Al cuore della letteratura - Giacomo Leopardi

L'autore – Giacomo Leopardi

 T7 

Dialogo della Natura e di un Islandese

Operette morali, 12


Composta nel maggio 1824, l’operetta sviluppa un serrato confronto tra la natura, sotto forma di una statua colossale, e un islandese, che chiede ragione dei mali cui non riesce a sfuggire e che, nel suo viaggiare, ha visto colpire tutte le parti dell’universo. Leopardi sceglie un anonimo personaggio proveniente da una terra inospitale dove la potenza e la crudeltà della natura appaiono più chiaramente attraverso i fenomeni vulcanici che la caratterizzano. È una terra esotica e lontana, poco nota ai suoi tempi, e questo accentua l’atmosfera fantastica dell’incontro.

Un Islandese, che era corso1 per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime
terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica,2 e passando sotto la linea
equinoziale3 in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso
simile a quello che intervenne a Vasco di Gama4 nel passare il Capo di Buona speranza;
5 quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro,
sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque.5 Vide da lontano
un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza
degli ermi colossali6 veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma
fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col
10 busto ritto, appoggiato il dosso7 e il gomito a una montagna; e non finta8 ma viva; di
volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo
fissamente; e stata così un buono spazio9 senza parlare, all’ultimo gli disse.
NATURA Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?10
ISLANDESE Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto
15 il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
NATURA Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da
se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE La Natura?
NATURA Non altri.11
20 ISLANDESE Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura
di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti;12 dove
non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti
moveva a fuggirmi?13
25 ISLANDESE Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze,14 fui
persuaso e chiaro15 della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali
combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non
dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente

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infinite sollecitudini,16 e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto,17
30 tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste
considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a
chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo18
con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla;
e disperato dei piaceri,19 come di cosa negata alla nostra specie, non mi
35 proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo
dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali; che
ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso.
E già nel primo mettere in opera questa risoluzione,20 conobbi per prova come
egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno,
40 fuggire21 che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e
contentandosi del menomo22 in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia
luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato.23 Ma dalla molestia
degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi
in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza
45 difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine24 di piacere, io
non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno,25
l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state,26 che sono qualità di quel
luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva
passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col
50 fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo
disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di
mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla,27 il sospetto degl’incendi,
frequentissimi negli alberghi,28 come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano29
55 mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme
a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di
ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento,30 e molto più
gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro
è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli
60 uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in
me stesso,31 a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa
alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e
tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della
terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a
65 questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque,32 che forse

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tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come
tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e
certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere
senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi,
70 quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini33 che fossero
prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato,
e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di
non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare
la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso34
75 dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria,
infestato dalle commozioni degli elementi35 in ogni dove. Più luoghi ho veduto,
nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun
giorno un assalto e una battaglia formata36 a quegli abitanti, non rei37 verso te di
nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla
80 frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento
sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti
e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito
crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza
delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune
85 volte mi è bisognato fuggire a tutta lena38 dai fiumi, che m’inseguivano, come
fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate
da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti
avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano
consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti
90 all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico39 non trova contro
al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere.
Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono
ancora, non dico temperante, ma continente40 dei piaceri del corpo. Io soglio
prendere non piccola ammirazione41 considerando come tu ci abbi infuso tanta
95 e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita,
come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra
parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la
più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in
quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita.
100 Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto,
io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali
alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche
membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e
tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille
105 stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle
infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole
(come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario);42 tu

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non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante
e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per
110 qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per
accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi43 nella loro patria. Dal sole
e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire,
siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza,44 e
con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo
115 non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene
esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno
solo della vita senza qualche pena; laddove45 io non posso numerare quelli
che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è
destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver
120 quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo
a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di
tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci
percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e
per instituto,46 sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir
125 così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza:
avendo compreso che gli uomini finiscono47 di perseguitare chiunque li fugge o
si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione,
non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo
amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e
130 di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per
legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza,
e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là,48 con un tristissimo
declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita
degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto
135 il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
NATURA Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa
vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle
operazioni mie,49 trattone50 pochissime, sempre ebbi ed
ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini
140 o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque
modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo,51 se
non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto
o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete
voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per
145 dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse
di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

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ISLANDESE Ponghiamo caso52 che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa,
con grande instanza,53 e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato
per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo
150 di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non
che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna
comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a
sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare,54 schernire, minacciare e
battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi
155 mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o
mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene
ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese;55 a questo
replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio,
così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto
160 che io ci dimori, non ti si appartiene56 egli di fare in modo, che io, quanto è in
tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora.
So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei
che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando:
t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso
165 violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa,
e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo,57 tu stessa, colle
tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo,58 se non tenermi
lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato
e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?59 E questo che dico di me, dicolo di
170 tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
NATURA Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo
circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna
serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale
sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.
175 Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è
distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto
medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con
180 morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due
leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia,60 che appena ebbero forza di mangiarsi
quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per
quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo61
185 vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un
superbissimo mausoleo62 di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente,
e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel
museo di non so quale città di Europa.

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      Dentro il testo

I contenuti tematici

Seguendo il principio di varietà che domina in tutta la raccolta, il protagonista di questa operetta non è un personaggio mitico né favoloso, né storico né reale, bensì un uomo sconosciuto, identificato solo dal paese di provenienza da cui è scappato per sfuggire all’azione della natura. Lo spunto venne a Leopardi probabilmente da un’opera di Voltaire, la Storia di Jenni, nella quale un ateo, per dimostrare l’inesistenza di Dio, descrive i mali che affliggono l’umanità, portando a esempio il gelo che attanaglia la remota Islanda. L’interlocutore, però, opponeva a questo punto di vista le ragioni del deismo, ovvero di una concezione razionale della divinità come ente ordinatore dell’universo; Leopardi invece propone una concezione della vita radicalmente materialistica, nella quale la natura, indifferente al bene del singolo, appare come la causa prima della sua sventura.

Dopo un lungo vagabondare, l’Islandese incontra infatti proprio la personificazione della natura, sotto la forma statuaria di una donna gigantesca che gli rivolge alcune domande per conoscere le ragioni della sua fuga affannosa. Ne scaturisce un dialogo surreale, in cui l’autore esprime il nucleo fondamentale della propria filosofia, riassumibile nel concetto che l’uomo non è stato creato per essere collocato al centro del mondo. A nulla servono i suoi tentativi non già di cercare un’impossibile felicità, ma almeno di vivere una vita oscura e tranquilla (rr. 33-34) isolandosi e allontanandosi dalla società: lo stato di natura, in cui trascorrere un’esistenza libera e serena, si rivela come un’utopia o una menzogna; il viaggio o la fuga non possono soddisfare il desiderio di conoscere una realtà diversa da quella che si manifesta, puntualmente, a tutti gli uomini in tutte le regioni del mondo. Si può sfuggire forse ai mali causati dagli altri uomini, ma non a quelli provocati dalla natura, che tormenta l’uomo e lo strazia in mille modi, pur non volendolo, ma semplicemente garantendo il ciclo generale della produzione e della distruzione o attraverso le sue normali manifestazioni, connesse con gli eventi meteorologici e l’avvicendarsi delle stagioni.
L’argomentazione della Natura è spietata e gelida nella sua raziocinante impassibilità: la sua indifferenza rispetto alla sorte dei suoi figli non ammette deroghe (sei carnefice della tua propria famiglia, r. 124, le dice l’Islandese) e il suo unico scopo è quello di osservare l’incessante succedersi di nascita e morte, necessario per la sopravvivenza dell’universo: se anche tutta la specie umana si estinguesse, lei neppure se ne accorgerebbe (se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei, rr. 145-146). Della natura benigna vagheggiata nella prima fase del pensiero leopardiano, insomma, non c’è più traccia.

Possiamo immaginare che con la stessa testardaggine con cui ha percorso terre lontane e diverse, incontrando temporali (r. 77), terremoti (r. 80), Venti e turbini smoderati (r. 81) piogge (r. 84) nell’ingenua speranza di schivare la sofferenza, l’Islandese avrebbe ripreso la sua requisitoria contro l’interlocutrice: la morte improvvisa però glielo impedisce. Sia che sia stato divorato da due leoni, sia che sia stato travolto dal vento e trasformato in una mummia, la sua sorte conferma il ruolo della natura in relazione agli esseri umani: nel primo caso l’Islandese, diventato cibo per altri animali, fa parte del circuito naturale; nel secondo gli è stato concesso di vivere quietamente, ma privato dell’umanità, ridotto a un corpo senza coscienza.

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Le scelte stilistiche

Questa operetta si configura come un dialogo vero e proprio, dove due personaggi si scambiano domande e risposte e confrontano opinioni diverse. L’atteggiamento e il modo di esprimersi dei due interlocutori è però ben diverso: l’Islandese pone domande insistenti e incalzanti, ricevendo risposte secche e distaccate da parte della Natura.
Il primo articola estesamente le proprie argomentazioni con un gran numero di esempi e situazioni vissute, richiamando anche l’opinione dei filosofi: in alcuni passi è possibile ritrovare influenze di scritti di Voltaire, come nella domanda finale, che riprende una voce del Dizionario filosofico. La sua è un’eloquenza appassionata, che nell’elencare i patimenti subiti, ricorre ora al tono recriminatorio del lamento, ora a quello aggressivo e indignato dell’invettiva*. Così si spiega il suo eloquio fatto di frasi ampie e complesse, con l’uso di un lessico spesso ricercato, lontano dall’uso comune e caratterizzato da parole rare (sconsentirlo, r. 166), arcaicizzanti (Ponghiamo, r. 147), latinismi (vietare che… non, r. 168) e termini utilizzati con significati oggi obsoleti (perdonato, r. 92, per “risparmiato”, alberghi, r. 54, per “abitazioni” ecc.).
Ben diverso lo stile argomentativo della Natura, a cui non servono espressioni ricercate e gli strumenti di una retorica raffinata per affermare con lapidaria freddezza le sue verità. Per fare cadere miseramente le illusioni dell’umanità basta una domanda arida, quasi cinica: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? (rr. 136-137).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Dividi il dialogo in sequenze, sottolineandone i passaggi fondamentali.


2 Individua i diversi tipi di dolore che, secondo l’Islandese, prova l’essere vivente; ritrova gli esempi distinguendoli secondo:

  •   A   dolori veri e propri;
  •     disagi sopportabili;
  •     mali dell’età;
  •     conseguenze di eventi metereologici straordinari;
  •     conflitti tra uomini;
  •     conflitti tra esseri viventi.

ANALIZZARE

3 Riporta almeno un esempio, tratto dal testo, di ciascuna delle seguenti figure retoriche.


Figure retoriche
Esempi
similitudine

anafora

accumulazione

parallelismo


4 Quali differenze si possono individuare tra le battute dell’Islandese e quelle della Natura dal punto di vista lessicale e retorico?

INTERPRETARE

5 Perché, a tuo giudizio, il dialogo risulta particolarmente efficace per esprimere il pensiero leopardiano?


6 Spiega e commenta la seguente battuta dell’Islandese: Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? (rr. 176-180)

PRODURRE

7 Qui la natura non è un’entità idilliaca e amica dell’uomo, ma appare «rossa di zanne e di artigli» per usare l’espressione del poeta britannico Alfred Tennyson (1809-1892), cioè violenta e sanguinaria. Una tale concezione della natura è ancora presente nell’attuale società moderna? In riferimento a quali fatti e fenomeni? E noi uomini come ci rapportiamo con essa, come la viviamo? Riferiscine in un testo espositivo-argomentativo di circa 40 righe.


Al cuore della letteratura - Giacomo Leopardi
Al cuore della letteratura - Giacomo Leopardi