorio per trovare nuove fonti di sostentamento. A partire dall’VIII millennio a.C. essi diventarono dunque sedentari. Il passaggio in realtà fu graduale: inizialmente conducevano una vita seminomade, fermandosi in un luogo soltanto finché il terreno era in grado di fornire cereali sufficienti; poi, quando la popolazione aumentava e non poteva più essere mantenuta dalle risorse della terra, impoverita perché eccessivamente sfruttata, si spostavano per stabilirsi in nuove aree.
Probabilmente prima del passaggio dalla raccolta alla produzione gli uomini erano già almeno in parte stanziali (quantomeno le donne): un campo di grano in via di maturazione era un forte incentivo a fermarsi per proteggerlo e poi a organizzarsi per difenderlo dagli appetiti dei cacciatori “puri”, che invece dovevano confrontarsi con la dura realtà della selvaggina in diminuzione. Tale situazione “fluida” dev’essere durata a lungo, come testimoniano gli esempi di popoli che tornarono alla caccia dopo aver sperimentato l’agricoltura.

I primi villaggi neolitici

Con il nuovo stile di vita sedentario nacquero i primi villaggi, in principio simili agli accampamenti temporanei. Le abitazioni erano infatti costituite da capanne di legno, fango e paglia; solo in seguito furono realizzate case più solide con i materiali peculiari delle diverse aree di insediamento (pietre oppure mattoni di argilla essiccati al sole). In alcuni villaggi le abitazioni erano addossate le une alle altre: non esistevano vie di accesso e per entrare si passava, tramite apposite scale, dai tetti, che erano piatti e dotati di aperture per raccogliere l’acqua piovana (il caso più noto è quello di Çatal Hüyük nell’attuale Turchia, risalente al 7500 a.C.).
Probabilmente i primi villaggi si formarono grazie alla presenza di nuclei legati da vincoli di parentela e dunque dalla collaborazione e da forme di solidarietà contro rischi e difficoltà. Campi, prodotti e animali erano affidati al lavoro, alla fatica, alla cura e alla responsabilità di tutti (anche dei bambini) come proprietà comune e il raccolto veniva suddiviso dagli anziani con equità.
La ricchezza derivante dalle attività agricole attirò l’attenzione delle popolazioni nomadi che vivevano ancora di caccia e pastorizia e si spostavano al seguito degli animali selvatici o delle greggi. Coloro che erano diventati definitivamente stanziali si trovarono spesso a difendere ciò che avevano costruito: un suolo dissodato e coltivato, cereali e legumi che crescevano, alberi da frutto curati attraevano sicuramente animali selvatici e tribù nomadi; ciò poneva spesso in conflitto produttori da un lato e cacciatori-raccoglitori dall’altro. Per difendersi da queste incursioni, già a partire dal V millennio a.C. i villaggi neolitici si dotarono quindi di mura difensive. Gli insediamenti furono inoltre provvisti di cisterne per raccogliere l’acqua piovana. Infine, vennero individuati luoghi da adibire al culto delle divinità protettrici del villaggio. Si trattava di tempietti in cui venivano portati i prodotti dei campi: un’offerta per assicurarsi, attraverso la protezione divina, la prosperità del villaggio.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana