Storia e Provvidenza

Il primo Ottocento – L'autore: Alessandro Manzoni

Storia e Provvidenza

La meditazione sulla Storia ha un ruolo fondamentale in tutta l’opera creativa e saggistica di Manzoni, che a essa guarda per comporre tanto le due tragedie, Il conte di Carmagnola e Adelchi (ambientate la prima nel XV secolo, la seconda nell’VIII), quanto il romanzo I promessi sposi (situato nel XVII secolo). Dagli idéologues francesi frequentati in gioventù, lo scrittore milanese mutua un approccio agli eventi del passato lontano dalle consuetudini tradizionali. Lungi dal ridurre la Storia a celebrazione delle imprese militari e delle vicende politiche, egli mira a una ricostruzione più ampia, che non si limiti a proiettare in primo piano le gesta di principi e generali, ma tenga conto dell’esistenza di chi nel tempo si sia trovato a subire le ragioni della forza, dunque anche degli appartenenti alle classi più umili.
Questa impostazione, sottesa al disegno dei Promessi sposi, è chiaramente espressa da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, scritto e pubblicato a margine dell’Adelchi, nel 1822. Trovatosi dinanzi alla mancanza di testimonianze sulla vita degli italici durante la dominazione longobarda, ai fini di una rappresentazione corretta l’autore si dice convinto dell’esigenza di dar voce ai «desideri, i timori, i patimenti, lo stato generale dell’immenso numero d’uomini che non ebbero parte attiva in quell’avvenimento, ma che ne provaron gli effetti». Quei milioni di uomini che sulla Terra passarono senza lasciare traccia, come comparse invisibili, salgono adesso sul palcoscenico della letteratura e della storiografia.

A ossessionarlo è la questione relativa alla presenza del male nella Storia, a causa del quale, in ultima analisi, nella vita terrena non vi è spazio per azioni nobili o disinteressate, ma solo per la violenza che divide il mondo in «oppressori» e «oppressi». Come dice con amarezza Adelchi, agli uomini «non resta / che far torto o patirlo».
La Grazia divina si presenta allora nei confronti degli eroi manzoniani sotto forma di «provvida sventura», ovvero di una disgrazia terrena che li colloca fra gli «oppressi»: sconfitte e umiliazioni portano la salvezza eterna ad Adelchi, alla sorella Ermengarda, come anche a Napoleone nel Cinque maggio. Da buon cattolico, l’autore vede nella Storia il compimento del volere divino. La Provvidenza agisce in modo imperscrutabile, ma ciò non diminuisce d’altra parte le responsabilità degli uomini.

La più alta e intensa riflessione di Manzoni su quest’ultimo punto è costituita dal saggio Storia della colonna infame, dove rifiuta le opinioni espresse da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura. Verri aveva ricondotto l’esito del processo agli untori che ebbe luogo nella Milano del 1630, devastata dalla peste, all’ignoranza diffusa in un’epoca violenta e alle leggi sbagliate, che giustificarono le torture e procurarono condanne ingiuste.
Manzoni, tornando sul medesimo processo, sostiene che ridurre quel risultato abominevole a «un effetto de’ tempi e delle circostanze» è inaccettabile per un credente. Il peso della responsabilità a suo parere ricade interamente sui giudici che punirono degli innocenti, calpestando ogni regola: «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa».

Al di là di ogni condizionamento, dunque, l’uomo risponde pienamente delle sue azioni. I comportamenti morali, gli abissi del cuore umano nei Promessi sposi sono ampiamente valutati e commentati, senza attenuanti permesse dall’iniquità dei tempi. Nel romanzo la Provvidenza trasforma il male in una serie di prove che consentono di verificare e temprare la fede dei personaggi, che la chiamano in causa a più riprese, a differenza del narratore onnisciente che non la nomina mai esplicitamente: dinanzi al mistero della Grazia divina, «un ordine che passa [supera] immensamente la nostra cognizione» (come scrive nel dialogo Dell’invenzione), Manzoni fa un passo indietro e sceglie per sé un silenzio reverente.

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 T4 

Il cinque maggio

Odi


L’ode viene scritta di getto nel luglio del 1821, alla notizia della morte di Napoleone, che circolava accompagnata da voci di una sua conversione all’ultimo momento. Profondamente colpito, Manzoni compone in pochi giorni questa “orazione funebre”, in cui ricapitola la vicenda umana dell’imperatore, sublime dimostrazione del carattere precario delle glorie umane, al cospetto di una prospettiva eterna. La censura austriaca ne proibisce la stampa, ma l’ode si diffonde ampiamente tramite copie manoscritte, riscuotendo ammirazione e consensi. Nel 1822 Goethe la traduce in tedesco. L’anno successivo viene pubblicata a Torino.


METRO 18 strofe di 6 settenari, disposti secondo lo schema SASAST (dove S indica i versi sdruccioli, T i versi tronchi).

          Ei fu. Siccome immobile,
          dato il mortal sospiro,
          stette la spoglia immemore
          orba di tanto spiro,
5       così percossa, attonita
          la terra al nunzio sta,

          muta pensando all’ultima
          ora dell’uom fatale;
          né sa quando una simile
10     orma di piè mortale
          la sua cruenta polvere
          a calpestar verrà.

          Lui folgorante in solio
          vide il mio genio, e tacque;
15     quando, con vece assidua,
          cadde, risorse e giacque,
          di mille voci al sonito
          mista la sua non ha:

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          vergin di servo encomio
20     e di codardo oltraggio,
          sorge or commosso al subito
          sparir di tanto raggio:
          e scioglie all’urna un cantico
          che forse non morrà.

25     Dall’alpe alle piramidi,
          dal Manzanarre al Reno,
          di quel securo il fulmine
          tenea dietro al baleno;
          scoppiò da Scilla al Tanai,
30     dall’uno all’altro mar.

          Fu vera gloria? Ai posteri
          l’ardua sentenza: nui
          chiniam la fronte al Massimo
          fattor, che volle in lui
35     del creator suo spirito
          più vasta orma stampar.

          La procellosa e trepida
          gioia d’un gran disegno,
          l’ansia d’un cor che indocile
40     serve, pensando al regno,
          e il giunge, e tiene un premio
          ch’era follia sperar;

          tutto ei provò: la gloria
          maggior dopo il periglio,
45     la fuga e la vittoria,
          la reggia e il tristo esiglio;
          due volte nella polvere,
          due volte in sull’altar.

          Ei si nomò: due secoli,
50     l’un contro l’altro armato,
          sommessi a lui si volsero,
          come aspettando il fato;
          ei fe’ silenzio, ed arbitro
          s’assise in mezzo a lor.

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55     E sparve, e i dì nell’ozio
          chiuse in sì breve sponda,
          segno d’immensa invidia,
          e di pietà profonda,
          d’inestinguibil odio
60     e d’indomato amor.

          Come sul capo al naufrago
          l’onda s’avvolve e pesa;
          l’onda su cui del misero,
          alta pur dianzi e tesa
65     scorrea la vista a scernere
          prode remote invan;

          tal su quell’alma il cumulo
          delle memorie scese:
          oh quante volte ai posteri
70     narrar se stesso imprese,
          e sull’eterne pagine
          cadde la stanca man!

          Oh quante volte, al tacito
          morir d’un giorno inerte,
75     chinati i rai fulminei,
          le braccia al sen conserte,
          stette, e dei dì che furono
          l’assalse il sovvenir!

          E ripensò le mobili
80     tende, e i percossi valli,
          e il lampo dei manipoli,
          e l’onda dei cavalli,
          e il concitato imperio,
          e il celere obbedir.

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85     Ah! forse a tanto strazio
          cadde lo spirto anelo,
          e disperò; ma valida
          venne una man dal cielo,
          e in più spirabil aere
90     pietosa il trasportò;

          e l’avviò sui floridi
          sentier della speranza,
          ai campi eterni, al premio
          che i desideri avanza,
95     ove è silenzio e tenebre
          la gloria che passò.

          Bella Immortal! benefica
          Fede ai trionfi avvezza!
          Scrivi ancor questo, allegrati;
100  che più superba altezza
          al disonor del Golgota
          giammai non si chinò.

          Tu dalle stanche ceneri
          sperdi ogni ria parola:
105  il Dio che atterra e suscita,
          che affanna e che consola,
          sulla deserta coltrice
          accanto a lui posò.

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      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il cinque maggio è divisibile in tre parti. La prima inscena lo sbigottimento che coglie il mondo alla notizia della morte di Napoleone; commosso, il poeta decide di rompere il rigoroso riserbo al quale sino ad allora si era attenuto (vv. 1-24). A differenza degli altri grandi letterati del suo tempo (come Vincenzo Monti, Carlo Porta, Ugo Foscolo), Manzoni non aveva mai celebrato le imprese dell’imperatore quando questi era in vita. Né intende farlo ora: se nella seconda parte ne ripercorre la sfolgorante carriera, i trionfi e le disfatte (vv. 25-54), maggiore spazio è riservato nella terza ai giorni amari dell’esilio sull’isola di Sant’Elena, sigillati dal decisivo intervento della Grazia, in punto di morte (vv. 55-108). Siamo dinanzi a una «provvida sventura» simile a quella di Ermengarda chiusa in convento, o del conte di Carmagnola imprigionato. Anche Napoleone si trova a vivere un’esperienza di reclusione, che scatena l’onda insostenibile dei ricordi. La fede, infine, gli consente di affrontare la morte placato, trasformando le sue vicende terrene nella più istruttiva delle parabole.

Operando con vigorosa determinazione nel mondo, senza evitare il ricorso a ingiustizie e violenze, da oscuro ufficiale nato in una provincia remota, la Corsica, Napoleone diventa imperatore dei francesi. Signore degli eserciti, giudice dei secoli l’un contro l’altro armato (v. 50), uom fatale (v. 8) che da solo si dà il nome, sollevandosi al di sopra della massa anonima degli uomini, raggiunge un premio ch’era follia sperar (v. 42) e pretende di decidere l’avvenire del mondo.
Più che ricordare Ulisse o Alessandro Magno, egli incarna dunque il prototipo dell’uomo moderno, l’eroe romantico che cerca di costruirsi da solo il destino. In questa prospettiva non stupisce come la pietà e l’ammirazione di Manzoni nascano non al cospetto dei trionfi, ma nel momento esatto in cui Napoleone mette da parte la superbia con cui aveva cercato di sostituirsi a Dio e si trova a riconoscerne la suprema grandezza.

Ancora una volta Manzoni riconosce nella sconfitta l’opportunità di dimostrare un eroismo ben diverso dal modello titanico di stampo romantico, nonché l’unico mezzo per giungere alla salvezza eterna. L’esistenza di Napoleone, che finisce i suoi giorni su uno scoglio in mezzo all’Atlantico dopo avere imperversato dall’alpe alle piramidi, / dal Manzanarre al Reno (vv. 25-26), è ai suoi occhi un’altissima dimostrazione della divina onnipotenza. I posteri pronunceranno l’ardua sentenza (v. 32) sulla gloria terrena dell’imperatore, ma questa conta infinitamente meno del giudizio di Dio, a cui spetta l’unica vera gloria: le imprese umane, anche le più ardite, viste dalla prospettiva dell’eternità si riducono a polvere. Animato da questa convinzione, Manzoni conclude Il cinque maggio con una vibrante apostrofe* alla Fede, che avvicina l’ode a un inno sacro, composto, questa volta, non in occasione di una festa liturgica, ma per interpretare a maggior lode di Dio la morte di un grande protagonista della Storia.

Le scelte stilistiche

L’ode è caratterizzata da uno stile solenne sin dall’attacco, divenuto proverbiale, che riduce a due monosillabi la più straordinaria delle vite: Ei fu (v. 1). Anche in seguito l’insistenza sul passato remoto contribuisce a fissare in una dimensione di compiutezza la rievocazione delle imprese di Napoleone, il cui nome non viene mai pronunciato.
A innalzare il discorso contribuiscono l’uso pregnante degli aggettivi, che spesso ricorrono prima del verbo, in posizione rilevata (valida venne, vv. 87-88; pietosa il trasportò, v. 90), i latinismi (nunzio, solio, coltrice, securo ecc.) e il fitto tessuto di figure retoriche, tra le quali è opportuno segnalare almeno le due estese similitudini* (vv. 1-8; vv. 61-68), le anastrofi*, gli iperbati*, la metafora* tesa a sottolineare la rapidità d’azione di Bonaparte (di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno, vv. 27-28).
Allo scopo di sottolineare il vorticoso turbine degli accadimenti è frequente il ricorso all’antitesi* (per esempio due volte nella polvere, / due volte in sull’altar, vv. 47-48; d’inestinguibil odio / e d’indomato amor, vv. 59-60). Per contrasto, ai due estremi dell’ode Manzoni delinea una situazione di stasi, evocando la salma immobile del condottiero, alla quale nella conclusione si accosta Dio.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi in forma discorsiva il contenuto della poesia in circa 10 righe.

ANALIZZARE

2 Elenca e chiarisci, con l’aiuto di una mappa, tutti i riferimenti geografici presenti nel testo.


3 Individua nel testo esempi di anastrofi e iperbati.


4 Colloca nella tabella tutti i richiami alla sfera semantica dell’immobilità e a quella del movimento.


Immobilità
Movimento
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

INTERPRETARE

5 Perché, secondo te, Napoleone non viene mai nominato esplicitamente per nome, ma sempre attraverso pronomi (Ei, v. 1) o perifrasi (uom fatale, v. 8)?

PRODURRE

6 Altri due grandi artisti e intellettuali sono rimasti affascinati dalla figura di Napoleone, il musicista Ludwig van Beethoven e il filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Svolgi una ricerca sul rapporto tra Napoleone e queste due personalità e illustra i risultati in un testo espositivo di circa 40 righe.


Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento