Capitolo 6 - Ai margini degli imperi

Capitolo 6 AI MARGINI DEGLI IMPERI

i concetti chiave
  • La Palestina, una terra favorevole ai commerci
  • La Bibbia come fonte mitica della storia, della cultura e dell’identità del popolo ebraico
  • Gli scontri con i popoli vicini: la schiavitù e la fuga dall’Egitto, la sottomissione agli Assiro-Babilonesi
  • Gerusalemme conquistata da Nabucodonosor; inizia la diaspora degli Ebrei
  • Le coste e il legname favoriscono le attività marinaresca e commerciale dei Fenici
  • Il Mediterraneo come area di espansione economica e culturale
  • L’assenza di uno Stato centralizzato è compensata dalla rete commerciale costituita da empori e colonie
  • L’importanza culturale dei Fenici: innovazioni nella marineria e nei commerci e la diffusione dell’alfabeto fonetico

L’AMBIENTE E LE RISORSE

La terra di Canaan, crocevia di popoli e scambi

Durante l’età del ferro, il commercio rappresentò un’importante fonte di ricchezza non solo per i grandi imperi, ma anche per alcune popolazioni a loro sottomesse, soprattutto nelle aree geografiche in cui le condizioni ambientali erano sfavorevoli allo sviluppo dell’agricoltura. Per esempio nella zona che viene chiamata terra di Canaan – poi definita Palestina –, un territorio montuoso e collinare di circa 20 000 km2 stretto tra il mar Mediterraneo e il deserto, la popolazione si dedicò prevalentemente ai commerci, oltre che alla pastorizia.
La Palestina era infatti diventata il crocevia di numerosi traffici. Lunghe carovane attraversavano da nord a sud e viceversa la regione trasportando i prodotti provenienti dall’Egitto, dalla Mesopotamia e dall’Anatolia: dalle armi in bronzo ai carri, ai tessuti, agli animali, favorendo anche lo scambio culturale tra popoli diversi.
Nella fascia a ridosso della costa nacquero, già a partire dal VI millennio a.C., piccole comunità agricole. In particolare ebbe un notevole sviluppo la città di Gerico, che nel 2300 a.C. divenne un fiorente centro urbano, nel cuore di un’oasi molto fertile.

1. La storia di un popolo narrata da un libro sacro

Nella parte meridionale della terra di Canaan, che coincide in parte con l’attuale Stato di Israele, in parte con la Siria, fin dal II millennio a.C. si erano insediati gli Ebrei. Di origine semitica, il popolo ebraico nacque dalla fusione di diverse tribù nomadi provenienti dalla penisola arabica. Queste tribù, dedite principalmente alla pastorizia, attorno al 2000 a.C. si spostavano tra la Mesopotamia, la Siria e l’Egitto; spesso erano in lotta tra loro, ma condividevano culti religiosi e tradizioni comuni.

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Tra storia e mito: le prime comunità ebraiche

Per ricostruire la storia più remota del popolo ebraico gli storici hanno a disposizione come fonte principale l’Antico Testamento, una raccolta di testi differenti (per contenuti e per datazione) che costituisce la prima parte della Bibbia, il testo sacro degli Ebrei. Una simile fonte presenta, dal punto di vista storico, evidenti limiti: la data di redazione dei singoli testi (ancora incerta e controversa, e oscillante tra VII-VI e II secolo a.C.) è decisamente posteriore rispetto agli avvenimenti narrati; inoltre, il carattere religioso dell’opera compromette spesso la validità storica dei contenuti. Soltanto il ritrovamento di ulteriori documenti (e, soprattutto, la possibilità di decifrarli grazie alle scoperte di Champollion e di altri) ha permesso con il tempo di verificarne l’attendibilità, attraverso un confronto fra tali testimonianze e i contenuti biblici. Il risultato di questa comparazione ha consentito di conferire il valore di fonte storica ad alcuni passi della Bibbia, confermando gli avvenimenti in essi narrati, ma al contempo ha evidenziato altrove la sua scarsa affidabilità, facendo emergere date errate o ridimensionando la rilevanza storica di alcuni eventi che erano stati esageratamente enfatizzati per il loro valore religioso. Indipendentemente dalla sua storicità, tuttavia, la Bibbia costituisce un punto di riferimento fondamentale per la cultura e l’identità ebraica, perché ha saputo mantenere saldamente unito un popolo senza una precisa collocazione territoriale e disperso per secoli nel mondo.
Secondo la Bibbia, il capostipite degli Ebrei, Abramo, proveniva dalla città mesopotamica di Ur e si era spostato in Palestina tra il 2000 e il 1900 a.C. per volere di Jahvè (che in ebraico significa “Io sono colui che sono”), il Dio unico della religione ebraica. In cambio della fedeltà al suo culto e della rinuncia a venerare altre divinità, Dio avrebbe dato protezione alla discendenza di Abramo e avrebbe assegnato a Giacobbe (il figlio di suo figlio Isacco) Israele, la “terra promessa”, situata lungo il corso del fiume Giordano. Dai dodici figli di Giacobbe, narra la Bibbia, derivarono le dodici tribù di Israele, organizzate come comunità guidate da un capofamiglia, che aveva autorità giuridico-religiosa, in cui il potere si trasferiva dal padre al figlio (età patriarcale).

Gli Ebrei diventano popolo

Il processo di unificazione delle tribù nomadi di origine semitica fu una conseguenza della necessità di difendersi meglio dai nemici comuni, dapprima i Moabiti, che imposero loro ingenti tributi, e successivamente i Madianiti, predoni guerrieri del deserto che con rapide incursioni razziavano gli scarsi raccolti. Tra gli altri nemici, la Bibbia cita i Filistei, che gli storici associano ai Peleset, uno dei popoli del mare combattuti anche dai faraoni egizi. Proprio dal nome di questo popolo sarebbe derivato il termine Palestina.
In seguito a una carestia abbattutasi sulla terra di Canaan, nel periodo probabilmente corrispondente alla penetrazione degli Hyksos nel basso Egitto (verso il 1700 a.C.), le tribù ebraiche si diressero a sud, proprio verso l’Egitto. L’impiego da parte degli Hyksos dei carri da guerra confermerebbe l’ipotesi di questo spostamento. Il loro uso, infatti, si era probabilmente diffuso tramite i contatti commerciali che gli Ebrei intrattenevano con gli Ittiti.
All’inizio i rapporti con gli Egizi furono pacifici: ai pastori ebrei venivano dati in concessione pascoli in cambio di prestazioni d’opera. Nel corso del tempo però le prestazioni richieste divennero sempre più gravose e obbligatorie – come per esempio il lavoro agricolo di manutenzione dei campi dopo le inondazioni del Nilo – fino a trasformarsi in una condizione che potremmo definire di servitù. Intorno al 1250 a.C., sotto il regno di Ramses II, le persecuzioni e la condizione servile si aggravarono ulteriormente, spingendo gli Ebrei alla fuga, che ebbe luogo poco dopo approfittando del periodo di crisi e decadenza che colpì l’Egitto nel 1200 a.C. Dal momento in cui gli Ebrei abbandonarono l’Egitto il racconto biblico (Libro dell’Esodo) narra le vicende di Mosè, colui che guidò il popolo ebraico attraverso il deserto del Sinai, in un vagabondaggio durato quasi quarant’anni, per fare ritorno nella terra di Canaan.
Sulla vetta del monte Sinai, infine, secondo l’Antico Testamento Mosè avrebbe ricevuto da Dio le Tavole della Legge, che raccoglievano prescrizioni e norme giuridiche estese a tutti gli aspetti della vita degli Ebrei. L’episodio potrebbe fare riferimento alla prassi di redigere leggi scritte che, a partire dal Codice di Hammurabi, si era diffusa negli Stati del Vicino Oriente per meglio definire i compiti dell’amministrazione della giustizia.

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2. Il regno di Israele

L’unificazione delle diverse tribù semitiche si concluse con la loro sedentarizzazione, lo sviluppo di piccoli nuclei urbani e la nascita, verso la fine dell’XI secolo a.C., del primo regno ebraico, sotto la guida del re Saul (1020-1000 a.C. ca.), che sconfisse i Filistei. La vittoria tuttavia fu di breve durata, perché il suo successore, il genero David (1000- 960 a.C.), fu di nuovo impegnato a combatterli, oltre a dover fronteggiare una nuova divisione interna. Egli riuscì però a creare il regno di Israele, con capitale la città di Gerusalemme. Sul modello dei grandi imperi dell’area, anche Israele in questo periodo si reggeva sul potere centrale detenuto dal sovrano e sulle conquiste militari frutto di una politica espansionistica, sebbene la minaccia dei Filistei restasse sempre sullo sfondo.

Le invasioni degli imperi stranieri

Al re David succedette sul trono il figlio Salomone (960-922 a.C. ca.), che contribuì allo sviluppo del regno promuovendo un’intensa espansione commerciale nel Mediterraneo e in Mesopotamia. A lui si deve l’edificazione del tempio di Gerusalemme, luogo sacro dedicato all’unico Dio di Israele, il maggiore punto di riferimento dei fedeli ebraici. Dopo la sua morte, però, le tribù che vivevano nella parte settentrionale del regno rivendicarono la propria autonomia e lo Stato ebraico si divise in due parti: il regno di Israele a nord, con capitale Samaria, più ricco e con una vivace attività culturale, e il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, a sud.
Gli Assiri conquistarono il regno di Israele nel 722 a.C. e ne deportarono la popolazione. Il regno di Giuda riuscì invece a mantenersi autonomo e unito grazie all’autorità dei suoi sovrani Ezechia e Giosia, rafforzata dall’accentramento del potere e dal sostegno che la religione monoteistica assicurava alla loro figura. Anche per il popolo ebraico, infatti, il sovrano era espressione del volere divino, e la fede in un unico dio contribuiva a neutralizzare le tendenze autonomistiche delle diverse tribù: non è un caso che in questo periodo acquisirono definitiva importanza il tempio e il culto monoteista.
Sotto la guida del re Giosia (640-609 a.C. ca.) gli Ebrei riconquistarono buona parte dei territori del regno di Israele, tornati liberi in seguito alla caduta dell’impero assiro, ma nel 586 a.C. la conquista di Gerusalemme da parte dei Neobabilonesi guidati dal re Nabucodonosor pose fine alla loro indipendenza. Con la deportazione a Babilonia di parte della popolazione e la distruzione del tempio iniziò la diàspora, ossia la migrazione forzata degli Ebrei lontano dalla patria, detta anche cattività babilonese. Nonostante questo, comunque, gli Ebrei conservarono la propria identità culturale, soprattutto grazie alla fede religiosa.
Nel 539 a.C., con la caduta del regno neobabilonese per mano del re persiano Ciro il Grande, gli Ebrei poterono fare ritorno in patria.

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L’esilio e la costruzione del “popolo eletto”

L’esilio babilonese durò relativamente poco e le condizioni di vita non furono terribili, ma fu un evento cruciale per la storia degli Ebrei. Senza più Stato, capitale, tempio, identità politica, sembravano destinati alla scomparsa, ma la classe dirigente d’Israele, non numerosa, relativamente colta, agiata, nell’esilio rinserrò le fila e reagì in modo originale adottando una soluzione non pessimistica e basata sulla speranza. Facendo leva sull’elaborazione ideologica dei profeti, intellettuali votati alla conservazione della memoria collettiva, profondamente nostalgici di un passato mitico, convinti costruttori di un’identità comune, si ricorse a una spiegazione teologica del disastro: la sconfitta altro non era che una punizione di Jahvè, il quale usava i nemici per raggiungere lo scopo di riportare il “suo” popolo alla corretta obbedienza. Il tracollo era l’occasione per la catarsi: la legge serviva per consolidare l’identità collettiva e la religione imponeva una pratica di comportamento organizzato, che ognuno doveva nel proprio intimo condividere. Questa scelta portò a due conseguenze importanti per la storia ebraica.
La prima conseguenza fu il crearsi di un’identità politico-religiosa del popolo ebraico, prima assente, incentrata sul culto di un solo dio, esclusivo e signore del mondo; si instaurarono cioè le basi del monoteismo. Fu una vera innovazione nella storia: al dominio politico e militare delle potenze territoriali si rispose con una professione di fede, che rendeva “diverso” tutto un popolo. Per consolidare questo passaggio furono individuate alcune pratiche del culto che rimarcassero la distinzione tra gli Ebrei e “gli altri”: il sabato (Šabbāt), la circoncisione, i precetti di purificazione, le prescrizioni alimentari. Si diede poi impulso alle sinagoghe come luoghi di incontro e di preghiera.
La seconda conseguenza fu un capovolgimento della visione storica del popolo ebraico: se Jahvè era il solo signore, il monarca legittimo, allora la storia degli Ebrei andava rivista e riletta sulla scorta del piano divino, magari non subito comprensibile, che guidava, anche mediante castighi e punizioni, il popolo di Israele verso il compimento del suo destino. Proprio a partire dall’idea dell’esistenza di questo piano stabilito dalla divinità si è diffusa la nozione di “popolo eletto”, riferita agli Ebrei, derivante dalla concezione ebraica secondo cui Dio avrebbe stipulato un patto con il popolo di Israele in virtù del quale lo avrebbe scelto come proprio popolo e condotto nella Terra promessa, dopo averlo riscattato dalla schiavitù. L’idea di elezione emerge da numerosi passi dell’Antico Testamento, nel quale non poco diffusa è l’idea della terra di Israele e del popolo degli Ebrei come “proprietà” di Dio, da lui investiti della missione di venerare la sua Parola. Lo stesso concetto di “Israele” assumeva nuovo significato, religioso e non più politico-territoriale. Proprio con lo scopo di rileggere il passato si diede avvio alla raccolta delle tradizioni orali e delle pochissime scritte, che vennero codificate nella Bibbia, testo cui si ispireranno le altre due religioni rivelate, la cristiana e la musulmana.
Quando, dopo l’intervento dei Persiani, gli Ebrei poterono far ritorno in patria (anche se comunità consistenti si fermarono in Egitto e a Babilonia), trovarono una situazione profondamente cambiata: gli spazi vuoti erano stati occupati da nuove popolazioni, spesso tribù cammelliere di origine semitica. Nei loro confronti, pur di comuni origini, il popolo di Israele accentuò quelle distinzioni che lo avevano “salvato” nell’esilio: purezza e integrità della lingua, particolarità di costumi, originalità della religione. Respinse come contaminazione per esempio i matrimoni con persone non ebree. La rappresentazione della diversità del popolo di Israele prese corpo anche con la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (molto diverso, anche nelle funzioni, dal primo) e nella centralità del sacerdozio come punto di riferimento dell’unità nazionale. Era nato il giudaismo, o ebraismo.

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• SOTTO LA LENTE • RELIGIONE

Il monoteismo

Tentativi di introdurre il monoteismo sono individuabili in diversi momenti storici: con il re babilonese Hammurabi che introduce il culto del dio Marduk; con il faraone Amenhotep IV, che muta il proprio nome in Akhenaton, nel XIV secolo a.C., la cui riforma religiosa è centrata sull’idea del dio unico, il sole (Aton), generatore di vita; con Dario I di Persia, che impone il culto del dio Ahura Mazda. Talvolta il dio unico è venerato in regni monarchici e autoritari con l’obiettivo di unificare un popolo.
Senza dubbio la storia del popolo ebraico rappresenta un unicum storico per le particolarità che lo contraddistinguono. Gran parte degli studiosi ha abbandonato l’idea che fin dall’origine gli Ebrei siano stati monoteisti, perché, anche a proposito dello Jahvè delle origini, si dovrebbe parlare di monolatria (l’adorazione di un solo dio che non esclude però gli altri). È condivisa l’opinione che il monoteismo non nasca dal politeismo, ma in sua contrapposizione. Nella storia del popolo ebraico è comunque evidente un “salto” sotto il profilo teologico coincidente con l’esilio prima assiro e poi babilonese: con l’esilio infatti comincia a prevalere uno Jahvè esclusivo, che compare dapprima a Giuda, come “dio degli eserciti”, quasi a sottolineare un rapporto, costante nell’antichità, tra divinità e guerra, evento tragico e distruttivo. La sconfitta non è più vista come il risultato della lotta tra divinità di peso differente e contrapposte, ma come manifestazione della volontà di dio che intende punire i peccati dei suoi fedeli. Si tratta di un’innovazione importantissima che giunge sino a noi.
Ricondurre la spiegazione della guerra e della sconfitta al rapporto tra “unico dio” e popolo porta non solo al disinteresse per gli altri dèi, ma alla contrapposizione tra l’unico dio “vero” e tutti gli altri dèi “falsi”. Da qui nasce il radicalizzarsi di lotte religiose, la persecuzione di chi non è allineato, persino il “razzismo” e la “guerra santa” (peraltro già adombrata in Giosuè). Dall’altro lato però si favorisce l’emergere di una sfera individuale di responsabilità e il legame tra “premio finale” e comportamento etico, che saranno due dei lasciti più innovativi e importanti dell’antico Israele.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana