Il primo Ottocento – L'autore: Ugo Foscolo

LETTURE critiche

Jacopo Ortis «intellettuale senza opere»

di Giorgio Bárberi Squarotti

Il suicidio del protagonista delle Ultime lettere di Jacopo Ortis ratifica tragicamente la sua incapacità di agire positivamente nella realtà. A partire da questo dato, il critico Giorgio Bárberi Squarotti (n. 1929) identifica in Jacopo il capostipite di una lunga serie di personaggi romanzeschi, tutti intellettuali inadatti all’azione concreta. A proposito di molti protagonisti della narrativa del Novecento si parlerà di “inettitudine” e di “inetti”, ma in Jacopo Ortis essi hanno una sorta di nobile antecedente.

La lotta di Jacopo è quella dell’intellettuale, non quella dell’eroe della passione o quella dell’eroe dell’azione. In questo senso egli rappresenta il primo esempio dell’intellettuale senza opere, che risolve nel rovello interiore e nella meditazione critica il fervore che non riesce a tradurre in scrittura; e, infatti, Jacopo «parla» attraverso il monologo delle lettere, immediatamente espone l’estremo della sua disperazione, non la media nella scrittura: di qui l’eccessività di tutto il discorso di Jacopo, che volutamente non è risolto nella forma allontanata e purificata della contemplazione, e la letterarietà che lo sorregge non è per effetto della mediazione della scrittura ma, anzi, per accompagnare più efficacemente la forma del monologo davanti al vuoto scenario di un mondo vile e volgare e, quindi, inesistente di fronte alla grandezza dell’eroe.
Parlando alla visita ai sepolcri di Santa Croce, Jacopo, appunto, dichiara la sua separazione dalla scrittura, cioè la scelta dell’esercizio critico, della riflessione sui fatti privati come pubblici, dell’analisi sull’elaborazione formale, dell’esplicazione sull’espressione, nonostante tutto il fervore anche violento di passionalità (ma sempre analizzata e giustificata) che pur pervade il suo monologo: «Presso a que’ marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand’io vegliando su gli scritti de’ grandi mortali, mi gittava con la immaginazione fra i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me – e pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui – nel profondo». Una lunga tradizione di intellettuali negati all’azione e alla scrittura enumererà, dopo Jacopo, la nostra letteratura (da Corrado Silla e Giorgio Aurispa, Alfonso Nitti e il Corrado de La casa in collina pavesiana e il protagonista della Dissipatio H. G. di Morselli):1 e Jacopo ne è il capostipite, ma con un impegno e una coscienza del carattere critico e riflesso che deriva necessariamente dall’impossibilità di scrivere e di agire, quali i successori letterari non avranno più, e anche con una chiarezza estrema del significato tragico che ha, per l’intellettuale, la rinuncia ai «plausi delle generazioni future», cioè alla scrittura, come già improponibile è apparsa e di nuovo apparirà, per la definitiva smentita nel colloquio con Parini, l’azione nella storia e nella società. Lucido è il giudizio di Jacopo sulle sorti della patria, poi l’esame critico del personaggio di Napoleone e delle illusioni che ha invano suscitato nei giovani italiani. Anche se quest’ultima parte è aggiunta tarda, non toglie che sia coerente non tanto con il giudizio storico del Foscolo o con il suo comportamento, quanto – ciò che è, poi, l’unica cosa che importa davvero – con il carattere riflessivo e critico della meditazione dell’eroe intellettuale Jacopo, negato ormai sia all’entusiasmo della scrittura, si tratti pure dell’ode a Bonaparte liberatore, sia allo slancio dell’azione, bruciata definitivamente dal fallimento della prima partecipazione rivoluzionaria, quella che, sì, ha generato lo scatto di Bruto contro i tiranni, ma anche la verifica immediata del riproporsi degli stessi tiranni in altre incarnazioni e, soprattutto, della tirannia dei ricchi e dei potenti sui miserabili e sugli affamati. Così ancora appare sia dalla rinnovata meditazione sull’ingiustizia della società e delle leggi che la reggono per l’oppressione dei miseri e per lo sfruttamento di essi da parte delle classi opulente, quale è contenuta nella lettera da Bologna del 12 agosto, sia ancor meglio dalla nota del Foscolo sulla maggiore terribilità della giustizia repubblicana in rapporto con la giustizia pontificia, corretta quest’ultima nella sua estrema severità dall’arbitrio dei cardinali legati, pronti sempre alla clemenza; inesorabile, invece, quella nell’applicare alla lettera la ferocia delle leggi del precedente regime, quindi ancora più determinatamente al servizio dell’oppressione del popolo affamato e schiacciato.


Giorgio Bárberi Squarotti, Le maschere dell’eroe. Dall’Alfieri a Pasolini, Milella, Lecce 1990

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L’unità strutturale dei Sepolcri

di Antonino Pagliaro

A dispetto di alcuni giudizi che ne condannavano la scarsa chiarezza, i Sepolcri sono, secondo il critico e filosofo Antonino Pagliaro (1898-1973), un’opera dallo sviluppo complesso ma unitario, articolata su un coerente sviluppo argomentativo.

La dialettica del carme
Il carme si è sviluppato dialetticamente dalla constatazione preliminare che il costume delle tombe sul piano naturale risulta vano (perché con la morte l’individuo ritorna nel grembo della materia e il corpo stesso e la tomba che dovrebbe difenderlo sono soggetti alle leggi del tempo, che tutto travolge e distrugge), lungo la via della ricerca di una assolutezza terrena in cui esso si giustifichi. La giustificazione della tomba si ha nel riconoscimento che essa è la realtà nella quale si denunzia l’ansia di durare oltre il limite; è una delle forme nelle quali si realizza la continuità delle generazioni, e assume il suo pieno valore nel quadro di quella più vasta e completa continuità che è la patria. Esaltata questa nell’aristocrazia del sentimento di pietà e di rispetto, con cui si onorano coloro che sacrificano per essa la propria singolarità (ove fia santo e lacrimato il sangue Per la patria versato), sul punto di conchiudere, riaffiora nel canto l’amarezza di quella impostazione iniziale, che pone senza alcun privilegio la vita, le opere degli uomini e il loro destino nel moto inarrestabile, che investe tutte le cose e forze della natura.

Pietà per la sorte dell’uomo
Le sciagure degli uomini sono nell’ordine cosmico, perché rappresentano un aspetto, anzi una conseguenza di quel moto del tempo, in cui è travolta ogni cosa. Attraverso il canto di Omero, Ettore riceverà sempre tributo di onore e di pianto là dove sia considerata sacra la morte di coloro che cadono per la propria patria; ma tale pietà non è se non un aspetto di quella più profonda e universale pietà, che i mortali hanno per il proprio destino, legato con l’ineluttabile vicenda della natura:
e finché il sole
risplenderà sulle sciagure umane.

Il ritorno al motivo iniziale non è esplicito, ma solo appena accennato (attraverso il rapporto sole-sciagure umane), fuso come è nella pienezza del momento lirico conclusivo; però l’accenno ha bene un valore come conferma di quella voluta organicità di struttura, che certo è da riconoscere al componimento. […]

Il nuovo genere letterario dei Sepolcri
Il Foscolo ebbe coscienza di avere creato nei Sepolcri un genere poetico nuovo o che, se mai, aveva precedenti molto distanti, nella lirica greca. Nel ritratto critico che egli dà di sé nel Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del sec. XIX, ha modo di precisare così la sua opinione circa il carattere della poesia lirica: «La proprietà della vera poesia lirica consiste in primo luogo nel presentare fatti interessanti, in guisa da eccitare in noi le più forti sensazioni; e quindi mettere a cognizione di tutti quelle opinioni che tendono in primo grado alla felicità degli uomini» (Opere, XI, p. 305). Qui viene indicato il processo come si riflette nella coscienza del lettore: prima immagini, dati di intuizione (fatti interessanti), capaci di provare forti sensazioni; conseguenza di quelli, l’acquisizione di nozioni utili alla propria felicità. Considerato il processo creativo dal lato del poeta, la direzione si inverte, poiché i «fatti interessanti» nascono in lui come emanazione, anzi come funzione della verità di cui vuole rendere gli altri partecipi. Il Foscolo esplicitamente ammette (e lo ripeterà subito dopo con altre parole) che la lirica, com’egli la concepisce, ha una sua verità da esprimere.

Tessuto discorsivo del carme
La novità del genere attuato con i Sepolcri consiste nel fatto che si tratta di un carme, quasi di un poema: la funzione poetica non si esaurisce nel giro di una rappresentazione in sé conchiusa, che rispecchi in blocco una verità definita e precisa che urge all’obiettivazione (e può trattarsi di un moto dell’animo fissato in una intuizione), ma si sviluppa in una serie di rappresentazioni che aderiscono, più che a una verità apoditticamente1 espressa, ad un vero dialettico, cioè a un processo del pensiero; non dunque una lirica che obiettivi in un congruo giro di versi un moto della coscienza, bensì un carme, un componimento più o meno ampio che traduca immagini, legate dal tessuto discorsivo, un certo opinare2 e un complesso sentire.


Antonino Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, D’Anna, Messina-Firenze 1956

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Poesia e teoria

di Matteo Palumbo

In tutta la sua opera, apparentemente eterogenea, Foscolo rimane fedele a una stessa concezione della poesia, secondo un programma teorico che è alla base delle sue scelte tematiche e stilistiche. Sull’importanza di questa elaborazione concettuale si sofferma lo studioso Matteo Palumbo (n. 1946), che ragiona in queste pagine sul ruolo che Foscolo assegna alla poesia nella Storia della civiltà umana.

Esiste in Foscolo una fedeltà costante all’idea di poesia, come egli la intende e la applica. Nelle prime riflessioni del 1803 sull’arte ai tempi di Lucrezio, o nelle note che accompagnano la traduzione della Chioma di Berenice, negli appunti sulla ragione poetica delle Grazie o nella lettera a Monsieur Guillon o nell’orazione inaugurale del 1809 intorno all’Origine e ufficio della letteratura, quando fu richiamato a ricoprire a Pavia la cattedra di Eloquenza, si può verificare un modo invariabile di concepire il genere lirico: distinto da ogni altra forma estetica per i contenuti, per le qualità formali, e, insieme, per le tecniche espositive. Tra il 1803 e gli anni dell’esilio londinese, non vi è in sostanza rottura in alcuna concezione della poesia istituzionalmente votata a celebrare numi ed eroi, e intesa, perciò, come lirica sublime, che riscopre nella prima origine, remota e favolosa, la traccia di quello che sembra un intramontabile destino. Seguendo analiticamente il percorso che Foscolo compie nei suoi principali scritti teorici, si tratterà, perciò, di ritrovare in ognuna delle singole tappe le affinità con il programma generale, e di riconoscere nelle distinte argomentazioni il permanere di un’uguale esigenza, a cui, nei tempi diversi, il poeta si adegua.
La storia dei ragionamenti che Foscolo, in qualità di critico, compie intorno alla poesia si identifica, per un altro verso, con la storia della poesia stessa di Foscolo, osservata dal punto di vista di colui che, per varie ragioni, riflette sul linguaggio e sul fine del proprio lavoro. La speculazione è, in altre parole, indissociabile dall’esercizio individuale, a cui si accompagna in un rapporto costante. Infatti, proprio lo sfondo concettuale, che Foscolo disegna come critico, è la premessa per intendere le ragioni di scelte stilistiche o tematiche ben coerenti, con cui egli cerca, nella pratica del lavoro de poète,1 il rispetto di quell’idea. Se è sempre indissociabile in ogni autore il legame tra elaborazione teorica e attuazione pratica, in Foscolo questa connessione è ancora più solida e operativa. Non solo perché in lui l’intelligenza critica è pari alla grandezza del poeta, ma anche perché la stesura dei suoi principali testi si nutre di testi esplicativi, che costituiscono un contributo essenziale alla conoscenza delle opere a cui si riferiscono. Così, alla composizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis si unisce la Notizia bibliografica, mentre ai Sepolcri si aggiunge la lettera a Monsieur Guillon e alle Grazie, invece, la Dissertation del 1822 e gli Appunti sulla ragion poetica del carme. Lirica e discorso sulla lirica stanno, dunque, insieme. Sono parti di uno stesso progetto, che collaborano a edificare in modo congiunto. Questo progetto ha per scopo l’affermazione del ruolo altissimo che la poesia lirica ha negli annali della storia degli uomini: un ruolo che coinvolge le radici stesse della civiltà e le leggi della sua saldezza.
[…]
Il primo dato da cui partire è la precisa e lucida coscienza che Foscolo dimostra della differenza tra generi letterari e dei loro rispettivi domini. Nel 1803 egli si dedica a un complesso lavoro su Lucrezio, rimasto frammentario, alla traduzione e al commento della Chioma di Berenice, e, contemporaneamente, scrive le poche, ma cruciali pagine, che prendono il nome di Saggio di novelle di Luigi Sanvitale. Nei testi che riguardano Lucrezio e Callimaco, Foscolo si preoccupa di definire, in termini storici e filosofici, la genesi della poesia e il suo fondamento antropologico.
Rispetto alla natura del romanzo […] altro è il fondamento della poesia. Con ferma coerenza, durante il corso degli anni, Foscolo non ribadisce che le medesime tesi. In un breve saggio, scritto nel 1811, che ha per oggetto propriamente Della poesia lirica, egli riassume nel modo più sintetico la sua posizione, già illustrata e articolata nei frammenti lucreziani e, soprattutto, nel Discorso quarto della Chioma di Berenice […]:

la poesia lirica canta con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi. La religione ed i fasti delle nazioni furono i primi ad ottenere per mezzo della poesia lirica monumenti perpetui della letteratura; da che questa poesia emanò non tanto dalle tarde istituzioni sociali, quanto dall’entusiasmo naturale alla mente dell’uomo, e non frenabile quasi quand’è mosso da forti e perpetue passioni. Finché gli uomini non avevano se non se il canto, tutta la loro storia e le loro leggi religiose e politiche doveano necessariamente trovarsi nella tradizione delle loro canzoni.

Poesia, dunque, che si identifica con la celebrazione di «numi» e di «eroi»: «teologica» e «legislatrice», come l’aveva già definita nella Chioma di Berenice, perché, attraverso il racconto di antichi miti, diventa memoria e custode dei principi della politica e della morale. In questo senso, proprio nel canto e nei suoi contenuti, e cioè «nella tradizione delle canzoni», si ritrovano le leggi eterne che stanno alla base della comunità umana. Rispettando la sua genesi, la lirica, che fa «divorzio» dalla cronaca, si inscrive in un orizzonte più ampio, aperto su scenari senza limiti. Si inscrive in un tempo di lunga durata, che ingloba e trascende la materia dell’attualità. Essa appartiene, infatti, a un mondo di verità universali e definitive, che restano intatte nel movimento dei secoli e nella mutazione dei regni. Nelle sue favole allegoriche si conserva il fondamento assoluto dell’humanitas: i valori, in altre parole, che costituiscono il patrimonio di ogni possibile civiltà, passata, presente e futura.
Questa idea di poesia, sublime e monumentale, non può che prendere vita in un corpo adeguato, che di quell’idea rappresenti il giusto correlativo. I suoi predicati sono invariabilmente riconosciuti in elementi tali che possano produrre, con la loro simultanea azione, effetti istantanei sull’immaginazione dei lettori. Ha perciò bisogno del «mirabile» e del «passionato»,2 «perché ha d’uopo di percuotere le menti col meraviglioso, ed il cuore con le passioni». A conferma di un progetto coerente a una concezione organicamente civile della poesia, Foscolo chiarisce, in un passo della Chioma di Berenice, che «questo mirabile non è, come gl’incantamenti de’ romanzieri, vòto di effetto; ma fa più salde le fondamenta dello stato». Non è, in altre parole, un ornamento secondario, ma costituisce il codice strutturale della poesia: la sua sostanza e il suo linguaggio.
[…]
La lirica, per Foscolo, non può essere che celebrazione di «eroi politici», giacché «la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all’indipendenza, gl’ingegni al vero e al bello». Questo programma coincide con l’origine e con il destino della letteratura nel senso più alto del termine. Essa rappresenta allegoricamente le idee e le ritrova materializzate nei miti antichi e nella conoscenza che questi portano con sé. Naturalmente un tale mandato non può compiersi che attraverso una lingua adeguata: solenne come i contenuti a cui si riferisce. Per Foscolo, così, proprio la lingua e la parola si pongono come garanti della permanenza delle favole nel tempo, contribuendo, in modo decisivo, alla loro immortalità.


Matteo Palumbo, Foscolo, Il Mulino, Bologna 2010

Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento