Il primo Ottocento – L'opera

I promessi sposi

Le ragioni per leggere I promessi sposi restano numerose, a dispetto della distanza temporale e culturale che ci separa dall’opera. Siamo dinanzi all’atto di fondazione del romanzo moderno nella letteratura italiana, tanto sul piano stilistico, grazie all’adozione di una prosa toscana scorrevole e priva di fronzoli retorici, quanto sul piano tematico, grazie alla scelta di elevare a protagonisti non principi o cavalieri, ma due umili paesani lombardi partoriti dalla fantasia dell’autore.
La spinta al realismo insita nel genere prescelto porta Manzoni a oltrepassare di slancio il pessimismo delle tragedie. Certo, il mondo resta intriso di violenze e ingiustizie, dilaganti in un’epoca in cui la legge non è uguale per tutti, anzi la latitanza dei poteri pubblici lascia i più deboli – a cominciare dalle donne del popolo – alla mercé dei prepotenti. D’altra parte I promessi sposi non si possono ridurre a una storia edificante, con tanto di lieto fine garantito dalla Provvidenza; testimoniano invece la scelta di reagire all’oppressione, ma cercando giustizia, senza ricorrere alla violenza: niente di più attuale.

1 Genesi e composizione

La scelta del romanzo

Scegliendo di comporre I promessi sposi Manzoni sorprende i migliori letterati dell’epoca. Niccolò Tommaseo, per esempio, all’uscita del libro scrive con sconcerto: «L’autore dell’Adelchi e degli Inni sacri si è abbassato a donarci un romanzo». Lo scrittore si è cioè cimentato in un genere all’epoca ritenuto adatto al solo intrattenimento, decisamente inferiore a odi e tragedie. Perché Manzoni mette a repentaglio la sua fama pur di volgersi a un genere letterario allora poco rilevante? Il punto è che egli individua nel romanzo il mezzo più adatto a coinvolgere vaste fasce di pubblico, respinte dalla difficoltà della letteratura tradizionale e desiderose di vedere rappresentate situazioni vicine alla loro esperienza.

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Il romanzo consente all’autore di porre in primo piano gli umili, che nell’Adelchi erano rimasti sullo sfondo, delineando in chiave drammatica le ingiustizie subite da due popolani onesti e animati da una profonda fede religiosa. Non si tratta semplicemente di divertire i lettori, ma di usare il flessibile strumento della narrazione a fini pedagogici.
L’«interessante» deve aprire la via all’«utile», come è chiaramente affermato nella prima introduzione alla stesura originale, a cui Manzoni non aveva dato un titolo ma che è comunemente nota come Fermo e Lucia: «Lettori miei, se dopo aver letto questo libro voi non trovate di avere acquistata alcuna idea sulla storia dell’epoca che vi è descritta, e sui mali dell’umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può facilmente arrivare per diminuirli e in sé e negli altri, se leggendo voi non avete in molte occasioni provato un sentimento di avversione al male di ogni genere, di simpatia e di rispetto per tutto ciò che è pio, nobile, umano, giusto, allora la pubblicazione di questo scritto sarà veramente inutile».

In questo contesto resta fondamentale l’aggancio al «vero», garantito dalla decisione di calare la vicenda nel Seicento, al tempo della dominazione spagnola sulla Lombardia, di proiettarla cioè in un passato distante, scrupolosamente ricostruito con l’aiuto di sterminate letture, di ambito soprattutto saggistico. Fonti principali sono gli elenchi di gride pubbliche, ovvero i provvedimenti legislativi emanati dai governatori di Milano, le opere sulla peste di Giuseppe Ripamonti e Alessandro Tadino, due storici vissuti nel XVII secolo, gli scritti giuridici degli Illuministi lombardi, i saggi sull’economia pubblicati da Melchiorre Gioia (1767-1829).
Sulla scelta di evitare ambientazioni contemporanee ha certo un peso la repressione austriaca, che negli anni della composizione del romanzo si abbatte con violenza sulla nobiltà milanese: Manzoni ha davanti agli occhi l’esempio del coetaneo Federico Confalonieri, arrestato per cospirazione nel 1821 e condannato a morte (pena poi commutata nella reclusione in un carcere durissimo, lo Spielberg). Sceglie allora un periodo in cui la realtà dell’oppressione asburgica possa comunque essere riconosciuta in controluce: gli pare perfetto il Seicento, secolo della peste, epoca di estrema decadenza per la Lombardia, in balia dei governanti spagnoli incapaci e corrotti.

Se è vero che il primo impulso a comporre un romanzo storico viene a Manzoni dalla lettura di Ivanhoe, è altrettanto vero che, a differenza dello scrittore scozzese Walter Scott (1771-1832), egli non indulge al pittoresco, alle avventure rocambolesche, agli eroi eccezionali. Ciò non significa naturalmente che nelle sue pagine manchino influenze del primo Romanticismo (come il castello sinistro, tipico dei romanzi gotici), o della narrativa “nera” settecentesca. A questa, d’altronde, si possono ricondurre il nucleo centrale dell’intreccio, che verte sul tentato rapimento di una fanciulla innocente da parte di un nobile corrotto, e la più celebre digressione, che rievoca gli oscuri maneggi di una monaca assassina e del suo amante: tutti ingredienti già reperibili nelle opere di uno scrittore agli antipodi di Manzoni come il dissoluto marchese De Sade (1740-1814). Non a caso nelle successive stesure l’autore cercherà di attenuare e dissimulare queste suggestioni più visibili nella prima redazione.

La vicenda editoriale

Manzoni pone mano al romanzo il 24 aprile 1821. Il lavoro prosegue sino al 17 settembre 1823 con alcune pause, nel corso delle quali l’autore completa Il cinque maggio, l’Adelchi e La Pentecoste. Al termine di questo periodo egli ha scritto 37 capitoli, divisi in quattro tomi, nei quali si narra – intervallata da lunghe digressioni – la storia di un matrimonio ostacolato dal capriccio di un signorotto locale in un borgo del lecchese.

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Intorno ai due promessi sposi, Fermo Spolino e Lucia Zarella (di qui il titolo attribuito all’opera, suggerito dall’amico letterato Ermes Visconti), ruota l’intera società di un’epoca (1628-1631) travagliata da conflitti (nel contesto della Guerra dei Trent’anni), carestie, rivolte e da una terribile pestilenza, che miete innumerevoli vittime e contagia quasi tutti i personaggi.
A questo flagello Manzoni dedica un’appendice, in cui racconta il processo a due presunti “untori”, accusati di aver diffuso il morbo con unguenti velenosi, capri espiatori ingiustamente condannati a morte. Al posto delle loro case, demolite, verrà eretta una «colonna infame» in ricordo, appunto, dell’“infamia” dei presunti colpevoli; essa diventerà invece testimonianza dell’ignoranza umana quando, molto tempo dopo, si dimostrerà l’innocenza dei condannati: la colonna verrà così abbattuta, nel 1778.

Completata la “prima minuta”, nel 1824 Manzoni decide di riscrivere il romanzo, operando modifiche sostanziali, che vanno ben al di là dell’impianto linguistico (del quale si dirà più avanti). Da un lato sopprime o riduce gli episodi più scandalosi, a partire dalla digressione sui delitti della monaca di Monza; dall’altro introduce alcuni passaggi cruciali, relativi per lo più a Fermo, ora ribattezzato Renzo. Rivede l’intreccio dopo la fuga dal paese, alternando i guai di Lucia a quelli di Renzo, mentre in precedenza aveva composto due blocchi separati. Muta i profili di alcuni personaggi, conferendo loro maggiori chiaroscuri (per esempio al ritratto dell’Innominato, chiamato in precedenza Conte del Sagrato), e soprattutto agisce sulla voce narrante, smussandone l’indole seriosa e manichea grazie all’introduzione di una robusta dose d’ironia. Infine decide di sopprimere l’appendice sulla «colonna infame».
In questa veste I promessi sposi vedono la luce nel giugno 1827 presso la tipografia di Vincenzo Ferrario, in tre tomi, con il sottotitolo Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, il quale continua a correggere sino all’ultimo, con incontentabile impegno.
Poco dopo Manzoni parte con la famiglia per la Toscana, dove si rende conto della necessità di una significativa revisione linguistica dell’opera (la cosiddetta “risciacquatura in Arno”). Le 2000 copie della prima edizione intanto vanno presto esaurite, e lo stesso accade alle altre che seguono di lì a poco. È un successo clamoroso, testimoniato dal fiorire di ristampe abusive, dalle traduzioni in francese, inglese, tedesco e dagli elogi spesi da letterati di primo piano, italiani e stranieri (tra questi, Goethe). Gli intellettuali più tradizionalisti criticano tuttavia il rilievo attribuito a due miseri filatori di seta, mentre il mondo cattolico manifesta riserve dinanzi alla scelta di dipingere un parroco, don Abbondio, come mediocre e vigliacco.

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Dopo una profonda revisione linguistica, orientata verso il fiorentino colto, Manzoni promuove una nuova edizione del suo capolavoro, che fa illustrare con disegni originali per allettare i lettori popolari e contrastare le contraffazioni. Nasce così la cosiddetta “quarantana”, uscita a dispense dagli stampatori Guglielmini e Redaelli fra il 1840 e il 1842, con il supporto di un gruppo di disegnatori capeggiati da Francesco Gonin.
Ad arricchire l’opera vi è anche la presenza della Storia della colonna infame, l’appendice sulla peste scritta per Fermo e Lucia, che Manzoni inserisce dopo il romanzo quale suo inseparabile completamento, tanto che fa scrivere la parola “Fine” in calce a essa. Qui, con spirito illuministico, l’autore esprime il sentimento di orrore etico e religioso per l’ignoranza e la superstizione degli uomini, per le colpe dei giudici che hanno emesso la condanna contro i presunti untori, poiché avrebbero potuto illuminare la verità e non lo hanno fatto per codardia e corruzione, scaricando la responsabilità del contagio della peste su poveri innocenti.
L’ultima edizione del romanzo va tuttavia incontro a un doloroso insuccesso. Il pubblico continuerà a preferire la “ventisettana”, e più di metà delle 10.000 copie della prima tiratura della “quarantana” rimarranno invendute, causando all’autore un gravissimo danno economico. Solo in un secondo tempo, e grazie all’azione determinante della scuola, la quarantana diventerà – e lo è tuttora – il testo di riferimento per chi intenda accostarsi ai Promessi sposi.

2 La struttura, i personaggi, i temi

Un organismo complesso

Nell’Introduzione ai Promessi sposi Manzoni sostiene di aver trovato e riscritto in un italiano meno ampolloso un «dilavato e graffiato autografo» (ossia stinto e pieno di sgorbi), in cui gli era capitato di leggere una «bella storia» davvero accaduta, raccolta da un anonimo nel Seicento. Si tratta di un espediente intramontabile, quello del “manoscritto ritrovato”, a cui aveva già fatto ricorso – fra i tanti – Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte► p. 308). La finzione del manoscritto è funzionale a dare il senso del secolo e a inserire nel contesto la figura dell’anonimo, destinato a diventare nel corso della narrazione un vero e proprio personaggio fuori scena. Il narratore lo chiama in causa per distanziarsi dalla materia in modo ironico («così scrive il mio anonimo» è una delle formule più ricorrenti) e per conferire alla vicenda narrata il carattere di un episodio effettivamente reale.

La storia in questione muove da una situazione di quiete e normalità. Il primo blocco narrativo del romanzo (capitoli 1-8), inquadrata la vicenda fra il lago e le alture del Lecchese, si concentra sul sopruso subito da due devoti e laboriosi popolani, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Alla vigilia delle loro nozze due «bravi», cioè due sgherri di don Rodrigo, un nobile locale invaghito di Lucia, si parano dinanzi al parroco incaricato del matrimonio, don Abbondio, intimandogli di rinunciare, pena la vita. Invano Renzo si rivolge all’avvocato Azzeccagarbugli; né miglior esito è ottenuto dal tentativo di fra Cristoforo, un cappuccino, padre spirituale dei due giovani, di cui l’autore racconta in una digressione l’irrequieta giovinezza: prima di ricevere la vocazione, l’uomo – al secolo Lodovico – ha perfino ucciso un nobile in un duello provocato da futili motivi.

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Il frate prova a distogliere don Rodrigo dai suoi propositi, ma questi resta fermo nella volontà di impedire il matrimonio, più per puntiglio che per passione, avendo scommesso con il cugino Attilio che avrebbe avuto Lucia. Fallisce anche il tentativo dei due giovani di celebrare il matrimonio di sorpresa, facendo irruzione nottetempo nella casa di don Abbondio, proprio mentre i bravi si recano alla casa di Lucia per rapirla. Non resta ai promessi sposi altro che fuggire dal paese e dai monti natii, ai quali Lucia indirizza uno struggente addio. Insieme alla madre Agnese la fanciulla raggiunge il convento di Monza, dove si pone sotto la protezione di suor Gertrude, un’ambigua monaca di una nobile famiglia alle cui vicende è dedicata la seconda digressione significativa del romanzo, tramite un ampio flash back sulla sua monacazione forzata (capitoli 9-10).
Il secondo blocco narrativo (capitoli 11-17) verte sulle traversie di Renzo, che raggiunge Milano, dove si trova implicato nei tumulti scaturiti dal rincaro del pane. Arrestato all’osteria della Luna Piena, riesce a liberarsi e a riparare in territorio veneziano, presso il cugino Bortolo, in un paese della Bergamasca dove viene assunto come lavorante al filatoio.
Il terzo blocco narrativo (capitoli 18-27) vede l’uscita di scena di fra Cristoforo, allontanato grazie ai maneggi di Attilio, e l’entrata dell’Innominato, a cui si rivolge don Rodrigo perché rapisca Lucia. Con l’aiuto dell’amante della monaca di Monza, la giovane è condotta nel castello dell’Innominato. Malvagio e temuto, questi tuttavia vive una crisi di coscienza, che si aggrava dopo un dialogo con Lucia. Recatosi a colloquio dal cardinale Federigo Borromeo, in visita al paese, ne esce convertito: decide di cambiar vita e liberare Lucia, indirizzata prima alla casa di un sarto e poi presso la ricca donna Prassede, moglie dell’erudito don Ferrante. Nel corso di un teso confronto il cardinale rimprovera aspramente don Abbondio per la sua codardia. Al matrimonio si frappone tuttavia un nuovo ostacolo: il voto di castità formulato da Lucia durante la notte disperata trascorsa nel castello dell’Innominato. Renzo, informato via lettera, non riesce a mettersi il cuore in pace.
Il quarto e ultimo blocco narrativo (capitoli 28-38) è introdotto da un’articolata ricostruzione del contesto storico e sociale: la carestia, la calata in Lombardia dei lanzichenecchi, il dilagare della peste. Vengono contagiati anche don Rodrigo e Renzo; quest’ultimo ne guarisce e decide di tornare al proprio paese. Al posto di Lucia vi trova soltanto morte e devastazione. Decide perciò di avviarsi alla volta di Milano, stremata dall’epidemia e in preda a un’isterica caccia agli untori.
Nel lazzaretto incontra dapprima fra Cristoforo, tornato per dare assistenza ai malati: tra questi vi è don Rodrigo in punto di morte, che Renzo perdona, e Lucia, in via di guarigione. Fra Cristoforo, prima di cedere al morbo che ha infettato pure lui, scioglie il voto di castità. Lo scatenarsi di una pioggia purificatrice accompagna la soluzione della vicenda. Rientrati al paese, i due fidanzati finalmente si sposano, per poi trasferirsi nella Bergamasca, dove la famiglia e gli affari prosperano. Su questo ritorno alla normalità Manzoni chiude il romanzo, nella convinzione che l’idillio «seccherebbe a morte» i lettori.

All’accuratezza nella definizione degli spazi corrisponde nel romanzo la precisione temporale: don Abbondio incontra i bravi il 7 novembre del 1628; il matrimonio può effettivamente celebrarsi ai primi di novembre del 1630. Le vicende del romanzo occupano dunque circa due anni, ma secondo un andamento irregolare. I primi otto capitoli si distendono in pochi giorni: quando Renzo in fuga passa l’Adda (capitolo 17) non è trascorsa una settimana dall’avvio della storia. Il montaggio alternato fra le concomitanti traversie dei fidanzati aumenta la suspense e mantiene il ritmo serrato sino al momento della liberazione della giovane dal castello dell’Innominato (capitolo 24). Fatte salve le molteplici digressioni, il ritmo subisce un evidente rallentamento soltanto nell’ultimo blocco, sino al momento del ricongiungimento al lazzaretto (capitolo 36), che conduce rapidamente all’epilogo.

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Il sistema dei personaggi

Manzoni offre nei Promessi sposi un campionario completo di tipi umani, percorrendo i diversi strati della società che ritrae: dai popolani a nobili e cardinali, egli descrive per intero e a tutti i livelli la realtà sociale allo scopo di giudicarla alla luce della fede cristiana. I rapporti di forza e l’opposizione tra bene e male emergono con chiarezza in occasione degli incontri, che ricorrono in tutti i punti strategici del romanzo.
Come notava già Francesco De Sanctis, sono quattro i principali “faccia a faccia” in cui le ragioni dello spirito trionfano: due riguardano fra Cristoforo (a confronto con il fratello dell’uomo che ha assassinato e con don Rodrigo); due il cardinale Borromeo (a confronto con l’Innominato e con don Abbondio). In tutti i casi, si tratta di scontri verbali: in ossequio alla morale cattolica Manzoni si guarda bene dal risolvere il romanzo con il classico duello fra gli antagonisti; a esso sostituisce un commosso perdono, che Renzo concede a don Rodrigo morente.

Protagonisti dei Promessi sposi sono due giovani popolani, ritratti in chiave positiva ma non idealizzata, che loro malgrado si trovano a dover percorrere un cammino di formazione disseminato di ingiustizie e pericoli, secondo dinamiche differenti.
Renzo Tramaglino, onesto, cordiale, ingenuo, impulsivo, incarna un principio di mobilità. La strada è il luogo privilegiato delle sue avventure, sia quando si confronta con le insidie della realtà urbana, sia quando attraversa le campagne, in fuga verso l’Adda o di ritorno al paese natale. La sua vicenda, al termine della quale saprà rinunciare alla vendetta in nome della fiducia nella Provvidenza, è completata dal passaggio di status sociale, da operaio a piccolo imprenditore.
Lucia Mondella, timida, pudica, devota, si muove invece solo perché costretta, per lo più in spazi chiusi: la casa, il convento di Monza, il castello dell’Innominato, e così via. Priva di ambizioni sociali e desideri di ricchezza, inorridisce alle attenzioni ricevute da don Rodrigo, che la distolgono dai casti propositi nutriti per il futuro: diventare sposa e madre. Nulla di più, nulla di meno. «Quest’acqua cheta, questa santerella, questa madonnina infilzata», come la definisce don Abbondio, impara a sue spese come i guai vengano a cercare anche gli innocenti, e quanto spesso le apparenze ingannino: l’abito non fa il monaco, né la monaca. Animata da una fede incrollabile, Lucia fa fronte alle circostanze avverse con coraggio e tenacia, così da comporre un profilo femminile in cui la vulnerabilità si intreccia indissolubilmente alla forza d’animo.

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento