2 - Le opere

Il primo Ottocento – L'autore: Ugo Foscolo

2 Le opere

Nel corso della sua carriera Foscolo ha praticato i generi più diversi: poesie, opere teatrali, prose di vario genere, traduzioni. Ognuno di essi, per differenti motivi, ottiene una vasta risonanza in Italia e all’estero, suscitando spesso accese polemiche.

La produzione in prosa

Ultime lettere di Jacopo Ortis

Il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) è il primo grande capolavoro foscoliano. Si tratta di una narrazione di evidente e dichiarata ispirazione autobiografica. Il protagonista è portatore di tutte le idee, le convinzioni, le passioni e le furibonde ansie di ribellione che il giovane autore ha espresso nei primi decenni della sua esistenza irrequieta. «Mi sono fedelmente dipinto con tutte le mie follie nell’Ortis», scrive Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese. E a Melchiorre Cesarotti: «Fra un mese avrai […] una mia fatica di due anni, ch’io chiamo Il libro del mio cuore: posso dire di averlo scritto col mio sangue […]. Da quello conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtù, le mie passioni, i miei vizi, e la mia fisionomia».

Una prima idea del romanzo risale probabilmente al 1796, quando nel suo Piano di studi Foscolo fa riferimento alla stesura di un testo in forma epistolare (Laura, lettere). La prima versione a stampa dell’Ortis è un’edizione pirata, pubblicata nel 1798 a Bologna: prima di una delle sue tante fughe, l’autore aveva infatti consegnato all’editore Marsigli una redazione incompiuta, che quest’ultimo fa portare a termine da un letterato di modesto valore ma rapido nella scrittura, Angelo Sassoli. La versione, censurata in ogni accenno alla religione e alla politica, esce con il titolo Vera storia di due amanti infelici.
Foscolo sconfessa pubblicamente quella edizione e dà alle stampe la prima versione autorizzata del romanzo nel 1802. Personaggi e trama sono in parte mutati, brani interi tratti dalle lettere private a Isabella Roncioni e Antonietta Fagnani Arese vengono inclusi nel testo, ma soprattutto i contenuti politici sono ripristinati, ampliati, approfonditi, come accade di nuovo nelle ultime due edizioni, quella di Zurigo e quella di Londra (rispettivamente 1816 e 1817), fra loro sostanzialmente identiche.

Le fonti di ispirazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis sono essenzialmente due: i romanzi La nuova Eloisa (1761) del francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che influenza soprattutto la scelta dello stile epistolare, e I dolori del giovane Werther (1774) del tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), che incide sulla scelta, come argomento, delle vicende di un giovane che si suicida per amore.
Foscolo opta per la forma epistolare di tipo monodico, cioè per la struttura “a una voce sola”: la storia è narrata attraverso le lettere scritte da un unico personaggio, Jacopo Ortis, all’amico Lorenzo Alderani, senza le risposte di quest’ultimo. Il romanzo si presenta dunque come un monologo pressoché ininterrotto; ciò esprime un’esigenza costante che fa parte del carattere foscoliano: lo strenuo bisogno di confessione. Ma perché allora non scegliere semplicemente una narrazione in prima persona? Perché la finzione epistolare permette allo scrittore di utilizzare una lingua più colloquiale e meno ufficiale – anche se elaborata e retoricamente impostata – dal momento che, come scrive egli stesso, «la radice [dei guai della lingua] è quest’unica; che la lingua italiana non è stata mai parlata: che è lingua scritta e non altro; e perciò letteraria, e non popolare».

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Ormai in pieno clima preromantico, il romanzo narra una vicenda d’amore e di morte. Il nome del protagonista, Jacopo, è un omaggio a Jean-Jacques Rousseau. Il cognome è invece quello di uno studente patriota, che si era ucciso a Padova nel 1796. Come Foscolo stesso, l’eroe del romanzo deve lasciare Venezia dopo il trattato di Campoformio, per sfuggire alle persecuzioni della polizia. Sui colli Euganei, a casa del signor T***, conosce la figlia di lui, Teresa, sensibile e angelica, promessa al ricco Odoardo, uomo egoista, limitato e gelido. Il destino del fuggiasco commuove il padrone di casa e suscita la passione nel cuore di Teresa, la quale però, dopo aver ceduto a un semplice bacio, sceglie di tener fede ai suoi doveri di figlia e di fidanzata. Jacopo inizia allora un vagabondaggio per l’Italia durante il quale incontra Giuseppe Parini, ormai vecchio, a Milano; visita la casa di Petrarca ad Arquà e scrive una lettera polemica contro Napoleone. In una delle ultime epistole, spedita da Ventimiglia, esprime una visione cupamente pessimistica della realtà sociale e politica italiana, manifestando la sua propensione al suicidio.
A Ravenna, dove visita la tomba di Dante, lo raggiunge la notizia del matrimonio dell’amata: lo sgomento, unito alle delusioni politiche, rende definitiva la decisione di Jacopo che, dopo aver visto Teresa un’ultima volta e salutato la madre, si uccide con un pugnale.

Le passioni di Jacopo Ortis possono dirsi propriamente romantiche: esaltazioni generose, slanci sentimentali, fantasia che infrange i limiti del razionalismo illuministico. Il suo focoso individualismo si ribella alla mentalità comune, perbenista e ipocrita. Ugualmente romantici sono l’indomita ricerca dell’autenticità, il ripiegamento interiore, l’attrazione per i lati più oscuri della spiritualità, la tensione autodistruttiva che si esplica infine nel suicidio.
Avverso alla mediocrità del mondo che lo circonda, Jacopo non può essere salvato neanche dall’amore. Figura angelica quanto irraggiungibile, Teresa è la donna idealizzata della tradizione provenzale, stilnovistica, petrarchesca. Solo un’unione legittima con lei potrebbe offrire a Jacopo la pienezza vitale a cui aspira, ma anche Teresa gli sfugge. Decisa a rispettare i suoi obblighi filiali e sociali, si sacrifica accettando i compromessi che la sua condizione e il suo destino di donna le impongono: invece dell’amore vero sceglierà un marito gretto, insensibile, prototipo perfetto del borghese perbenista.

Passioni amorose e politiche si intrecciano dunque per approdare a un identico disincanto. Alla caduta delle illusioni legate all’amore corrisponde il disinganno circa le sorti dell’Italia, ridotta a merce di scambio da Napoleone e più che mai divisa, incapace di sottrarsi alla propria umiliante condizione. Insofferente e ormai avvinto da un pessimismo sconsolato, Jacopo è destinato a soccombere: i conflitti interiori che lo tormentano si addensano, come in una tempesta simbolica, nel desiderio di autoannientamento di cui alla fine rimane vittima.

Riflesso delle ansie e delle intime inquietudini del protagonista, la natura assume due aspetti contraddittori: da un lato è un rifugio per le anime oppresse e una fonte di risorse vitali, dall’altro però può diventare tenebrosa e ostile. Ora selvaggia e sublime, ora serena e idillica, essa pare a volte realizzare il sogno rousseauiano di un equilibrio senza dissonanze tra l’individuo e lo scorrere del tempo, scandito nella cornice stabile e rasserenante del mondo campestre. Ma la riscoperta di una dimensione felice è presto contraddetta dalla realtà, pronta a rivelare la fragilità di questa effimera armonia. La fusione tra uomo e natura è infatti un’illusione, di cui la Storia ha cancellato ogni speranza.

La sconfitta di Jacopo è irrevocabile, in quanto inscritta all’interno di un meccanismo spietato in cui non c’è più spazio per la fiducia illuministica nel progresso. Il suo fallimento personale è lo specchio di una più vasta delusione storica e coincide con il venir meno delle speranze di libertà, illusoriamente alimentate dalla Francia post-rivoluzionaria e sacrificate alle ferree necessità del potere. I termini di questa delusione sono fissati fin dalla prima frase del romanzo: «Il sacrificio della patria nostra è consumato», dove all’idea di patria è subito accostata quella del «sacrificio», che sarà insieme individuale e condiviso con la comunità dei «pochi uomini buoni», cioè dei coraggiosi difensori della giustizia e della libertà.

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L’autore riesce a far parlare il suo protagonista con una immediatezza coinvolgente, che con il suo impeto sembra quasi aggredire il lettore: scrivendo in prima persona e adottando la forma epistolare, la sua voce assume una forza stupefacente e moderna.
Tuttavia la scrittura è di tipo classico: è vero che l’accademismo della prosa italiana, con le sue frasi articolate e latineggianti, viene accuratamente evitato, ma al tempo stesso Jacopo aspira a dominare la materia bruciante dei propri sentimenti, per tradurla in una forma dotata di misura e armonia. La sua prosa è densa di esclamazioni e scarti improvvisi, ma anche di lunghi periodi ipotattici scanditi da un ritmo incalzante. Ne consegue una mescolanza febbrile di registri, ora tragici e solenni, ora lirici ed elegiaci: uno stile composito da cui non sono escluse l’enfasi retorica e una ricerca di toni aulici che sfocia talvolta nell’oratoria.

Notizia intorno a Didimo Chierico

Nel 1813 Foscolo pubblica un’opera dello scrittore inglese Laurence Sterne (1713-1768), il Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia (1768).

La traduzione del testo viene attribuita a un personaggio d’invenzione, un certo Didimo Chierico, che acquista nell’opera una fisionomia autonoma. In un’appendice intitolata appunto Notizia intorno a Didimo Chierico, se ne fornisce un ritratto e si racconta come sarebbe entrato in contatto con l’autore. Foscolo racconta che nel 1805, quando, militare, era di stanza a Calais, Didimo gli avrebbe consegnato le pagine della traduzione: si tratta di un espediente spesso usato in letteratura, quello del “manoscritto inesistente”, adottato tra gli altri da Cervantes e Manzoni, anche se qui non è il testo a essere inventato, ma piuttosto il traduttore stesso.

Nell’opera di Foscolo, Didimo Chierico assume un rilievo speciale: è, sì, una figura di fantasia (il nome Didimo, che in greco significa “gemello”, è quello di un grammatico alessandrino di età augustea, mentre l’appellativo Chierico è quello dei chierici vaganti, gli intellettuali del Medioevo), ma diventa una sorta di autoritratto ideale, del tutto opposto al precedente alter ego costituito da Jacopo Ortis.

Il modello del nuovo ritratto di sé è fornito a Foscolo dalla figura dello stesso Sterne, elegante, distaccata, ironica: un brillante abate settecentesco, raffinato e pungente, saggio e galante, quanto di più lontano dalla febbrile e disperata amarezza di Jacopo. I due personaggi sono uniti, tuttavia, dalla dimensione del disinganno, anche se Ortis, una volta scoperto il vero volto della realtà, ne resta fatalmente condannato, mentre Didimo, avendo capito come va il mondo, ha deciso di sorriderne.
Al termine della Notizia che lo riguarda, Foscolo fa dire a Didimo Chierico che non vorrà «né più leggere né più scrivere». Il suo atteggiamento distaccato (quello che gli antichi chiamavano contemptus mundi, “disprezzo del mondo”) lo induce a rinchiudersi in un freddo scetticismo. Non crede più in niente, nemmeno nei valori della letteratura e della poesia, e intende lasciare di sé unicamente un breve epitaffio.

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Ipercalisse e Ragguaglio

Foscolo si serve nuovamente di Didimo Chierico e gli attribuisce un’altra opera che, composta già quasi per intero nel 1810, viene pubblicata durante il soggiorno in Svizzera, fra il 1815 e il 1816. È l’Hypercalypseos liber singularis (Libro unico dell’Ipercalisse), un testo che riprende la tradizione della satira latina, e proprio in latino è scritto, con intenti apertamente provocatori.
Lo stile si ispira a quello dei profeti biblici – Ipercalisse allude chiaramente ad Apocalisse – e il bersaglio della polemica è l’ambiente asfittico, invidioso e malevolo dei letterati nella Milano napoleonica, che Didimo chiama, con evidente disprezzo, «Babilonia minima». Nell’opera trovano posto i livori e i risentimenti che Foscolo aveva accumulato nei suoi difficili contatti con le cerchie intellettuali contro cui si accanisce anche in un’altra prosa satirica, il Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici (1810). Sono scritti minori, ma svelano un altro aspetto del loro autore, quello umoristico, frivolo e mondano, che fa parte anch’esso di una figura letteraria poliedrica com’è quella di Foscolo.

Lettere e saggi

Un posto importante fra gli scritti in prosa spetta anche alle lettere: quelle private, personali, che compongono il ricchissimo epistolario, e quelle destinate alla pubblicazione, come le Lettere scritte dall’Inghilterra (riunite fra il 1817 e il 1818) o Gazzettino del bel mondo, cronache, impressioni e giudizi sulla letteratura e sul costume, scritti durante il soggiorno inglese e a cui Foscolo ha voluto dare una forma epistolare.
La produzione critica foscoliana comprende fra l’altro saggi e articoli su Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, nonché alcuni interventi storico-teorici come la prolusione, ossia il discorso inaugurale, al corso universitario tenuto a Pavia, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (1809), e l’orazione Sull’origine e i limiti della giustizia (1825).

La produzione in versi

Foscolo si dedica alla stesura e alla raccolta in volume delle Poesie nello stesso periodo in cui lavora alle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nel giugno del 1803 esce l’edizione definitiva, comprendente 14 componimenti, che era stata preceduta da altri due volumi (la stampa pisana del 1802, con 9 testi; la stampa milanese, con 13).
Tale edizione (2 odi e 12 sonetti) non presenta i suoi primi scritti poetici, «per vanità giovenile già divolgati», come scrive nella dedica all’amico Giovan Battista Niccolini (tra questi, una serie di inni e canzonette di ispirazione preromantica, e i componimenti, quale A Bonaparte liberatore, che documentano la sua adesione a ideali democratici e libertari).
Alla produzione creativa vera e propria va inoltre aggiunta quella di traduttore di testi classici, dall’Iliade alla Chioma di Berenice, il poema dell’autore greco Callimaco letto nella versione latina di Catullo: una pratica, questa, a cui Foscolo si dedica quasi ininterrottamente, in un confronto costante e organico con il mondo antico.

Le odi e i sonetti

Il Neoclassicismo foscoliano si esprime inizialmente nelle odi (poi, in maniera più complessa e problematica, nelle Grazie). Le 18 strofe di A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, composte fra il marzo e l’aprile del 1800, sono un invito alle Grazie affinché aiutino la nobildonna a guarire dai postumi della caduta, servendosi dei balsami cari a Venere.
Un’altra guarigione è celebrata nelle 13 strofe di All’amica risanata (1802), scritta per Antonietta Fagnani Arese, in cui si svolge il tema della divinizzazione della bellezza femminile a opera della poesia, in forme più armoniose e compiute rispetto alla prima ode.

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Nei 12 sonetti, i chiaroscuri del carattere e del pensiero di Foscolo si esprimono con decisi accenti romantici. Di forma apparentemente tradizionale, tutti anepigrafi (cioè senza titolo, che verrà aggiunto più tardi da editori ottocenteschi) in modo da suggerire l’idea del flusso continuo di un racconto unitario, questi componimenti ingannano lo sguardo poco attento e superficiale della critica a lui contemporanea, che non ne coglie l’originalità, espressa in particolare dai quattro sonetti “maggiori” (Alla sera; A Zacinto; In morte del fratello Giovanni e Alla Musa), dove emerge con forza la vocazione autobiografica del poeta.
La lezione di Petrarca e di Alfieri si dimostra qui perfettamente assimilata e dà luogo a una forma complessa e cesellata, in cui si riconosce inoltre l’impronta dell’unico autore cinquecentesco degno di essere letto secondo Foscolo: Giovanni Della Casa, maestro nell’uso dell’enjambement. Alla struttura fissa del sonetto petrarchesco, basata sulla simmetria e sulla distribuzione equilibrata dei concetti tra quartine e terzine, Foscolo sostituisce un’architettura più mobile e articolata, con variazioni che possono riguardare anche lo schema delle rime.

Dei Sepolcri

All’opera, data alle stampe nel 1807, dedichiamo la seconda parte dell’Unità ( ► p. 114).

Le Grazie

Progettato intorno al 1808, ma composto soprattutto tra il 1812 e il 1813, il poema dedicato alle Grazie rimane incompiuto. Qualche verso anticipatore si può trovare nel testo della Chioma di Berenice di Catullo, che il poeta traduce nei primissimi anni dell’Ottocento, aggiungendovi un commento e alcuni frammenti spacciati per un’antica fonte ritrovata: quei frammenti ritorneranno, appunto, nel poema, esplicitamente ispirato al gruppo marmoreo di Antonio Canova.

Quello che è stato definito «un poema in movimento» (Ferroni) è il risultato di un accumulo di pensieri, concetti, idee che si ampliano e si approfondiscono: Foscolo intende costruire un’opera allegorica che illustri, per immagini, il cammino compiuto dalla civiltà umana. Dunque ogni episodio e ogni figura avrebbero dovuto contribuire a formare un immenso affresco in grado di congiungere il passato al presente, la poesia antica dei greci e dei latini alla cultura del secolo nuovo, cioè l’Ottocento.
A suggellare questo incontro fra epoche distanti, Foscolo pone l’immagine radiosa delle Grazie, tre divinità femminili che fanno parte del seguito di Venere e che Canova aveva riportato in auge proprio in quel periodo, con il suo magnifico gruppo scultoreo.

Il poema comprende tre inni in endecasillabi sciolti, dedicati ad altrettante divinità «intermedie fra il cielo e la terra»: Venere, Vesta, Pallade, che hanno il compito di svolgere una funzione educatrice, suscitando negli uomini gli «affetti sociali», ossia l’idea di una civiltà evoluta e condivisa.
Nel primo inno, il cui nume tutelare è Venere, dea della bellezza, della natura e dell’amore, si narra la nascita delle Grazie dal mar Ionio. Esse sono benefattrici dei mortali che indirizzano al culto delle arti: salvano gli uomini dalla brutalità degli istinti e infondono nelle loro menti lo spirito dell’Armonia.
Nel secondo inno, dedicato a Vesta, dea del focolare domestico, si celebra un rito in onore delle Grazie. Il poeta invita sul colle fiorentino di Bellosguardo tre sacerdotesse, tre donne che egli ha amato: Eleonora Nencini, Cornelia Rossi Martinetti e Maddalena Bignami. Ognuna di esse incarna simbolicamente i doni che le tre divinità hanno portato agli umani: la musica, la poesia, la danza.
Il terzo inno è il più celebre e racconta di come Pallade, dea della sapienza, per proteggere le Grazie dalle insidie di Amore e dalle offese della guerra, le ricopra con un velo incantato, che raffigura i valori più alti della vita sociale, dall’amore coniugale a quello materno, dalla pietà all’ospitalità.

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La struttura del poema è ricca e complessa: vi si trovano elementi didascalici e autobiografici, sublimati in uno stile elegante e prezioso, animato da molteplici artifici retorici, soprattutto similitudini e analogie. L’opera costituisce inoltre un omaggio al linguaggio simbolico del mito, di cui l’autore si propone di rinnovare la genuinità assegnandogli una funzione educativa. La bellezza acquista infatti nei versi delle Grazie una valenza allegorica sottolineando il principio del primato della poesia, emblema di incivilimento e di innalzamento dell’uomo al livello divino, e al tempo stesso mezzo insostituibile per ricreare sul piano artistico quei valori umani di eleganza e armonia perduti nel presente.

Le tragedie

L’interesse di Foscolo per il teatro tragico, rinverdito nella seconda metà del Settecento dall’opera di Alfieri, è testimoniato da tre tragedie in endecasillabi sciolti scritte in periodi diversi della sua carriera letteraria.
Composto nel 1795 (e rappresentato due anni dopo a Venezia) è il Tieste, che si basa sul mito di Atreo, il re di Argo la cui moglie Erope viene sedotta dal fratello di lui, Tieste, con il quale concepisce un figlio: Atreo si vendicherà uccidendo il bambino e offrendogliene le carni nel corso di un banchetto. Il mito viene ripreso da Foscolo in chiave attualizzante, con riferimento alle condizioni politiche italiane: Atreo rappresenta la spietatezza della tirannia, Tieste il giovane appassionato che anela alla libertà.
Nel 1810 Foscolo inizia a scrivere la tragedia Aiace (che verrà rappresentata alla Scala di Milano l’anno seguente), modellata sull’omonima opera di Sofocle: anche qui il protagonista è un eroe libero e nobile (Aiace), nemico dell’autoritarismo e ribelle a ogni tirannia (incarnata da Agamennone, nel quale i contemporanei videro una raffigurazione di Napoleone).
Terminata e rappresentata a Bologna nel 1813 è, infine, la Ricciarda, storia di un amore sincero impedito da un principe assassino, sullo sfondo di un Medioevo tenebroso e sanguinario.

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento