2 - La struttura e i temi

Giacomo Leopardi – L'opera: Canti

2 La struttura e i temi

Le canzoni giovanili (1818-1822)

Il primo gruppo di testi del libro comprende le canzoni All’Italia, Sopra il monumento di Dante (entrambe del 1818) e Ad Angelo Mai (1820) e corrisponde al periodo del cosiddetto “pessimismo storico”.
Si tratta delle “canzoni civili”, componimenti legati tra loro dalla comune tematica patriottica. Attraverso un vibrante richiamo al mito dell’antichità, il poeta si propone di scuotere gli italiani dal torpore mostrando la propria indignazione per la decadenza morale e civile dell’Italia, colpevole di aver tradito il proprio passato eroico. È questo il suo personale contributo alle istanze risorgimentali, anche se l’approccio al problema dell’unificazione del paese resta su un piano soprattutto retorico, non essendo il frutto, cioè, di un’approfondita analisi politica.
Nella canzone All’Italia la nazione divisa e ostaggio dello straniero viene raffigurata come una «formosissima [bellissima] donna», prostrata dalle ferite e dalle catene, avvilita dall’abbattimento morale dei suoi abitanti, che hanno sostituito la viltà alla virtù, la paura al coraggio.
Più interessante è la canzone Ad Angelo Mai, dedicata al cardinale e filologo (prefetto della Biblioteca Vaticana) il quale nel 1819 aveva scoperto alcuni libri di un’opera di Cicerone (il De re publica) che prima si credeva perduta: accanto all’argomento politico, qui più sfumato, si colgono già le espressioni poetiche dell’universo psicologico e ideologico di Leopardi.
L’autore rievoca alcuni grandi italiani del passato, ai quali lega aspetti fondamentali della propria poetica: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, ma anche Cristoforo Colombo. Tramite la figura di Petrarca, l’autore introduce i motivi della noia e della vacuità esistenziale, mentre con il personaggio di Colombo si affaccia il tema delle illusioni, poiché le sue scoperte non hanno reso l’uomo più felice, avendolo privato del gusto dell’ignoto con il suo alone di suggestiva indefinitezza. È a Tasso, però, che Leopardi si rivolge con maggiore affetto, esplicitando un legame intimo con l’autore della Gerusalemme liberata, considerato vero e proprio alter ego per aver provato anch’egli l’«inganno estremo», vale a dire la delusione amorosa.

Nei testi successivi (composti tra il 1821 e il 1822), l’iniziale immagine positiva della natura lascia il posto a una più sofferta meditazione sul «vero»: Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, e soprattutto le cosiddette “canzoni filosofiche” (Bruto minore, Alla Primavera, Inno ai Patriarchi, Ultimo canto di Saffo).
In questi componimenti Leopardi (in particolare nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo, note come le “canzoni del suicidio”) si sofferma a riflettere sull’infelicità dell’uomo moderno, individuandone la ragione prima in una motivazione storica, cioè nella caduta di quei valori, propri di una classicità leggendaria, che rendevano la vita degna di essere vissuta.
Allo stesso tempo però il poeta acquista consapevolezza che il dolore costituisce una condizione esistenziale che domina ineluttabilmente l’esistenza umana. Agli antichi valori smarriti, sul piano della Storia collettiva, con l’avanzare della conoscenza e del progresso, corrisponde, sul piano della vita individuale, la caduta delle illusioni nel passaggio dalla giovinezza all’età matura: in Bruto (il cesaricida che suicidandosi afferma la propria libertà) è distrutto il mito della virtù e della patria, in Saffo (la poetessa greca che ama non ricambiata) quello dell’amore.

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I “piccoli idilli” (1819-1821)

Contemporaneamente alle canzoni, Leopardi compone i cosiddetti “piccoli idilli”, che nella struttura dei Canti vengono però posposti come gruppo a sé, a sottolinearne la diversità sia dei temi, più intimi e autobiografici, sia dello stile, più sobrio e colloquiale. Al carattere civile e filosofico delle canzoni subentrano una più profonda confessione personale e una più accentuata disposizione all’analisi dei moti interiori dell’anima.

Il termine “idillio” ► proviene da un vocabolo del greco antico (eidyllion) che significa letteralmente “piccola immagine”, “quadretto”; tradizionalmente indicava una poesia di argomento per lo più agreste o pastorale. Leopardi rielabora questo genere classico in modo del tutto personale: egli offre infatti la rappresentazione di un aspetto del mondo esterno (un fatto, un oggetto, un elemento della natura, una persona) che viene cantato non per ciò che è oggettivamente ma per il significato e per le risonanze che assume nell’animo del poeta mentre lo osserva. La natura e il paesaggio diventano così proiezione della condizione interiore del soggetto lirico, che trae da essi l’occasione per fissare sulla carta le proprie sensazioni.

I “piccoli idilli” sono cinque: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria. Leopardi non fa più riferimento alla Storia o ai miti della tradizione classica, ma privilegia lo scorrere libero della propria immaginazione, mediante la quale esplora lo spazio dell’interiorità, sperimentando un linguaggio lirico nuovo, basato sulla musicalità del verso e sulla poetica del vago e dell’indefinito► p. 29). Abbandonando la solennità delle canzoni, egli intende sviluppare una sorta di “mitologia personale”, che non attinge a reminiscenze culturali e letterarie, ma si alimenta grazie al ricordo, al vagheggiamento dell’amore, all’ amarezza del disincanto, alle sensazioni che spaziano oltre il limite del conoscibile.

I “grandi idilli” (1828-1830)

Tra i “piccoli idilli” e i “grandi idilli” c’è una parentesi quinquennale (che va dal 1823 al 1827 e che corrisponde al soggiorno a Bologna, Milano e Firenze), fatta di studi e approfondimenti filosofici: è infatti il periodo in cui Leopardi scrive gran parte delle Operette morali. In questi anni il poeta compone soltanto due liriche: la canzone Alla sua donna (1823), incentrata sul tramonto della speranza amorosa, e l’epistola in versi Al conte Carlo Pepoli (1826), in cui dichiara di rinunciare alle illusioni, con il proposito di dedicarsi allo studio del «vero».

Il ritorno alla poesia avviene nel 1828 e dà origine ai sette “grandi idilli”, detti anche “canti pisano-recanatesi”: Il risorgimento (la lirica che Leopardi definì «la mia personale risurrezione alla poesia»), A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e Il passero solitario, che nell’edizione napoletana del 1835 verrà premesso dall’autore ai “piccoli idilli”.

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Tornano ora l’impostazione strutturale e le modalità espressive dei “piccoli idilli”: tuttavia il poeta appare meno coinvolto dalla realtà immediata, dalla quale si distacca attraverso la riflessione filosofica, che lo conduce definitivamente al materialismo e all’elaborazione del “pessimismo cosmico”. La dolcezza dei ricordi, delle fantasie e dei sogni giovanili è ora fortemente temperata dall’amaro distacco determinato dalla ragione, che sfata miti e illusioni: il dolore e l’infelicità sono condizioni inevitabili della vita umana. Scompaiono i toni tragici, le ribellioni, gli accenti di rivolta, lo sdegno, i fremiti, mentre emerge uno stato d’animo che medita con ferma lucidità sul tradimento della natura, «matrigna» indifferente alla sorte dei suoi figli. Persino la disperazione appare lucida e serena.

In queste poesie affiorano soprattutto il triste ricordo delle cose passate, la rievocazione della giovinezza ormai tramontata, la desolata nostalgia di una felicità perduta, la caduta di sogni e sentimenti dispersi dall’«arido vero». L’avventura dell’immaginazione, sfrenata nei piccoli idilli giovanili, è ora sostituita dall’oggettività di una voce matura, che abbandona i sogni dell’adolescenza per esprimere una verità universale.
La meditazione filosofica scaturisce però spesso dall’esperienza personale, dall’evocazione iniziale di un luogo reale o di una situazione familiare: il passero che canta sulla torre della chiesa di Sant’Agostino a Recanati, la giovinetta che tesse e canta, le stelle che scintillano, il sabato sera, un temporale, la vista della luna come sospesa nel cielo, solo per fare alcuni esempi. Il poeta, tornato per l’ultima volta a Recanati, osserva la realtà dell’ambiente dove, da bambino e da ragazzo, era stato felice in quanto inconsapevole delle dure leggi della vita, mentre ora può comparare le illusioni di un tempo con l’esperienza sopravvenuta negli anni. Il «natio borgo selvaggio» è il microcosmo in cui il poeta ha potuto inaugurare la propria riflessione sul male che non conosce eccezioni: con il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, l’ultimo dei canti pisano-recanatesi in ordine di composizione, i confini si dilatano per mostrare il patimento dell’uomo che formula alla luna domande sul senso dell’esistenza, destinate però a rimanere senza risposta.

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L’ultima fase della poesia leopardiana (1831-1837)

Dopo aver lasciato definitivamente Recanati (1830), Leopardi compone le liriche del cosiddetto “ciclo di Aspasia”. Si tratta di cinque testi, scritti tra il 1831 e il 1834 – Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia – nei quali il poeta esprime l’amaro disinganno amoroso seguito al tramonto definitivo della passione per la nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti. L’amore viene definito «l’inganno estremo» (A se stesso,  ► T21, p. 138, v. 2), l’ultima illusione a cui egli ha creduto.

In questi testi è possibile scorgere un nuovo tono della poesia leopardiana, più combattivo, polemico e raziocinante, il quale è alla base di un atteggiamento “eroico” che porta il poeta ad accettare il destino rifiutando ogni passione consolatoria: dinanzi all’illusorio fantasma dell’amore, egli afferma con potente energia il disprezzo per le false speranze della vita, essendo pronto ormai a sostenere l’infelicità con fredda consapevolezza.
In passato alcuni critici, da Francesco De Sanctis a Benedetto Croce, avevano svalutato quest’ultimo Leopardi, accusandolo di essere più filosofo che poeta. In realtà – come ha poi mostrato lo studioso Walter Binni – si tratta di una sorta di poesia-pensiero che trova la propria originalità appunto nel procedere argomentativo. Sono meno presenti le immagini poetiche degli idilli mentre appare più scarno il ragionamento, che si sviluppa in una poesia meno musicale, caratterizzata dalla sintassi spezzata e da toni più aspri.

Al soggiorno napoletano appartengono infine le “canzoni sepolcrali” (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una donna), incentrate sul tema della morte, e le ultime poesie scritte tra il 1835 e il 1837: Palinodia ► al marchese Gino Capponi, Il tramonto della luna, La ginestra o il fiore del deserto. In quest’ultima fase Leopardi, analizzando la natura e la società, pronuncia un combattivo messaggio di solidarietà tra gli uomini contro la natura matrigna: l’individuo è chiamato ad accettare la propria reale condizione e la tragica realtà dell’esistenza, senza sottomettersi passivamente al destino, ma contrapponendosi a esso, pur essendo consapevole dell’inutilità di tale ribellione.
In particolare La ginestra► T22, p. 141), scritta l’anno prima della morte, può essere considerata un vero e proprio testamento poetico, messaggio individuale e insieme universale: attraverso lo strumento della ragione, il poeta punta a smascherare, con le armi dell’ ironia e del sarcasmo, le finzioni religiose, le illusioni spiritualistiche e le ipocrisie sociali. L’umile ginestra diventa così il simbolo della dignità dell’uomo, offeso dalla natura, ma non rassegnato al suo potere.

3 Lo stile: le scelte metriche e lessicali

La poesia di Leopardi, pur ponendosi nel solco della tradizione letteraria italiana, presenta diversi motivi di novità sul piano stilistico, linguistico e metrico, al punto che egli può essere considerato in Italia il primo grande poeta “moderno”, non solo per quanto concerne i contenuti filosofici della sua produzione, ma anche per quanto riguarda le scelte stilistiche. L’imitazione dei modelli – che era il caposaldo del classicismo – resiste in Leopardi come intima adesione a un mondo spirituale, più che come omaggio esteriore alle “belle forme”. Per questo egli – in ciò davvero romantico – si sente in diritto di rielaborare, talora fino a scardinarle, le strutture tradizionali, giungendo così alla conquista di uno spazio espressivo autonomo e originale, che prelude alle esperienze poetiche della contemporaneità.

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Partiamo dal piano più semplice ed evidente, quello metrico. Dopo le canzoni giovanili di stampo petrarchesco e un componimento, Il primo amore (datato 1817, è il più antico dei Canti), scritto in terzine dantesche, con i “piccoli idilli” il poeta opta per gli endecasillabi sciolti, cioè privi di rime e dunque capaci di adattarsi a una poesia più libera dal punto di vista strutturale, e più personale rispetto a quella delle canzoni.
Egli ottiene, contemporaneamente, una grande spontaneità di immagini, una notevole chiarezza d’espressione e una suggestiva musicalità dei versi.

La svolta successiva si ha con i “grandi idilli”: alle doppie quartine di settenari del Risorgimento e agli endecasillabi sciolti delle Ricordanze Leopardi aggiunge, per le altre liriche, la forma della “canzone libera” o “canzone leopardiana”. Rispetto alle rigide forme fissate dai manuali di metrica, in essa si assiste a un’alternanza di endecasillabi e settenari che non risponde a criteri stabiliti in partenza, ma piuttosto alle esigenze dello stato d’animo del poeta, che così può assecondare ed esprimere un proprio ritmo interiore. Anche le rime si dispongono liberamente, essendo intervallate da versi non rimati e variamente distribuite tra gli endecasillabi e i settenari.

L’altro aspetto di rilevante novità stilistica riguarda il linguaggio. Si tratta, in questo caso, di una novità forse non immediatamente percepibile, però significativa. La lingua della lirica leopardiana è infatti, per lo più, quella della tradizione. Spesso, anzi, è una lingua preziosa, ricca di latinismi, grecismi, petrarchismi, dantismi e di termini usati dai poeti tra Cinque e Settecento (da Tasso a Monti).
Tuttavia Leopardi amplia il lessico dei suoi testi inserendo termini non conformi alla lingua comune della poesia del suo tempo. Ciò accade soprattutto negli idilli, dove l’autore tende a raffigurare la realtà semplice e quotidiana di Recanati, ma anche nei canti napoletani, in cui apre a vocaboli umili e concreti, nonché a quelli della realtà contemporanea. Nella Quiete dopo la tempesta troviamo «la gallina […] che ripete il suo verso» (vv. 2-4), l’«artigiano» (v. 11), l’«erbaiuol» (v. 16); nel Sabato del villaggio, il «mazzolin di rose e di viole» (v. 4), lo «zappatore» (v. 29), «la sega / del legnaiuol, che veglia / nella chiusa bottega alla lucerna» (vv. 33-35); nella Palinodia al marchese Gino Capponi, a descrivere la scena di un moderno caffè, il «fumo / de’ sigari» (vv. 13-14), il «romorio / de’ crepitanti pasticcini» (vv. 14-15), le «gazzette» (v. 20), cioè i giornali dell’epoca. Sono soltanto pochi esempi, che però rivelano efficacemente la distanza di queste scelte lessicali da quelle compiute da Foscolo o dal Manzoni poeta.

Al cuore della letteratura - Giacomo Leopardi
Al cuore della letteratura - Giacomo Leopardi