Il primo Ottocento – L'autore: Alessandro Manzoni

LETTURE critiche

L’umorismo di don Abbondio

di Luigi Pirandello

Il grande scrittore e drammaturgo siciliano (1867-1936) si concentra su don Abbondio, ritenendolo una perfetta incarnazione delle sue idee in materia di umorismo. La figura del pavido sacerdote a suo giudizio suscita nel lettore non un’ilarità sprezzante, ma il «sentimento del contrario», ovvero l’amaro sorriso di comprensione che deriva dal riconoscimento della debolezza umana.

Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell’umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene in fine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l’umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l’altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa, ora un’attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un’arguta riflessione che ne smonta la serietà e induce a ridere.
Così avviene che noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare Don Quijote;1 eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirare con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale così alto e puro.
Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la Terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l’esperienza della vita, che gliel’ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la concezione di quell’idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due fiamme accese di fra Cristoforo e del cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia, allungarsi l’ombra di don Abbondio. E si compiace a un certo punto di porre a fronte, in contrasto, il sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa; la fiaccola accesa del sentimento e l’acqua diaccia2 della riflessione; la predicazione alata, astratta, dell’altruismo, per veder come si smorzi nelle ragioni pedestri e concrete dell’egoismo […].
Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare l’impegno egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla chiesa, e Renzo anch’egli ucciso. A che giovano l’intervento, il suggerimento di fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C’è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?
Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel povero curato; ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d’aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia3 altrui, è reso difficilissimo, e però4 quel coraggio è tutt’altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al posto d’un eroe troviamo don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l’eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco;5 e il coraggio, uno non se lo può dare!
Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz’altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità.
Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo, come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé la riflessione che gli suggerisce che quest’ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e però lo obbliga a limitare quell’ideale, come osserva il De Sanctis. Ma questa limitazione dell’ideale che cos’è? è l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.
Bonarietà? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: lasciamo star codeste considerazioni, che sono in fondo estranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c’è il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi vapora6 in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in fondo, è spietata: la simpatica indulgenza non è così bonaria come sembra a tutta prima.7


Luigi Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano 2001

 >> pag. 344 

Il romanzo dei rapporti di forza

di Italo Calvino

Lo scrittore Italo Calvino (1923-1985) riconosce nel romanzo di Manzoni un congegno di «esattezza geometrica», basato sui rapporti tra poteri laici e spirituali. Ne risulta uno schema triangolare che si presta a numerose considerazioni, sullo sfondo di un mondo in cui imperano i cataclismi naturali e la violenza degli uomini, senza che l’azione della Provvidenza sia in qualche modo riconoscibile. Il che fa di Manzoni un autore assai meno consolatorio di quanto la critica sia solita ritenere.

Attorno a Renzo e Lucia e al loro contrastato matrimonio le forze in gioco si dispongono in una figura triangolare, che ha per vertici tre autorità: il potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero. Due di queste forze sono avverse e una propizia: il potere sociale è sempre avverso, la Chiesa si divide in buona e cattiva Chiesa, e l’una s’adopera a sventare gli ostacoli frapposti dall’altra. Questa figura triangolare si presenta due volte sostanzialmente identica: nella prima parte del romanzo con don Rodrigo, don Abbondio e fra Cristoforo, nella seconda con l’Innominato, la monaca di Monza e il cardinal Federigo.
Estrarre uno schema geometrico da un libro tanto modulato e complesso non è una forzatura: mai romanzo fu calcolato con tanta esattezza come I promessi sposi; ogni effetto poetico e ideologico è regolato da un’orologeria predeterminata ma essenziale, da diagrammi di forze ben equilibrati. Certo la qualità manzoniana del romanzo è data non tanto dallo scheletro quanto dalla polpa, e lo stesso scheletro avrebbe potuto servire a un libro tutto diverso, per esempio a un romanzo nero: gli ingredienti e i personaggi per metter su addirittura un Sade,1 a base di castelli dei supplizi e conventi perversi, ci sarebbero stati, se Manzoni non fosse stato allergico alla rappresentazione del male. Ma appunto per dare a Manzoni l’agio di far entrare nel romanzo tutto quel che gli sta a cuore di dire e di lasciare in ombra tutto quel che preferisce tacere, bisogna che l’ossatura sia assolutamente funzionale; e non esiste racconto più funzionale della fiaba in cui c’è un obiettivo da raggiungere malgrado gli ostacoli frapposti da personaggi oppositori e mediante il soccorso di personaggi aiutanti, e l’eroe o l’eroina non hanno altro da pensare che a fare le cose giuste e ad astenersi dalle cose sbagliate: come appunto il povero Renzo e la povera Lucia. Nei due triangoli, una somiglianza un po’ ripetitiva e generica lega don Rodrigo e l’Innominato, e lo stesso o quasi si può dire per fra Cristoforo e Federigo. Mentre è nel terzo vertice, quello del falso potere spirituale, che avviene uno stacco netto: don Abbondio e Gertrude sono personaggi così diversi e autonomi da comandare al tono generale della narrazione intorno a loro, commedia di caratteri là dove don Abbondio è al centro del quadro, dramma di coscienze là dove domina Gertrude. (Possiamo anche considerare I promessi sposi come un poliromanzo2 in cui vari romanzi si susseguono e s’incrociano, e il romanzo di don Abbondio e quello di Gertrude non sono che i primi e i più compiuti). È chiaro che delle tre forze in gioco del suo triangolo, quella che Manzoni conosce meglio, o diciamo quella che esprime meglio il fondo settecentesco della sua cultura e del suo gusto, è la cattiva Chiesa. La Chiesa buona, malgrado l’ampio posto che nel romanzo occupano Cristoforo e Federigo, resta una presenza funzionale ma esterna.
[…] Quel che veramente sta a cuore a Manzoni non sono tanto dei personaggi quanto delle forze, in atto nella società e nell’esistenza, e i loro condizionamenti e contrasti. I rapporti di forza sono il vero motore della sua narrazione, e il nodo cruciale delle sue preoccupazioni morali e storiche. Nel rappresentare i rapporti di forza, – fra Cristoforo in mezzo al banchetto di don Rodrigo, o la “libera elezione” dei voti monacali di Gertrude, o il vicario di provvigione nella carrozza di Ferrer tra la folla inferocita, – Manzoni ha sempre la mano sicura e leggera, sa trovare il punto giusto al millimetro. Non per niente I promessi sposi è il nostro libro politico più letto, che ha dato forma alla vita politica italiana secondo tutti i partiti, lettura in cui più d’ogni altro può riconoscersi chi, facendo politica, si trova a commisurare giorno per giorno un’idea generale alle condizioni obiettive. Ma anche libro antipolitico per eccellenza che parte dalla convinzione che la politica non può cambiare nulla, né con le leggi che pretendono di mettere un freno al potere di fatto, né con l’affermazione d’una forza collettiva da parte degli esclusi. […]
C’è nei Promessi sposi un romanzo “rivoluzionario” che fa capolino ogni tanto tra le pieghe del romanzo “moderato”: con la famosa “riflessione” sui ruoli d’oppressore e di vittima in mezzo al “serra serra” della “notte degli imbrogli”, o con lo sfogo che Renzo trova alla sua sete di giustizia personale nella sommossa milanese contro il caropane. E se come romanzo “rivoluzionario” questo è solo un romanzo d’occasioni mancate, anche le occasioni del romanzo “moderato”, per quanto più vistose, sono ripetutamente lasciate cadere: la virtù di fra Cristoforo non tocca il cuore di don Rodrigo e la conversione risolutrice, rinviata a più alto livello con Federigo e l’Innominato, non porta la soluzione attesa ma segna solo una nuova tappa. Il romanzo “rivoluzionario” d’una rivoluzione impossibile e il romanzo “moderato” d’una conciliazione menzognera sarebbero altrettanto mistificatori. Manzoni, che appartiene a un mondo segnato dal trauma della Rivoluzione francese e che scrive sentendosi addosso la cappa di piombo della Restaurazione, per dare una soluzione al suo romanzo deve cercarla su un altro piano.
È solo passando dall’orizzonte degli individui a quello universale che può risolversi la vicenda dei due fidanzati di Lecco. E quando ci accorgiamo che la parte della Provvidenza è sostenuta dalla peste comprendiamo che il discorso dell’ideologia politica spicciola è saltato in aria da un pezzo. Le vere forze in gioco del romanzo si rivelano essere cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione3 improvvisa, che sconvolgono il piccolo gioco dei rapporti di potere. Il quadro s’allarga, la connessione tra macrocosmo e microcosmo resta stretta e insieme incerta, come nelle nostre interrogazioni sul futuro biologico e antropologico del mondo d’oggi. […].
Da parte degli uomini, non c’è che guasti: malgoverno, mala economia, guerra, calata dei lanzichenecchi. Libro di storia involto in pagine di romanzo […] I promessi sposi propongono una visione della storia come continuo fronteggiamento di catastrofi.
Se vogliamo riprendere le nostre figure triangolari, – potenti corrotti, Chiesa cattiva, Chiesa buona, – possiamo sovrapporre ad esse un nuovo triangolo che abbia per vertici la Storia umana (malgoverno, guerra, sommosse), la natura abbandonata da Dio (carestia) e la giustizia divina terribile e imperscrutabile (la peste).


Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980

 >> pag. 347 

Manzoni e il mondo moderno

di Vittorio Spinazzola

In queste riflessioni il critico milanese Vittorio Spinazzola (n. 1930) mette a fuoco il progetto ideologico lucidamente perseguito da Manzoni nei Promessi sposi. Alla base del romanzo vi è una battaglia per il ritorno ai valori evangelici, che mette sotto accusa la morale dell’Umanesimo, nella prospettiva di una rinnovata «conciliazione tra cattolicesimo e mondo moderno».

Manzoni propone ai suoi lettori un’opera che dichiara d’esser stata concepita come «libro per tutti»: una rappresentazione umana in cui ciascuno possa riconoscersi, quale che sia la sua condizione sociale e capacità di cultura; un universo narrativo dove campeggiano le grandi preoccupazioni che appassionano da sempre la coscienza individuale e collettiva; un testo infine che fa appello alle risorse intellettuali più comunemente disponibili e s’impronta a uno statuto espressivo cui chiunque possa avere accesso, sia pur fruendone a livelli diversi di penetrazione.
Ma in verità il romanzo di cui il lettore fa esperienza obbedisce a un criterio ordinativo, che ha portato a trascegliere nella complessità del reale solo gli aspetti rapportabili a un progetto motivato con fervida intransigenza ideologica. Nel mondo dei Promessi sposi non può trovare valutazione positiva alcuna vicenda che non si costituisca immediatamente come conferma del credo religioso manzoniano: nessuna dignità autonoma viene concessa a fatti e comportamenti nei quali non traluca, per quanto obliterato,1 il sentimento cristiano della vita. Il realismo della scrittura nasce da una volontà di testimonianza, che lo connota in senso etico e non manca di esporlo al rischio di declinare verso gli effetti edificanti.
Gli interlocutori elettivi del romanzo si configurano perciò non tanto come l’universalità di un pubblico laico quanto come una ecumenicità di lettori che tutti nutrano una disposizione di fede e siano quindi proclivi all’assenso verso la battaglia che il libro agita per una recristianizzazione del mondo cristiano. Ai non credenti, I promessi sposi si rivolgono per associarli nella condanna delle degenerazioni cui la religiosità si espone compromettendosi col mondo, e per tal via renderli partecipi dell’impegno volto a rinnovare l’attualità perenne dello spirito evangelico.
La genialità dell’arte manzoniana consiste anzitutto nella sapienza suprema dei mezzi utilizzati per prevaricare sul lettore laico, coinvolgendolo in una certezza indefettibile: solo pegno di salute per l’umanità contemporanea, preda di tanti erramenti2 e affaticata da tante infauste prove storiche, è una rievangelizzazione della comunità dei credenti. Da essa procederà un apostolato capace di dar corpo a istituzioni di vita collettiva improntate a un cristianesimo integrale e appunto perciò tali da garantire quella libera realizzazione della persona cui tutti gli uomini si sentono chiamati e che è insidiata perennemente dalla corruttela della nostra natura, segnata dal peccato.
Nella fase di ristagno e malessere succeduta alla grande crisi della Rivoluzione francese, l’intellettuale cattolico Alessandro Manzoni ripensa l’intero corso della storia moderna europea; pone sotto accusa l’umanesimo laico, quale ha trovato apogeo nel Rinascimento; ripudia il metodo della sovversione violenta, con cui si è inteso modificare l’ordine sociale, sostituendo nuovi errori agli antichi; indica la vera via del progresso in una conciliazione tra cattolicesimo e mondo moderno, concepita non come allontanamento dall’eredità controriformista ma proprio sulla base dell’assetto che l’organismo ecclesiastico si è dato dopo Trento.
Rimasta ai margini del flusso più tumultuoso degli eventi, durante gli ultimi secoli, l’Italia offre un angolo visuale privilegiato per questa rimeditazione. Manzoni intende offrirla alle nuove forze sociali, cui riconosce funzione di protagoniste delle vicende collettive. Nella penisola, la borghesia è ancora lontana dal consolidamento raggiunto in altri paesi: ebbene, proprio questo ritardo storico la porrà in grado di evitare la ripetizione delle esperienze fallimentari compiute altrove. Il compito consiste nell’individuare una via di riscatto dal passato feudale, che porti a instaurare ordinamenti davvero consoni agli interessi generali, perché fondati su un principio di mediazione sistematica dei conflitti fra i singoli, i ceti, le classi.
I promessi sposi si qualificano dunque anzitutto come libro eminentemente politico, portatore di un messaggio di rinnovamento anzi di palingenesi della cosa pubblica. Ma per esser autenticamente tale, il rinnovamento deve germinare dal profondo dell’io privato. Se la politica configura le modalità di realizzazione del rapporto fra individuo e istituti di civiltà, la necessità di tali istituti affonda nelle pulsioni contrastanti da cui l’individuo è agitato entro se stesso. Ogni interpretazione della storia rinvia a una concezione della natura umana. E nessun dinamismo epocale potrà mai modificare i termini primari attraverso cui l’esistenza si svolge: colpa e pentimento, virtù e peccato. Non l’esperienza politica ma quella religiosa appare allora decisiva per il nostro destino.
D’altronde, per il Manzoni il dibattito religioso non può avere altra sede primaria dalla coscienza singola: lì è il terreno su cui la Grazia imperscrutabilmente interviene, elargendo salvezza. Nessuna prospettiva redentrice riguarda invece i soggetti storici superindividuali, né tanto meno le forme istituzionali in cui si organizzano: la distanza fra Città divina e Città terrena resterà sempre incolmabile. L’apostolato cristiano investe bensì, necessariamente, la sfera dei fatti politici, illuminandola dello spregiudicato buon senso e dell’amor di concretezza che dà la fede. Ma con ciò stesso i princìpi della ragion politica vengono oltrepassati, per riportarli a un criterio di verità che li trascende. Di un’osservazione ulteriore va inoltre tenuto conto. Manzoni riconosce l’importanza prioritaria dei fattori economici, nel comportamento pubblico; e addita l’obbligo di sottoporli alle norme oggettive, perché fondate su una scienza naturaliter intesa,3 del pensiero liberistico, da cui traggono sostanza gli ordinamenti della legalità liberale. Ma economia e diritto vengono depressi al livello d’una corretta prassi amministrativa, sopra la quale subito si proietta il cielo della religiosità rivelata. L’impegno essenziale consiste insomma nel ricondurre per intero la socialità all’ombra della morale cattolica, sola fonte di giustizia disinteressata nel rapporto fra amministratori e amministrati.
In altre parole, il tipico garantismo liberale viene delegato, di là dalle istituzioni statali, all’organismo ecclesiastico: la Chiesa militante si configura come il vero moderno Principe, tanto più forte perché disarmato. A tre secoli di distanza, il pensiero cattolico formula una netta replica alla scoperta machiavelliana dell’autonomia della politica. Lo scrittore lombardo fa propria la lezione del Segretario fiorentino;4 anzi, la supera appellandosi all’indagine scientifica dei dati economici, che costituiscono le motivazioni interne dell’agire politico. Ma proprio da questa verifica ulteriore discende il rinnegamento della rivoluzione machiavelliana, quindi il ritorno della politica sotto l’impero della morale.


Vittorio Spinazzola, Il libro per tutti. Saggio sui “Promessi sposi”, Editori Riuniti, Roma 1983

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La solitudine di Manzoni

di Angelo Marchese

A dispetto del ruolo di Manzoni nella cultura nazionale, la sua opera è stata spesso letta in modo parziale o settario, e quindi privata di fondamentali elementi problematici. Secondo il critico Angelo Marchese (1937-2000), le interpretazioni banalizzanti dei Promessi sposi hanno prodotto autentici fraintendimenti del messaggio dell’autore, condannando il pensiero e il magistero di quest’ultimo a una profonda incomprensione.

Strano destino quello del Manzoni. Onorato dall’Italia ufficiale uscita dal Risorgimento, eletto a rappresentare nella sua opera la desiderata riconciliazione tra fede cristiana e gli ideali moderni della borghesia, quest’uomo schivo, introverso, aristocraticamente geloso della sua privacy, ma non per questo alieno dal dichiarare anche polemicamente le sue idee, finì col ritrovarsi solo a contemplare dall’alto del piedistallo della gloria una cultura e una società ben poco fecondate dal suo messaggio. Eppure i Promessi sposi divennero subito un classico, un modello di “romanzo storico”, per quanto inarrivabile; e la soluzione linguistica manzoniana costituì la norma della scrittura narrativa ottocentesca, sicché le deviazioni – poniamo l’elaborazione stilistica di un Verga o il pastiche sperimentale di certa scapigliatura – furono considerate aberranti dal gusto medio del lettore d’allora.
Il Manzoni cominciava a essere innicchiato in una esemplarità eterea, e dunque non pericolosa, non problematica. La letteratura, dopo l’incontro fra il Romanticismo lombardo, realistico e popolare secondo la linea del “Concialiatore”, e le istanze religiose o idealistiche che, nonostante l’Illuminismo, permeavano buona parte della borghesia, si conformava al tipo di società sbozzolato dagli eredi di Cavour. Anche i grandi ideali dovevano essere ridimensionati e gli intellettuali andavano rimuginando, tutt’al più, il complesso di colpa della rivoluzione mancata e lo rimuovevano, come il Carducci, nella nostalgia di un passato classico-imperiale che poteva magari riproporsi in un nazionalismo velleitario, montante con l’età umbertina.
La cultura, da sempre borghese, aveva ormai il marchio di una classe da sempre preoccupata di mantenere e accrescere il suo potere contro le eccessive pretese degli “umili”, che si stavano organizzando in leghe, gruppi e movimenti sempre meno propensi ad accettare il paternalismo assistenziale dei padroni illuminati. Il candido populismo di un De Amicis1 sarà frustrato dal pugno di ferro di un Crispi2 e dalle cannonate di Bava Beccaris.3
Il positivismo e il laicismo, le misture torbide di anticlericalismo materialista, di scientismo e, più tardi, di marxismo darwiniano, il tutto condito con l’ottimismo delle magnifiche sorti e progressive, già irriso dal Leopardi, costituivano il filtro ideologico del ceto colto che non poteva certo recepire il messaggio coinvolgente del Manzoni, la misura di implacabile demistificazione d’ogni falsa autorità consustanziale allo spirito del romanzo. Meglio allora prendere le distanze da quelle pagine, consacrandole come modello di scrittura e di lingua, di comprensiva bontà e di pungente ironia. Il libro era ormai adatto per la scuola…
Evacuata del suo senso critico, la storia di Renzo e Lucia poteva assurgere ad esempio edificante di “romanzo cattolico”. Eppure, vivo il Manzoni, la Chiesa non fu certo entusiasta di quell’opera che, mentre esibiva una ferma e cristallina fede cristiana, non nascondeva le brutture di una religione piegata a servire i potenti. Gli animi più sensibili e avvertiti, come lo Scalvini,4 avevano pur sottolineato il fervore democratico che trascorre i Promessi sposi, l’impegno fattivo di un padre Cristoforo di contro alla pusillanimità di un don Abbondio, l’autenticità della fede degli umili che non rinunciano alle loro rivendicazioni di giustizia, come Renzo, anche se sanno che è la Provvidenza a ordire la trama misteriosa di una storia visibilmente dominata dai potenti. Ma qui è la chiave del cristianesimo giansenista del Manzoni: il Deus absconditus5 trascende le forme (e le formule) con cui si cerca di immobilizzarlo e di chiuderlo in uno spazio sacrale, magari quello del tempio; la sua incommensurabilità alle meschine rappresentazioni e strumentalizzazioni degli uomini non disdegna l’immanenza nel cuore dei puri (Lucia) o dei tormentati (l’Innominato); la sua misericordia fermenta nell’eroismo quotidiano di chi soffre ed è oppresso dall’apparato di mistificazioni e di idolatrie con cui i potenti fanno al storia.
A leggere i tre densi volumi in cui Giancarlo Vigorelli6 ha raccolto con intelligenza le più importanti pagine della critica, dall’Ottocento ad oggi, si sarebbe portati a credere in un antimanzonismo costante e pervicace della nostra cultura. Vigorelli osserva che il recente centenario della morte, pur ricco di commemorazioni ufficiali, ha riconfermato la sordità dell’intellighenzia italiana al messaggio del grande lombardo e polemizza, talora con buone ragioni, su un certo costume letterario di antica ascendenza ostile alle opere di profondo impegno religioso. Tuttavia, anche a sfogliare semplicemente il secondo e terzo tomo della sua vasta silloge, si possono ripercorrere le tappe di una variegata ma significativa incomprensione di un’arte tanto difficile quanto troppo superficialmente vulgata. Il nodo per capire il Manzoni, come aveva magnificamente intuito il Momigliano,7 è la sua fede e non la “struttura ideologica”, come va ripetendo una certa critica storicista e marxista sulla scia delle ben note osservazioni di Gramsci. Ciò non vuol dire che un panorama di valori, segnati inevitabilmente dalla cultura della nascente borghesia italiana, non impronti di sé il mondo dello scrittore, quale ci appare soprattutto nel romanzo. Ma v’è da aggiungere che questi valori non sono mai assolutizzati, proprio perché sottoposti al vaglio di una fede profondamente demistificatrice, e dunque utopica, nel senso che nessuno spazio umano circoscritto può pretendere di sacralizzarsi in un Eden terrestre, nel migliore dei mondi possibili, tanto meno la società borghese. Questo pessimismo critico è una componente pascaliana che troppo spesso è stata sottaciuta; e anzi, i più acuti lettori laicisti, dal Sapegno al Caretti al Salinari,8 hanno rivalutato l’ideologia manzoniana insistendo ora sulla perdurante influenza della giovanile formazione democratico-illuministica, ora sull’humus della cultura lombarda, dal Parini al Verri e al Beccaria, ora sulla collocazione di intellettuale organico della borghesia che darebbe un precipuo valore, fattivo e ottimistico, al romanzo. Ci pare, comunque, che la specificità dell’arte narrativa del Manzoni, cioè la sua lezione di scrittore, resti, in queste discussioni, del tutto inattingibile e persino secondaria. Eppure, la grandezza del Manzoni è consegnata al segreto affascinante della sua scrittura, di fronte alla quale, soltanto, è lecito porsi il problema della emblematicità rivoluzionaria ed europea dell’artista, ed è possibile, forse, comprendere le ragioni ultime della sua eccelsa solitudine.


Angelo Marchese, Manzoni in purgatorio, Le Lettere, Firenze 1982

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento