Storia e cultura dell’alimentazione

IL GUSTO INTELLIGENTE: CULTURA, CONOSCENZA, RESPONSABILITÀ

C’è un motto latino diventato luogo comune che recita: De gustibus non est disputandum, “Sui gusti non c’è da discutere”. Insomma, ognuno avrebbe i suoi propri gusti, come qualcosa di privato e personale, su cui non si potrebbe dire nulla di condivisibile e di sensato. Eppure, tutti parlano moltissimo dei propri gusti e delle proprie preferenze, anche in ambito gastronomico. Perché questo avviene? Come stanno davvero le cose?

Gusto e sapere

Con la parola “gusto” non individuiamo soltanto un piacere individuale, ma qualcosa di più. Quando riconosciamo un cibo, quando ne apprezziamo le qualità sensoriali, non stiamo solo esprimendo una preferenza personale, ma in qualche modo ne riconosciamo anche le qualità sulla base di qualcosa che abbiamo imparato: il gusto è anche un linguaggio, un sapere. Se ci rifacciamo ancora una volta alle origini della lingua, troviamo altri due interessanti segnali che stimolano la riflessione: il verbo sapere viene dal latino sapio, che significa sia “sapere” che “avere sapore”, “essere sapido”. E il sostantivo cultura viene dalla parola latina cultura che deriva dal verbo colere, “coltivare”. Come si vede, la relazione tra il gusto e il sapere, tra il cibo e la cultura sembra stringente e determinato fin dall’origine. Il gusto è sapore ma anche sapere; anche coltivare la terra, saper produrre il cibo che ci nutre è cultura. Ma allora il gusto come piacere personale, che pure mantiene una sua dimensione ineliminabile, si intreccia sempre con il gusto come sapere collettivo, sociale e culturale. Come ha giustamente osservato il filosofo italiano Giorgio Agamben, il gusto è «piacere che conosce e sapere che gode».

Il motivo per cui troppo spesso si sono relegati il gusto e la gastronomia a elementi marginali e secondari della vita risiede dunque nel non riconoscimento di questi elementi, che rimandano al pregiudizio secondo cui il tatto, il gusto e l’olfatto sarebbero sensi “inferiori” alla vista e all’udito. Questi sarebbero infatti sensi più intellettuali e oggettivi, quelli invece più fisici, corporali e dunque soggettivi. Tuttavia se, come abbiamo già visto, possiamo educare il gusto e acquisire cultura per il palato, questa gerarchia dei sensi non ha più ragione di esistere. Il gusto è sapere che si costruisce, evolve e si modifica nel corso della nostra vita, e dipende dalle esperienze, dalle occasioni di incontro e dall’attenzione che ciascuno di noi porta a questa azione apparentemente banale di mettere il cibo in bocca e introiettarlo nel nostro corpo. Sempre a proposito di etimologie, si ricordi anche che la parola convivio, che indica il mangiare insieme, in uno spazio comune, viene dal latino cum-vivere: “convivere”, “vivere insieme”. Mangiare insieme è la base del gusto come sapere, ma è anche una delle basi su cui si costituisce la società umana.

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Esperti di gusto

Possiamo facilmente mostrare la complessità culturale del gusto rivendicandone la sua principale caratteristica: la conoscenza per via di esperienza diretta, quella che si indica in inglese con la parola expertise, l’“essere esperto”. L’esperto è appunto colui che sa riconoscere e motivare le qualità di un cibo e, in linea di principio, le sa separare dalle proprie preferenze personali. L’expertise dunque ci fa compiere un primo passo importante nel capire che il gusto è culturale, determinato secondo coordinate spaziali e temporali, ma rimanda alla nostra radice – anche biologica – di animali sociali. Attraverso il gusto, possiamo conoscere meglio la nostra cultura ma anche aprirci all’esplorazione delle altre. In un racconto dedicato al senso del gusto, e originariamente intitolato proprio Sapore Sapere. Sotto il sole giaguaro, lo scrittore Italo Calvino sottolineò l’importanza dell’esperienza del gusto paragonandola a un viaggio che non può essere sostituito da alcun altro tipo di esperienza:

Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un “fuori” diverso dal nostro abituale implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona.

Con questo racconto Calvino intende sottolineare da un lato come attraverso il gusto del cibo sia possibile conoscere paesi, luoghi, tradizioni e culture; dall’altro, denuncia il fatto che le società contemporanee occidentali, industriali e postindustriali, rischiano sempre più di perdere la capacità di fare esperienza diretta in questo modo. I sistemi di produzione industriale si sono gradualmente sostituiti alla necessità di procurarsi, di allevare e coltivare il proprio cibo, ma ciò ha ridotto anche le capacità di riconoscere e discernere che cibi effettivamente mangiamo. Per questo, esercitarsi al gusto è considerato poco importante, così che esso viene spesso trascurato nell’educazione e nella formazione, in famiglia e a scuola. Riattivare le grandi potenzialità sensoriali del gusto si rivela invece uno strumento molto efficace e potente, perché con esso possiamo acquisire capacità di scelta e di pensiero critico su quanto ci circonda.

Il cibo accompagna costantemente la vita di tutti e riguarda fattori economici, sociali e storici di primaria importanza che oggi, nel nostro mondo globalizzato, devono essere trattati secondo una visione complessa e olistica. Il gusto è dunque sapere e cultura perché, come ci ricorda sempre Calvino, gustare significa far passare dalle labbra e dall’esofago non solo le diverse pratiche della cucina ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina e persino i modi di produzione dei cereali, l’allevamento degli animali e dei vegetali, tutto l’universo edibile. Il gusto coltivato diventa un gusto consapevole, attento alle ragioni culturali, etiche e anche politiche che stanno dietro alle nostre scelte alimentari. Come ha sostenuto il poeta e intellettuale contadino americano Wendell Berry:

Il piacere di mangiare dovrebbe essere un piacere a largo raggio, non solo quello del gourmet […]. Ho parlato prima di politica, estetica ed etica del cibo. Ma parlare del piacere di mangiare significa andare oltre tali categorie: mangiare con il massimo piacere – un piacere, s’intende, che non nasce dall’ignoranza – è forse l’esempio più profondo del nostro legame con il mondo.


Secondo Berry, il piacere del cibo non può limitarsi all’istante del consumo. Il piacere, quando nasce dalla conoscenza, inizia prima dell’atto di consumo e prosegue dopo, connettendosi a una serie di elementi etici, estetici, sociali, politici. Il piacere «a largo raggio» di cui parla Berry si guadagna esercitando il gusto a percepire non soltanto i sapori come tali, ma ciò che sta dietro a essi; l’esperto non è colui che dà i voti, ma colui che comprende ciò che mangia riuscendo a collegarlo alla sua fonte, cioè al tipo di produzione che ha reso possibile quel gusto. Questo significa, per coloro che riescono a raggiungere elevati livelli di expertise, riconoscere sia le tipicità e le tradizioni sia gli inganni, le contraffazioni, i cibi che non fanno bene né alla propria salute né al benessere della Terra. Come ha sostenuto anche Carlo Petrini, fondatore del movimento Slow Food, la qualità di un cibo è qualcosa che deve essere intesa soltanto in senso complessivo, olistico: la qualità è l’intreccio di tre elementi, il buono, il pulito e il giusto. Il primo rimanda alla sfera sensoriale, il secondo alla sfera della sostenibilità ambientale, il terzo alla sfera della sostenibilità sociale e della giustizia.

Il gusto non è un senso isolato. è una percezione complessa e multisensoriale, che mette in gioco tutti i sensi ma anche tutti gli elementi cognitivi e culturali di cui disponiamo. Ecco perché tra sensorialità ed etica vi è uno stretto legame. Il gusto può così diventare uno strumento importante per riconoscere la qualità anche in termini di sostenibilità ambientale e salute, orientando in modo coerente e conseguente le nostre scelte alimentari. Se già l’antropologo Claude Lévi-Strauss aveva individuato nella relazione tra “buono da mangiare” e “buono da pensare” la chiave di volta per la comprensione dei modelli di gusto – in molte società è “buono” da mangiare ciò che risulta essere “buono” da pensare – ancora Wendell Berry ha sostenuto che «mangiare è un atto agricolo», nel senso che attraverso ciò che decidiamo di mangiare possiamo anche orientare i modi in cui vogliamo che il nostro cibo venga prodotto. Indifferenza gustativa e incuria per quel che introduciamo nel nostro corpo sono le più grandi alleate di una produzione alimentare basata non sulla qualità e sul benessere degli esseri umani e non umani del pianeta, ma esclusivamente sul profitto.

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Coltivare il gusto

Il gusto non è dunque né “soggettivo” nel senso di un piacere soltanto privato, né “oggettivo” nel senso di qualcosa di naturale e stabile, costante nel tempo e che può essere analizzato unicamente dallo studio teorico e scientifico: il gusto è percezione attiva, pratica, esercizio. Esso chiama sempre in causa ragioni sociali e storiche che mutano, così come emozioni, memorie, affetti e passioni. Per questo, e per essere compreso fino in fondo, il gusto va dunque coltivato costantemente come dialogo e come esperienza intersoggettiva e comunitaria. Possiamo modificarlo e affinarlo, rendendolo più adeguato alle esigenze e alle urgenze della nostra civiltà per il benessere nostro e delle generazioni future: oggi non possiamo più identificare il gusto soltanto con il “buon gusto” della nostra tradizione e della nostra cultura, come ancora voleva Brillat-Savarin, uomo del XIX secolo, ma con quelli di tutte le culture del mondo, perché il gusto è anche uno strumento importante di apertura e ospitalità. In fin dei conti, se guardiamo ancora una volta alla lingua, chi cucina è in latino l’hostes: l’oste, colui che ospita. La vocazione diplomatica del gusto sta nella sua stessa origine.

Alla fine di questo lungo percorso la gastronomia, attraverso il gusto, è divenuta così parte della cultura e della conoscenza in senso pieno: un sapere vasto e articolato che chiama sempre a un principio di responsabilità, di relazione e di cura verso ciò che ci circonda.

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