2 - Le opere

Il primo Ottocento – L'autore: Alessandro Manzoni

2 Le opere

Le opere giovanili

Il primo decennio dell’Ottocento vede il giovane Manzoni particolarmente attivo sul terreno della poesia, dove abbraccia un neoclassicismo dalle forti venature giacobine.
L’autore esordisce con le terzine Del trionfo della Libertà (1801-1802), in cui si scaglia contro il Papato e inneggia alla Rivoluzione francese, miscelando lo schema della visione allegorica di ascendenza dantesca, ripreso in anni recenti da Monti, all’invettiva contro la tirannide, tipica di Alfieri. A Monti devono parecchio anche i riferimenti mitologici, il linguaggio aulico, la sofisticata retorica dell’ode amorosa Qual su le cinzie cime (1802) e dell’idillio in endecasillabi sciolti Adda (1803). Si pone invece sotto il segno di Parini la sdegnosa satira nei confronti del dilagare dell’immoralità e della mercificazione in ogni campo, poesia compresa, presente nei quattro Sermoni (1803-1804), nei quali Manzoni prende a bersaglio soprattutto l’istituzione della famiglia.

In morte di Carlo Imbonati

È un carme composto in endecasillabi sciolti tra il 1805 e il 1806, in cui l’autore immagina di dialogare con il defunto conte Imbonati. Manzoni è influenzato dal magistero morale di Parini, modello di uomo probo, estraneo alla corruzione dilagante nella Milano dell’epoca, così come lo rappresenta Foscolo nei coevi Sepolcri, scritti in questo stesso periodo.
Allievo in gioventù di Parini, nel componimento Imbonati ne fa propria la lezione di moralità, enunciando una serie di severi precetti al giovane poeta, deciso a imboccare la via di una letteratura impegnata, mai asservita al potere, in nessun modo disposta a tradire «il santo Vero».

Urania

In questo poemetto del 1809, ultimo frutto significativo della sua stagione neoclassica, Manzoni esalta l’azione civilizzatrice della poesia, come già aveva fatto Monti nella Musogonia, e come di lì a poco avrebbe fatto Foscolo nelle Grazie. Nel settembre scrive a Fauriel, a proposito di un’altra epistola di argomento mitologico, A Parteneide, confessando di essere «scontentissimo» dei suoi versi: «ne farò forse dei peggiori, ma simili a questi mai più».

La poesia religiosa

Dopo la conversione Manzoni abbandona in modo risoluto forme e argomenti della produzione precedente. Si volge a una poesia di matrice cattolica, scartando il lirismo soggettivo verso cui si indirizzava la poesia europea della sua epoca per concentrarsi su verità di fede di portata universale. Egli rinuncia tanto al corredo mitologico del gusto neoclassico quanto agli atteggiamenti di sdegnosa solitudine dello stereotipo romantico, per unirsi al coro della comunità cristiana, reinterpretando così in chiave evangelica gli ideali egualitari e la vena pedagogica della tradizione illuminista in cui si era formato.

Inni sacri

Manzoni progetta di scrivere 12 inni, ciascuno dedicato a una festa liturgica, ma il ciclo resterà incompiuto. Nei 4 inni terminati fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) prende forma una poesia che vorrebbe essere popolare sia sul piano tematico sia su quello stilistico, supportata da agili metri derivati dalle canzonette in voga nella produzione settecentesca dell’Arcadia, qui impiegati per veicolare una materia sublime, attinta da fonti bibliche. Ma al centro dei componimenti più che la dottrina religiosa egli pone i suoi effetti sui fedeli, secondo lo schema tripartito che prevede l’alternanza tra enunciazione del tema, narrazione dell’episodio prescelto, riflessione in merito.

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La Pentecoste

Ai primi inni Manzoni riesce ad aggiungere soltanto La Pentecoste, iniziata nel 1817 e terminata nel 1822, e più tardi i frammenti del Natale del 1833 (1835) e Ognissanti (1847).
Nella Pentecoste, composta nel periodo più fervido della creatività dell’autore, vengono evidenziate la presenza di Dio nella Storia e l’azione rischiaratrice della Grazia nel cuore e nella vita dei cristiani. La rievocazione della discesa dello Spirito Santo sugli uomini non insiste sugli aspetti teologici e si scioglie in una commossa preghiera corale, accesa dalla speranza di redenzione e giustizia per l’umanità.

Le tragedie

Nella seconda metà degli anni Dieci – quando in lui matura la volontà di concentrarsi sulla Storia, in modo da offrire una meditazione cristiana sulla virtù, sull’ingiustizia, sulla violenza, sul dolore – Manzoni si volge al genere della tragedia. E lo fa, come nel caso della poesia, infrangendo consolidate tradizioni di genere. Compone sì tragedie in versi in 5 atti, com’era prassi comune, ma rifiuta le regole aristoteliche. Seguendo il modello di Shakespeare, molto ammirato in ambito romantico, abbandona le unità aristoteliche di tempo e luogo, che ritiene matrici di inverosimiglianza e causa principale delle forzature ravvisabili nei caratteri e nelle passioni dei personaggi di molte tragedie contemporanee. Riprende inoltre dall’antichità l’istituto del coro, ma gli assegna il ruolo di una sorta di «cantuccio» riservato alle considerazioni del narratore sulle vicende.
In generale il teatro di Manzoni, più adatto alla lettura che alla messa in scena, non mira al trasporto emotivo, ma allo sviluppo di una coscienza critica ispirata dagli eventi esposti.

Il conte di Carmagnola

Di poetica teatrale Manzoni ragiona nella Prefazione al Conte di Carmagnola, tragedia avviata nel 1816 e pubblicata nel 1820. La vicenda è ambientata nel Quattrocento: il capitano di ventura Francesco Bussone, al servizio del duca di Milano, passa al soldo dei veneziani, che dopo la vittoria di Maclodio (1427) lo condannano a morte in quanto sospettato di tradimento, per avere usato troppa clemenza con i nemici sconfitti.

Nella vicenda di un uomo innocente, sul quale si accaniscono i meccanismi machiavellici della politica, Manzoni rappresenta il trionfo del male nella Storia, temperato solo dalla fede che consola il Carmagnola prima di salire al patibolo. Nel coro S’ode a destra uno squillo di tromba, dedicato allo scontro fra veneziani e milanesi, l’autore lancia un implicito monito agli italiani del suo tempo, perché mettano da parte le discordie, in nome dell’unità.

Adelchi

Composta tra il 1820 e il 1822, quando viene data alle stampe, la tragedia Adelchi è il capolavoro del teatro romantico italiano: Manzoni ottiene una riuscita sintesi tra “vero storico” e “vero poetico”, raccontando gli eventi che nell’VIII secolo portarono al crollo del dominio longobardo in Italia, sotto la spinta dei franchi di Carlo Magno. In controluce tuttavia non è difficile riconoscere i riferimenti alla situazione politica dell’Italia dell’Ottocento, divisa in più Stati e soggetta al dominio delle potenze straniere.
L’attenzione principale è rivolta ai vinti, siano questi gli eredi della dinastia reale, Adelchi ed Ermengarda, o le popolazioni latine soggiogate. Il racconto, pur ambientato nell’Alto Medioevo, non indulge a concessioni al gusto del pittoresco diffuso nel Romanticismo europeo, in particolare nell’area nordica. Dal punto di vista ideologico, Adelchi rappresenta il punto più avanzato del pessimismo cristiano di Manzoni, animato da una visione radicalmente negativa della società umana.

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Gli eventi si svolgono tra il 772 e il 774, quando gran parte della penisola è occupata dai principi longobardi: Ermengarda, figlia del re Desiderio andata in sposa a Carlo, re dei franchi (il futuro Carlo Magno), viene da lui ripudiata e torna presso la reggia del padre a Pavia. I rapporti tra i due re precipitano definitivamente quando le mire espansionistiche di Desiderio minacciano lo Stato della Chiesa e papa Adriano IV invoca il soccorso di Carlo. La guerra inizia e nel frattempo Ermengarda, ritiratasi in un convento, muore straziata alla notizia delle nuove nozze di Carlo. Questi, dopo essere rimasto a lungo bloccato sulle Alpi, grazie alla guida del diacono Martino e al tradimento di Svarto e altri duchi longobardi, dilaga con il suo esercito nella Pianura padana. Adelchi, erede al trono longobardo, tenta a Pavia un’estrema difesa ma è ferito e catturato, al pari di Desiderio. Prima di spirare, affida il vecchio padre alla clemenza di Carlo, che appare colpito dalla grandezza d’animo del suo avversario.

I due re, Desiderio e Carlo, sono personaggi mossi soltanto dall’interesse di Stato e dalla brama di potere. Dinanzi a loro si ergono Adelchi ed Ermengarda, che rispondono invece alle ragioni dei sentimenti e della giustizia. Adelchi, pur contrario alla guerra, si batte sino in fondo, sperimentando su di sé il dissidio fra le leggi morali e l’azione politica, che si concretizza in una realtà fatta di sangue, violenza, sopraffazione, in cui non resta che «far torto / o patirlo».
Questo scontro tra ideale e reale fa di lui un tipico eroe romantico, che svela l’inganno del potere (la «feroce forza» che «fa nomarsi dritto», cioè che si fa chiamare diritto) e va incontro al proprio destino di sconfitta con cristiana fermezza. La sua è una sventura provvidenziale («provvida sventura»), in quanto garantisce la salvezza eterna. La medesima dinamica riguarda sua sorella Ermengarda, anch’essa appartenente alla schiera degli oppressi: l’umiliazione ricevuta da Carlo ne fa una vittima innocente, sulla cui sofferenza discende la consolazione della Grazia divina.

PER APPROFONDIRE

Le unità aristoteliche

Sulla scorta di un passo della Poetica di Aristotele, a partire dal Cinquecento viene fissata per la tragedia la regola delle cosiddette tre unità di tempo, luogo e azione. Il filosofo greco aveva sostenuto che la favola, ovvero il testo teatrale, dovesse avere una forma «compiuta e perfetta» e presentare un’azione più contenuta rispetto a quella dell’epopea «perché la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o poco più, mentre l’epopea è illimitata nel tempo».
Queste indicazioni, che in realtà si limitavano a descrivere uno stato di fatto del teatro greco (e in particolare quanto avviene nell’Edipo re di Sofocle), vengono rese vincolanti dai critici e dagli autori italiani rinascimentali (Giovan Battista Giraldi Cinzio, Francesco Robertello, Gian Giorgio Trissino, Giulio Cesare Scaligero) e quindi concepite come un blocco indissolubile da Vincenzo Maggi (1498-1564), che nel trattato In Aristotelis librum “De poetica” communes explanationes (Contro le spiegazioni comuni dei Libri della Poetica di Aristotele, 1550) stabilisce il canone delle tre unità, a cui si adegua il teatro italiano del Seicento e del Settecento. L’unità di tempo prescrive la norma che il dramma debba svolgersi nell’arco di una sola giornata; l’unità di luogo limita lo svolgimento dell’azione a un ambiente; l’unità di azione impone che l’argomento debba limitarsi a un unico avvenimento, sviluppato coerentemente dalla situazione iniziale a quella finale senza l’interferenza di vicende accessorie.

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Le odi civili

Sensibile sin dall’adolescenza ai problemi della Storia, Manzoni attinge dalla tradizione illuministica l’esigenza di rinnovamento della società italiana. Inizialmente non immune, come la maggioranza dei giovani della sua generazione, al fascino della Rivoluzione francese, egli abbandona progressivamente le suggestioni del giacobinismo; poi la sua conversione religiosa e quella letteraria alle teorie romantiche lo spingono a concepire la Storia come il terreno in cui la Provvidenza agisce al fianco dell’uomo per riscattarlo dalla tirannide e dall’assenza di libertà.
Il tramonto del dominio napoleonico ispira a Manzoni due canzoni dense di spiriti patriottici, composte rispettivamente nel 1814 e nel 1815: Aprile 1814, incentrata sulle speranze accese dal ritiro dei francesi da Milano, e Il proclama di Rimini, in cui il poeta caldeggia l’adesione all’appello del generale francese e re di Napoli Gioacchino Murat, che invitava gli italiani a battersi per l’unità nazionale. Entrambi i lavori restano però incompiuti.

Marzo 1821

Questa ode viene scritta durante i moti carbonari piemontesi di quell’anno, quando Carlo Alberto di Savoia pareva propenso a guidare la riscossa nazionale. Entusiasmato da tali prospettive, che la realtà presto avrebbe deluso, Manzoni si dice convinto che la libertà dei popoli sia una legge voluta da Dio e incita all’azione contro gli austriaci in nome di un’Italia indipendente, «una d’arme di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». Questi versi diventarono una bandiera del patriottismo risorgimentale nel 1848, quando – dopo le Cinque Giornate di Milano – l’ode poté finalmente andare in stampa.

Il cinque maggio

Scritta di getto nell’estate del 1821, alla notizia della morte di Napoleone, l’ode riassume la vicenda terrena dell’imperatore in versi divenuti proverbiali, sin dal celeberrimo attacco: «Ei fu». Orazione funebre, coro di una tragedia non scritta, inno sacro per il più laico degli eroi moderni, Il cinque maggio è il primo componimento in cui Manzoni scrive di Napoleone, che era stato già ritratto in vita da grandi poeti italiani tra cui Monti, Foscolo, Porta.

Ci troviamo dinanzi a un eroe colto non nel cuore delle sue imprese fulminanti, ma nel momento della sconfitta, che assume tratti provvidenziali. Dalla nascita modesta alle glorie raccolte in tutto il mondo, la parabola di un’esistenza eccezionale si conclude con l’oltraggio dell’esilio, che tuttavia consente a Napoleone di riconoscere la miseria dell’effimera esistenza umana. «Fu vera gloria?» è la domanda che il poeta pone a proposito delle sue imprese politiche e militari: ai suoi occhi la sentenza che pronunceranno i posteri conta infinitamente meno del giudizio di Dio.
La morte di un grande protagonista della Storia costituisce così l’occasione per meditare sul valore da attribuire alla gloria mondana: l’autore esalta in tal modo l’intervento della Grazia, che giunge a confortare con la sua presenza la solitudine di un’anima transitata dalle luci del trionfo all’ombra della prigionia.

 >> pag. 249 

I promessi sposi

Il capolavoro di Manzoni è analizzato nella seconda parte dell’Unità ( ► p. 289), a cui si rimanda anche per seguire il profondo lavoro di revisione che porta dal Fermo e Lucia (1821-1823), prima stesura del romanzo, alla sua versione definitiva (1840).

Saggi storici, letterari e filosofici

Buona parte delle opere saggistiche di Manzoni nasce in margine all’elaborazione dei suoi principali lavori poetici, narrativi, teatrali, che stimolano intense riflessioni di carattere teorico. Tuttavia a partire dagli anni Trenta l’autore abbandona sostanzialmente il lavoro creativo, indirizzando i propri interessi intellettuali agli studi storici, letterari e filosofici.

Osservazioni sulla morale cattolica

Per la prima volta, nel 1819, Manzoni si cimenta con la prosa, scrivendo un testo apologetico (rimasto incompiuto) con il quale intende ribattere le accuse lanciate contro la Chiesa dallo studioso di origine svizzera e di religione calvinista Jean-Charles-Léonard-Sismonde de Sismondi (1773-1842). In un’opera pubblicata a Parigi nel 1807, questi aveva sostenuto che la decadenza politica e morale degli italiani derivasse dall’operato delle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto a partire dall’età della Controriforma.

Con un approccio linguistico che aspira alla chiarezza espositiva e con un atteggiamento di grande tolleranza verso la tesi opposta, Manzoni replica che la morale cattolica è superiore a quella laica, in quanto stabile, perfetta e non soggetta ai cambiamenti umani, e che i princìpi di uguaglianza, promossi dall’Illuminismo, discendono dal Vangelo, il quale fornisce sempre risposte indiscutibili alle contraddizioni della vita e della storia umana.

 >> pag. 250 
Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia

Germogliata dalle ricerche svolte per la stesura dell’Adelchi, l’opera, scritta nel 1822, affronta la questione dei rapporti tra longobardi e popolazioni italiche, sostenendo la tesi della mancata fusione tra i due gruppi: ne consegue che secondo l’autore la richiesta di aiuto ai franchi, da parte del Papato, non possa essere considerata la causa della prima invasione straniera in Italia.

L’interesse dell’opera sta tuttavia non tanto nel punto di vista storiografico offerto da Manzoni, quanto nella sua visione romantica della Storia, che appare come teatro non delle imprese di pochi eroi, ma della sofferenza degli umili, cioè di quella «immensa moltitudine di uomini […] che passa su la terra, su la sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia».

Storia della colonna infame

Già incluso nel Fermo e Lucia, questo saggio storico viene pubblicato nel 1840 in appendice all’edizione definitiva dei Promessi sposi. Manzoni vi ripercorre il processo a due presunti “untori” (così erano chiamati coloro che venivano sospettati di diffondere il contagio ungendo persone e cose con sostanze velenose), durante la peste milanese del 1630, condannando con sdegno l’uso della tortura e le responsabilità dei giudici che decisero la pena di morte.

Del romanzo storico

Questo discorso, avviato nel 1828 ma pubblicato solo nel 1850, rappresenta una sorta di palinodia, cioè di ritrattazione delle proprie stesse scelte artistiche. Manzoni infatti condanna la mescolanza di Storia e invenzione nelle opere narrative, che era stata alla base della scrittura dei Promessi sposi.

Dell’invenzione

Si tratta di un dialogo filosofico sul tema della creazione artistica, scritto nel 1850 e fortemente influenzato dalle idee del filosofo Antonio Rosmini. Manzoni nega all’artista la facoltà di inventare dal nulla: richiamandosi all’etimologia del termine “invenzione” dal verbo latino invenio, che significa “trovare”, sostiene che il suo compito non sia dare libero sfogo alla fantasia, ma consista appunto nel rintracciare idee e argomenti che esistono già nella mente di Dio, in linea con la verità della Storia, intesa come espressione della volontà e della Provvidenza.

 >> pag. 251 
La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859

È un saggio comparativo, elaborato negli anni Sessanta ma rimasto incompiuto. Nella sola parte compilata, pubblicata postuma, Manzoni ragiona sugli effetti a suo parere disastrosi della Rivoluzione del 1789, che diede all’oppressione «nome di libertà».

Scritti sulla questione della lingua

Il problema della lingua assilla anche sul piano teorico Manzoni, il quale cerca costantemente di approdare a una soluzione definitiva non solo in riferimento alla propria arte, ma anche e soprattutto in relazione all’esigenza nazionale di un popolo ancora non unito politicamente e, appunto, linguisticamente.

Della lingua italiana

Tra il 1830 e la fine degli anni Cinquanta Manzoni si occupa a più riprese di questo trattato, un «eterno lavoro» rimasto inedito e incompiuto. Le carte superstiti insistono sia su argomenti classici, come l’origine del linguaggio umano, sia su questioni puntuali, come il ruolo da attribuire al fiorentino in ambito nazionale.

Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla

Si tratta di una relazione inviata nel 1868 al ministro della Pubblica istruzione sulla questione che fino all’ultimo più impegnò Manzoni.

Sentir messa

Risalente al 1835-1836, ma pubblicato postumo, questo scritto è originato da un fatto occasionale, cioè la critica che il grammatico piemontese Michele Ponza aveva mosso alla locuzione “sentir messa”, giudicata un dialettismo, impiegata da Tommaso Grossi nel romanzo Marco Visconti (1834). La replica manzoniana, sottolineando la maggior diffusione di “sentir messa” nell’uso corrente rispetto a “udir messa”, si estende a un’ampia riflessione sul carattere dell’uso linguistico fino a promuovere la concezione di una lingua scritta il più possibile vicina a quella parlata.

Epistolario

Nelle oltre 1800 lettere di Manzoni a noi pervenute scorrono tutte le sfumature dell’ingegno di un uomo inquieto, riservato, diffidente, ma anche ironico, curioso, cortese sino alla squisitezza.
Il genere epistolare in più di un’occasione serve all’autore a veicolare idee di poetica. Accade con la Lettre à Monsieur Chauvet (1820), dove Manzoni risponde a un recensore francese del Conte di Carmagnola, rivendicando la propria rinuncia alle unità aristoteliche e alla rappresentazione di passioni e sentimenti in nome della fedeltà al vero storico. Scritta nel 1823 ma pubblicata solo nel 1846 (senza il consenso dell’autore) è la Lettera sul Romanticismo al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, dove Manzoni attacca l’imitazione dei classici, le regole antiche, l’uso della mitologia in letteratura (ritenuto «idolatria»), e identifica una radice cristiana nel sistema romantico, ponendosi come alfiere di una moderna letteratura tesa a proporre «l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo».
Importante è pure la Lettera sulla lingua italiana (1847) all’erudito Giacinto Carena, dove lo scrittore milanese espone con chiarezza le ragioni della sua preferenza per il fiorentino dell’uso colto.

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento