3 - Stile e tecniche narrative

Il primo Ottocento – L'opera: I promessi sposi

È da notare come i promessi sposi siano entrambi privi di figure paterne cui appoggiarsi (in questo senso, fra Cristoforo riveste un evidente ruolo di sostituto). Lucia in compenso ha dalla sua la madre Agnese, tratteggiata dal narratore con piglio bonario, come si può dire dell’intero universo paesano che ruota intorno a loro. Agli antipodi sta la rappresentazione della plebe milanese, abbrutita e resa diffidente dalla peste e dalla miseria. In ambito urbano Manzoni si sofferma sulla folla più che sui singoli, insistendo sull’irrazionalità e sulla forza bruta che ne fanno, al suo sguardo di liberale moderato, un mostro incontrollabile. Come sappiamo, intervengono al riguardo patologie psichiche personali: la moltitudine urbana in rivolta non gli appare – come ad altri scrittori romantici – espressione di una volontà popolare collettiva, ma un soggetto incontenibile, preda dell’egoismo, dell’ignoranza, degli istinti più biechi.

Sono ben quattro gli esponenti del clero ad avere un ruolo di primo piano nel romanzo. La negatività del pauroso don Abbondio e della corrotta monaca di Monza è compensata dall’eroismo di fra Cristoforo e del cardinale Federigo Borromeo, che si esplica su diversi piani. Il ritratto del cardinale restituisce l’immagine di un giusto esemplare: un nobile dallo spirito umile, difensore inflessibile del messaggio evangelico, pronto a vigilare sui torti subiti dalle pecorelle più deboli del suo gregge. Fra Cristoforo assurge a emblema della Chiesa militante: si spende in prima persona per combattere la prepotenza, “sporcandosi le mani” anche a costo di sbagliare, come capita quando manda Lucia a Monza. Ritraendo questi due campioni del bene, Manzoni si pone in controtendenza rispetto alla tradizione letteraria, che sin dal Medioevo (si pensi al Decameron) ha dipinto volentieri i frati come corporazione lasciva, avida, disonesta, e le gerarchie ecclesiastiche come oziose e indifferenti ai bisogni della povera gente.

Fatta eccezione per il cardinal Borromeo, i potenti sono ritratti in chiave negativa, siano essi ottusi come il padre della monaca di Monza, ipocriti come il gran cancelliere Ferrer (un’importante autorità spagnola a Milano), inetti come don Ferrante, sprezzanti e violenti come l’Innominato prima della conversione, o prepotenti come don Rodrigo, vero e proprio compendio della malvagità nobiliare. Non è un caso che l’unico in questo gruppo a cui Manzoni conferisca una grandezza sinistra, accresciuta dal mistero e dal terrore che si spandono intorno alla sua figura, sia anche il solo ad abbandonare la via della perdizione. L’Innominato, in effetti, è il personaggio che più si avvicina agli eroi del romanzo nero nordico.

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Le tematiche e i problemi

Il male nei Promessi sposi si presenta innanzitutto come ingiustizia sociale, sotto forma di sopruso compiuto da un nobile, con il sostegno di un pavido sacerdote, ai danni di due popolani, che la corruzione delle autorità costringe a cercare riparo fuori dalle normali vie del diritto. Ma il romanzo compone un ben più vasto campionario del negativo connesso alla condizione terrena: si va dalla violenza fisica esercitata nelle guerre alla violenza psicologica, che può scatenarsi anche nella dimensione familiare, come avviene nel caso della monacazione forzata di Gertrude. E ancora, Manzoni mette in scena lo scatenarsi di una calamità come la peste, non riconducibile a colpe degli esseri umani, a meno di credere alla leggenda degli untori: è un male di ascendenza imperscrutabile, che costringe ancora una volta a fare i conti con la volontà divina.

«È stata un gran flagello questa peste; ma è stata anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più», sostiene don Abbondio nel finale del romanzo. In effetti il morbo ha una funzione risolutiva nella vicenda, poiché grazia i due fidanzati e condanna invece a una morte orribile il loro avversario, don Rodrigo. Sarebbe tuttavia semplicistico considerare l’epidemia un mero strumento della Provvidenza. Quest’ultima viene continuamente evocata dai personaggi per giustificare o spiegare quanto capita, ma la loro ingenua fiducia non appartiene evidentemente al narratore, che evita di banalizzare la volontà divina e di piegarla ai fini di una vicenda esemplare. Manzoni, di fatto, non crede all’identificazione di rettitudine e felicità: Dio, nella sua onnipotenza, colpisce anche gli innocenti, secondo tempi e modi a noi incomprensibili; è necessario abbandonarsi alla Grazia, consapevoli che anche la sventura può essere «provvida», nella misura in cui consente all’uomo di assicurarsi un posto in Paradiso.
È questo l’approdo dei percorsi di formazione dei due fidanzati. Renzo riesce a scacciare la tentazione di farsi giustizia da solo, con la violenza: dopo avere visto con i propri occhi, a Milano, la “follia della folla”, bestialmente eccitata dalla violenza, e la degradazione della peste, concede il perdono a don Rodrigo. Lucia, per parte sua, scopre che l’innocenza non basta, come ingenuamente credeva: il male coinvolge anche chi è senza colpe. I guai arrivano anche se uno non se li va a cercare, «ma la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore»; è questo, commenta il narratore, «il sugo di tutta la storia», che non si chiude su un tradizionale lieto fine, proprio perché i due protagonisti hanno fatto esperienza dell’ingiustizia. Il finale del romanzo infatti non ristabilisce le condizioni di partenza: ad attendere Renzo e Lucia non è un idillio nel paese natio, ma il trasferimento nella Bergamasca, dove essi avviano una vita di famiglia operosa e serena.

Per comprendere l’ideologia cattolica su cui si basano I promessi sposi è necessario innanzitutto volgersi ai due ecclesiastici ritratti in chiave positiva, ovvero il cardinale Federigo Borromeo e fra Cristoforo, entrambi incarnazione dello spirito di carità e di servizio verso il prossimo. La parabola del secondo, in particolare, risulta istruttiva. Egli si chiamava Lodovico ed era un giovane ricco e avventato, che diventa frate con il nome di Cristoforo per espiare l’assassinio di un nobile che per strada non aveva voluto cedergli il passo. Da borghese facoltoso, figlio di un mercante, si incammina sulla via della penitenza, cominciando con il chiedere perdono alla famiglia dell’ucciso. Riconosciuta da questa la sincerità del suo pentimento riceve in dono un pane, che conserva a ricordo dell’episodio. Tutto ciò spiega l’ira con cui si scaglia a più riprese contro i propositi violenti manifestati da Renzo.
In quest’ottica, il perdono concesso da Renzo a don Rodrigo nel lazzaretto rappresenta il capolavoro di fra Cristoforo, che di lì a poco perderà la vita, infettato dagli appestati per i quali si spende generosamente. Prima, però, ha il tempo di impartire ai due fidanzati un’ultima lezione, avviandoli «sulla strada della consolazione che non avrà fine»: «Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, […] co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla». Manzoni torna dunque all’idea di «provvida sventura», in cui si condensa una volta ancora il suo messaggio religioso, nella convinzione che soltanto la fede sia in grado di conferire senso all’infinito dolore che accompagna l’esistenza terrena.

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Nei Promessi sposi è rigorosamente evitata la rappresentazione del desiderio sessuale, che pure costituisce un elemento cruciale dell’intreccio, avviato da un tentato rapimento a scopi erotici e culminante nel voto di castità formulato da Lucia nel momento più drammatico. Convinto che al mondo ci sia amore «seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie», come dice in un passo del Fermo e Lucia (in seguito eliminato), Manzoni ritiene inopportuno fomentare in questo senso l’immaginazione, con il rischio di compromettere la serenità di potenziali lettori, tra i quali ipotizza «una vergine non più acerba, più saggia che avvenente», e «un giovane prete». La letteratura, prosegue, dovrebbe istillare ben altri sentimenti, dei quali al mondo c’è penuria, come la pietà, «l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso».
L’eccezione, rappresentata dal rapporto peccaminoso della monaca di Monza con il suo amante Egidio, è giustificata in nome del ravvedimento conclusivo, e verrà del resto eliminata nelle redazioni successive al Fermo e Lucia. Lo scrittore milanese non chiede al lettore di “appassionarsi”, ma di esercitare criticamente le proprie facoltà razionali sui caratteri e sui comportamenti messi in scena. La carica pedagogica che immette nelle sue opere scoraggia identificazioni empatiche e trasporti emotivi.

I potenti, nei Promessi sposi, appaiono quasi sempre sordi alle ragioni della giustizia, con la sola eccezione del cardinal Borromeo. La centralità della questione si riconosce sin dal primo sguardo all’intreccio, che si sviluppa a partire dal sopruso compiuto da un signorotto ai danni di due popolani. Sono le disavventure di Renzo, in particolare, che ci consentono di mettere meglio a fuoco la realtà di un mondo in cui domina l’ingiustizia sociale. Il giovane lo verifica nel corso del colloquio con l’avvocato Azzeccagarbugli, il quale prima lo scambia per un bravo, dimostrandosi ben disposto a difendere le sue prepotenze; e poi, non appena sente il nome dell’amico don Rodrigo, lo caccia in malo modo.
Viceversa Renzo, pur innocente, si trova a essere arrestato, durante il tumulto di San Martino. Per evitare la prigione è costretto alla fuga, alla latitanza, all’espatrio.
La vittima di un sopruso impunito è dunque perseguita senza tregua per un reato che non ha commesso. L’attacco frontale al sistema giudiziario del XVII secolo è potenziato dalle digressioni sulle gride, severissime e altisonanti quanto inapplicate, e soprattutto dal racconto del processo agli untori, su cui verte la Storia della colonna infame. Al tempo stesso Manzoni critica aspramente gli abusi commessi dalla classe nobiliare, vuoi per inettitudine, pigrizia o dissolutezza, vuoi in nome di una polverosa idea di onore cavalleresco, vuoi per l’interesse della casata, anteposto a tutto (è il caso del principe padre, che obbliga Gertrude a farsi monaca). L’unico nobile in grado di sottrarsi a queste dinamiche è il cardinal Borromeo, rappresentante in Terra dell’unica, vera, infallibile giustizia, quella divina destinata però ad affermarsi soltanto nel regno dei cieli.

L’approccio moderato, ma tutt’altro che conservatore, di Manzoni nei confronti della società, della politica, dell’economia è ben riconoscibile anche nei Promessi sposi. Certo, la presenza del regime austriaco gli impedisce di affrontare di petto le questioni che più gli stanno a cuore, ovvero l’Unità d’Italia e la fine del potere temporale della Chiesa. D’altra parte le critiche rivolte all’amministrazione spagnola consentono di comprendere le sue idee liberali e la sfiducia nei confronti dell’aristocrazia feudale, ai suoi tempi non ancora tramontata. Manzoni, nobile dalla mentalità aperta, in effetti fa propri i princìpi della borghesia in ascesa nell’Europa del XIX secolo, a partire dal favore con cui sostiene l’economia di scambio e il libero mercato. Nel romanzo ciò risulta particolarmente evidente nella ricostruzione della carestia milanese, dove l’autore imputa gravi responsabilità all’operato del gran cancelliere Ferrer, che va contro la legge della domanda e dell’offerta. Il calmiere che egli impone al prezzo del pane induce i fornai a non fare il pane perché non è più conveniente e dà avvio alla spirale negativa che porta ai tumulti popolari.
D’altra parte, per Manzoni non è certo con la rivoluzione che il popolo potrà ottenere pane e giustizia, ma lasciandosi guidare dalla Chiesa, la quale deve spronare le classi dominanti alla carità cristiana, e lavorando con paziente operosità. In questo modo Renzo, abbandonato il paese d’origine, riesce alla fine a migliorare la propria posizione sociale, trasformandosi da modesto filatore di seta in piccolo imprenditore nel ramo tessile.

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3 Stile e tecniche narrative

Come scrive Manzoni

Il patto narrativo proposto al lettore nell’introduzione ai Promessi sposi prevede una sorta di sdoppiamento della voce narrante. Nella finzione infatti c’è da una parte l’anonimo secentesco autore del manoscritto, che garantisce la veridicità del racconto avendolo ascoltato da Renzo (della cui testimonianza originaria non sopravvive nulla); e dall’altra parte il narratore, che sostiene di aver soltanto tradotto in italiano moderno e preparato il testo per la pubblicazione. Ciò gli consente di instaurare un dialogo a distanza con l’anonimo, tanto che più volte si discosta dalle sue affermazioni, o decide di riassumerle sommariamente. La sua mediazione è a conti fatti fortissima: siamo dinanzi a un classico narratore onnisciente, in grado di leggere nel cuore dei personaggi e sempre attento a giudicarne l’operato, ora proponendo articolate riflessioni a margine, ora limitandosi a una valutazione fulminea, a volte divenuta proverbiale. È il caso della lapidaria frase che sancisce la caduta nel peccato della monaca di Monza, non indifferente al corteggiamento di un giovane corruttore: «La sventurata rispose».

Il tratto più riconoscibile del narratore dei Promessi sposi è il tono ironico, sereno, comprensivo, che lo distanzia molto dalla figura storica di Manzoni, tormentato come si è detto da inquietudini e nevrosi. Quest’ironia è rivolta in primo luogo a sé stesso, tramite scherzose ostentazioni di modestia, e ai suoi «venticinque lettori», con i quali si scusa più volte, immaginando la loro attesa impaziente di quei colpi di scena e di quelle azioni mozzafiato che nel romanzo scarseggiano, in contrasto con le aspettative legate al genere. Ma soprattutto l’ironia investe i personaggi, con la sola eccezione di Lucia. Viene così percorsa l’intera gamma che dall’umorismo bonario, speso nei confronti degli spropositi di Renzo, conduce al sarcasmo più tagliente, che inchioda alle loro responsabilità i malvagi e i mediocri che consentono all’ingiustizia di trionfare.

Il narratore, naturalmente, non esercita l’onniscienza senza interruzioni. In diversi casi adotta la prospettiva di un personaggio, in sequenze più o meno prolungate. Un esempio celebre è quello dell’angosciato cammino di Renzo verso l’Adda, in cui l’adozione del punto di vista del fuggiasco giova ad accrescere la suspense e restituire la girandola delle sue emozioni. Non a tutte le sue creature, però, Manzoni concede questa opportunità. Il punto di vista dei malvagi, in atto di meditare o compiere cattive azioni, è radicalmente escluso dal romanzo.
Non a caso l’unica, straordinaria scena in cui al lettore si apre l’universo mentale di don Rodrigo cade giusto nel momento in cui il signorotto, aggredito dalla peste, scopre nel delirio il bubbone e intravede alla porta il Griso, suo servitore, che lo tradisce.

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Le scelte linguistiche

Postosi al lavoro sul romanzo, Manzoni si trovò dinanzi a difficoltà innanzitutto linguistiche. Non esisteva un modello di riferimento, nella scarna tradizione narrativa italiana, e non esisteva del resto neppure una lingua universalmente adottata nella penisola. Nella vita quotidiana egli sentiva usare quasi soltanto il dialetto o tutt’al più il “parlar finito”, ovvero un milanese aggiustato alla bell’e meglio con desinenze toscane. Come regolarsi, dunque? Come restituire la freschezza della conversazione orale?
La soluzione non arriva subito. L’eclettismo della prima stesura lo lascia profondamente insoddisfatto: «Scrivo male a mio dispetto», sbotta nell’introduzione al Fermo e Lucia, biasimando in una spietata autocritica quello che gli pare un «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra di esse».

Nel riscrivere il romanzo Manzoni cerca dunque più saldi appigli nel toscano usato in ambito letterario, consultando e postillando vari repertori, a cominciare dal Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini.
A lungo l’autore crede nell’opportunità di valorizzare le convergenze fra italiano e dialetto locale, poi si rende conto che resta alla pagina un sapore in qualche misura artificiale, di una lingua ricavata dai libri e non dal parlato vivo di una comunità. Il soggiorno a Firenze, subito dopo l’uscita della “ventisettana”, lo convince ad adottare la lingua effettivamente usata in città in contesti civili. Avvalendosi dei suggerimenti di Emilia Luti – istitutrice delle figlie, nativa del capoluogo toscano – nella “quarantana” Manzoni elimina i lombardismi, sfronda le forme auliche (scrivendo aria al posto di aere, materasso al posto di coltrice, paura al posto di tema, e così via), sostituisce nell’imperfetto indicativo la prima persona in -o a quella in -a (io facevo invece di io faceva), accresce la presenza di interiezioni e altri fenomeni tipici dell’oralità, come i pleonasmi («La peste l’ho avuta») e gli anacoluti («il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare»), in modo da conferire al romanzo maggiore vivacità.

4 I testi

Temi e motivi dei brani antologizzati
T7 Fra Cristoforo dinanzi a don Rodrigo
(cap. 6)
• un duello verbale
• il senso dell’onore “feudale” di don Rodrigo
• l’irruenza di fra Cristoforo e la sua “profezia”
T8 Addio, monti
(cap. 8)
• l’effusione lirica dei sentimenti di Lucia
• la nostalgia di chi è costretto a espatriare
• il paragone fra campagna e città
• il ruolo della Provvidenza e il compenso che dispensa a chi soffre
T9 Il ritratto della monaca di Monza
(cap. 9)
• un ritratto in chiaroscuro
• l’indugio sui dettagli, che tradiscono l’ambiguità della monaca
T10 Renzo nel tumulto di Milano
(cap. 13)
• l’ingenuità e il buon senso “contadino” di Renzo
• l’orrore per l’omicidio
• la folla come entità incontrollabile e minacciosa
• il «vecchio malvissuto»
T11 L’angosciosa notte dell’Innominato
(cap. 21)
• un monologo da teatro tragico
• l’Innominato come “eroe romantico”
• il tormentoso percorso verso il bene
• Lucia come mediatrice della Grazia
T12 Don Abbondio dinanzi al cardinal Borromeo
(cap. 26)
• il confronto fra due caratteri opposti
• l’eloquenza del cardinale e gli “a parte” di don Abbondio
• il “panegirico” del cardinale Borromeo
• maggiore modernità e vivacità artistica del personaggio di don Abbondio
T13 La madre di Cecilia
(cap. 34)
• un episodio straziante
• la dignità della madre
• la pietà di Renzo
T14 Il «sugo di tutta la storia»
(cap. 38)
• un lieto fine senza idillio
• il progresso sociale di Renzo, da operaio a imprenditore
• il gioco di specchi fra il narratore e l’anonimo
• i guai colpiscono anche chi non ha colpe, ma la fede aiuta a sopportarli

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento