La negatività della Storia

Il primo Novecento – L'autore: Eugenio Montale

La negatività della Storia

In un’intervista rilasciata nel 1951, Montale afferma: «L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. […] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia».
Gli Ossi di seppia in effetti si concentrano quasi esclusivamente sul «male di vivere» del poeta, inserendo nella riflessione su un presente indecifrabile e oppressivo solo rari richiami al vissuto personale e collettivo. È sorprendente come, tra questi, la Grande guerra resti relegata a un ruolo del tutto secondario. In ciò Montale si differenzia dagli altri poeti chiamati alle armi, che diedero grande risalto all’esperienza al fronte, fossero ufficiali come Filippo Tommaso Marinetti, Clemente Rebora, Piero Jahier o semplici fanti come Giuseppe Ungaretti, che proprio nelle trincee scoprì la sua vena lirica più autentica.

Come precisa il poeta nell’intervista citata, ciò non implica un disinteresse nei confronti della realtà politica e sociale circostante. Negli anni in cui il fascismo è al potere, egli non teme di porsi pubblicamente all’opposizione. Mentre Ungaretti ottiene da Mussolini una prefazione alla ristampa del suo Porto sepolto, Montale firma il manifesto promosso da Benedetto Croce per la libertà della cultura, fa pubblicare gli Ossi di seppia a Piero Gobetti, uno dei più fieri avversari del regime, e non prende la tessera del Partito fascista, a costo di perdere l’impiego al Gabinetto Vieusseux (come accade nel 1938).
Nelle Occasioni, uscite di lì a poco, il doloroso ripiegamento sul privato è dovuto anche a questo contesto, che per evidenti ragioni di opportunità non può essere nominato se non in alcune allusioni cifrate (per esempio alla «fede feroce» nazista, nella poesia Dora Markus, ► T3, p. 844). Le stesse motivazioni costringono Montale, nel 1943, a pubblicare Finisterre in Svizzera, dove l’epigrafe tratta dal poeta barocco francese Théodore-Agrippa d’Aubigné, che sfida i governanti («le loro mani servono soltanto a perseguitarci»), non avrebbe creato problemi.

Rimasta così a lungo sotto la superficie, la grande Storia può finalmente emergere nella Bufera e altro, dove entra in un complesso rapporto dialettico con l’ipotesi di un amore salvifico, incarnato dalla figura di Clizia, come si vedrà più avanti. Per la prima volta compaiono riferimenti politici espliciti: al nazismo nella Primavera hitleriana, alle purghe ordinate da Stalin nel Sogno del prigioniero.
In Piccolo testamento Montale rivendica con orgoglio le proprie scelte di campo, sempre lontane dalle ideologie dominanti, ieri il fascismo, oggi quelle dei partiti di massa come la Democrazia cristiana e il Partito comunista, accomunate ai suoi occhi dalla necessità di una fede cieca e ottusa. Il dopoguerra delude le aspettative del poeta, che in Satura lamenta il dilagare di una «nuova palta» (cioè una nuova melma, un nuovo pantano) in cui si affonda senza scampo.

Nell’ultima stagione poetica si moltiplicano le riflessioni di Montale sul senso complessivo da assegnare all’eredità del passato, che viene investita da uno scetticismo radicale, intriso di sarcasmo. La Storia non premia né punisce secondo un criterio, «non è magistra / di niente che ci riguardi»: non è cioè in grado di dare alcun insegnamento alle generazioni future, con un ribaltamento del detto latino “historia magistra vitae” (cioè la storia maestra di vita). Questa considerazione ha peraltro dei risvolti positivi: se la Storia «non è poi / la devastante ruspa che si dice», se nella sua rete non mancano i buchi, allora è possibile scoprire un nascondiglio dove trovare una propria dimensione, come raccomanda un altro detto antico, il “vivi nascosto” del filosofo greco Epicuro.

 >> pag. 844 

 T3 

Dora Markus

Le occasioni


La poesia viene composta in due periodi tra loro distanti. La prima parte risale al 1926-1928, quando l’amico Roberto Bazlen invia a Montale una fotografia che ritraeva il dettaglio delle gambe di una donna: dall’immagine nasce il fantasma irrequieto e affascinante dell’ebrea austriaca Dora, al quale nella seconda parte del testo – composta nel 1939 – si sovrappone il ricordo di altre donne conosciute dal poeta, mentre l’ambientazione passa da Ravenna alla Carinzia, su cui si allunga l’ombra del nazismo.


METRO Versi liberi, con prevalenza di endecasillabi nella prima parte, di ottonari e novenari nella seconda.

        I
        Fu dove il ponte di legno
        mette a Porto Corsini sul mare alto
        e rari uomini, quasi immoti, affondano
        o salpano le reti. Con un segno
5     della mano additavi all’altra sponda
        invisibile la tua patria vera.
        Poi seguimmo il canale fino alla darsena
        della città, lucida di fuliggine,
        nella bassura dove s’affondava
10   una primavera inerte, senza memoria.

        E qui dove un’antica vita
        si screzia in una dolce
        ansietà d’Oriente,
        le tue parole iridavano come le scaglie
15   della triglia moribonda.

        La tua irrequietudine mi fa pensare
        agli uccelli di passo che urtano ai fari
        nelle sere tempestose:

 >> pag. 845 

        è una tempesta anche la tua dolcezza,
20   turbina e non appare,
        e i suoi riposi sono anche più rari.
        Non so come stremata tu resisti
        in questo lago
        d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
25   ti salva un amuleto che tu tieni
        vicino alla matita delle labbra,
        al piumino, alla lima: un topo bianco,
        d’avorio; e così esisti!

        II
        Ormai nella tua Carinzia
30   di mirti fioriti e di stagni,
        china sul bordo sorvegli
        la carpa che timida abbocca
        o segui sui tigli, tra gl’irti
        pinnacoli le accensioni
35   del vespro e nell’acque un avvampo
        di tende da scali e pensioni.

        La sera che si protende
        sull’umida conca non porta
        col palpito dei motori
40   che gemiti d’oche e un interno
        di nivee maioliche dice
        allo specchio annerito che ti vide
        diversa una storia di errori
        imperturbati e la incide
45   dove la spugna non giunge.

        La tua leggenda, Dora!
        Ma è scritta già in quegli sguardi
        di uomini che hanno fedine
        altere e deboli in grandi
50   ritratti d’oro e ritorna
        ad ogni accordo che esprime
        l’armonica guasta nell’ora
        che abbuia, sempre più tardi.

 >> pag. 846 

        È scritta là. Il sempreverde
55   alloro per la cucina
        resiste, la voce non muta,
        Ravenna è lontana, distilla
        veleno una fede feroce.
        Che vuole da te? Non si cede
60   voce, leggenda o destino…
        Ma è tardi, sempre più tardi.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il ritratto di Dora Markus – una delle più suggestive e complesse figure femminili nella vita di Montale – si fonda sulla contraddizione esistenziale che la vede divisa tra irrequietudine (v. 16) e impassibilità, tra l’ansia che intimamente la consuma e il lago / d’indifferenza (vv. 23-24) in cui sprofonda la sua vita, priva di certezze e speranze.
Nello scenario adriatico di una Ravenna fuligginosa e bizantina Montale ritrae una «vita strozzata», senza vie d’uscita. Simile agli uccelli migratori, che nelle tempeste sbattono contro i fari, ingannati dalla luce, Dora ricorre, come antidoto al lago d’indifferenza che ha nel cuore, a un talismano: un topolino bianco d’avorio conservato in mezzo al necessario per il trucco, uno dei tanti oggetti-emblema della poesia di Montale, il cui significato non è sempre precisabile in maniera univoca.

Nella seconda parte della lirica il poeta allontana la figura della donna. La immagina nella natìa Carinzia, la patria al di là del mare che a Ravenna vagheggiava, e trasferisce dalla donna al paesaggio il contrasto tra la serenità delle apparenze e la realtà drammatica nascosta dentro di esse. Dietro la maschera di un placido villaggio montano, affacciato su un lago, traspare la minaccia del nazismo. Dora, ebrea nata nell’Impero asburgico, diviene così l’emblema della vecchia Europa che si avvia alla definitiva distruzione nel rogo della Seconda guerra mondiale. L’irrequietudine si è tramutata in rassegnazione. Osservata dagli avi, ritratti in vecchi quadri polverosi, Dora è sola con i suoi ricordi, mentre fuori una fede feroce (v. 58), ossia l’ideologia nazista, distilla / veleno (vv. 57-58). Il mondo a cui apparteneva non esiste più. Si fa tardi, sempre più tardi (v. 61): è giunta l’epoca dei pogrom antisemiti, della Notte dei cristalli, dei campi di concentramento. Nessun amuleto potrà salvarla.

 >> pag. 847 

Le scelte stilistiche

Fedele alla poetica della sua seconda stagione, Montale sceglie qui di tacere l’occasione (vera o inventata) descritta nel componimento. Propone dunque in apertura una ellissi* (Fu dove il ponte di legno…, v. 1), che precisa il luogo, ma lascia nell’ombra circostanze e ragioni dell’incontro con Dora, così come il tipo di rapporto che la lega al poeta. Né viene chiarito quali siano gli argomenti della loro conversazione.
Dora Markus è una lirica costruita con tocchi lievissimi: una mano che indica il mare, un galleggiante che sobbalza, i raggi del sole sui tigli, gemiti d’oche (v. 40) e motori in lontananza, il suono triste di un’armonica guasta (v. 52) che accompagna il calare delle tenebre. Tutto ciò aggiunge un velo di drammaticità alla tragedia che resta inespressa sotto la superficie del testo per balenare solo a tratti nei riferimenti al mondo animale: le parole di Dora cambiano tono repentinamente come le scaglie / della triglia moribonda (vv. 14-15); la sua irrequietudine (v. 16) porta il poeta a paragonarla agli uccelli di passo che urtano ai fari / nelle sere tempestose (vv. 17-18). Nasce da qui l’ossimoro* che riassume una condizione insanabilmente contraddittoria: è una tempesta anche la tua dolcezza, / turbina e non appare (vv. 19-20).

Infine è da notare l’attenzione con cui il poeta valorizza l’aspetto cromatico della rappresentazione: nella prima parte Ravenna appare lucida di fuliggine (v. 8), poi si screzia (v. 12), come le parole di Dora che iridavano (v. 14); nella seconda parte al colorismo degli esterni (le accensioni / del vespro, vv. 34-35; l’avvampo / di tende, vv. 35-36, riflesse nel lago) si oppone il bianco e nero degli interni, in cui le nivee maioliche (v. 41) dialogano con lo specchio annerito (v. 42) dal tempo.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Chi sono gli antenati di Dora?


2 Descrivi brevemente i due scenari in cui sono ambientate la prima e la seconda parte della poesia.

ANALIZZARE

3 Individua i rimandi al contesto storico presenti nella lirica.


4 Elenca i riferimenti a suoni e colori presenti nel componimento e mettili in relazione con l’atmosfera complessiva evocata dal poeta.

INTERPRETARE

5 Dora Markus ha una patria vera (v. 6)? Quale?


6 In che senso un topo bianco, / d’avorio (vv. 27-28) consente a Dora di esistere? Il poeta lo spiega oppure si limita a indicare genericamente questa possibilità?


7 Nel passaggio dalla prima alla seconda parte del componimento l’attenzione si sposta dal privato al pubblico, dall’interiorità alla Storia: come cambia di conseguenza l’immagine di Dora?


Le figure femminili

Buona parte dell’opera poetica di Montale si costituisce come lirica nella sua accezione tradizionale, ovvero come saluto, preghiera, invocazione del poeta a una donna, per lo più assente. Nel corso del tempo le sembianze di questo fantasma femminile conoscono cambiamenti radicali, ma tendono comunque a raggrupparsi in due grandi tipologie: nelle prime raccolte prevale la figura della donna angelicata, lontana, perduta, che indica un percorso esistenziale al poeta, il quale però è incapace di seguirla nonostante i suoi slanci. A partire da Satura si fa largo invece un’immagine di donna amica e complice, oltre che guida. In entrambi i casi Montale la descrive in forma di sineddoche o di metonimia: anziché fornirne ritratti particolareggiati, cioè, si concentra su alcuni elementi della fisionomia (in particolare gli occhi, la fronte, i capelli) o su alcuni oggetti caricati di affettività (gli orecchini, un braccialetto di giada, un topolino bianco d’avorio, un bulldog di legno, gli occhiali di tartaruga e così via). Spesso il nome delle ispiratrici è taciuto, modificato oppure celato in riferimenti a miti, animali, cose.

 >> pag. 848 

Gli Ossi di seppia sono forse la raccolta in cui il tema della donna appare meno trattato, per l’importanza preponderante che qui assume il confronto fra l’io e il mondo circostante. Tuttavia non mancano apparizioni significative, come quella di Esterina, che in Falsetto si tuffa in mare sotto lo sguardo del poeta, e soprattutto quella di Arletta, figura di giovane morta anzitempo, nella quale Montale riprende e aggiorna il modello della Silvia leopardiana.

Più articolato e vario è il panorama dei profili femminili riconoscibili nelle Occasioni. Oltre ad Arletta, che torna nella Casa dei doganieri, si incontrano donne irrequiete come Liuba, Gerti, Dora Markus, tutte di origine mitteleuropea e perciò emblemi di un’Europa ormai irriconoscibile, dopo la Grande guerra e l’avvento delle dittature. In loro il poeta proietta le proprie angosce, facendone delle sue controfigure.
Di genere del tutto diverso è invece il trattamento poetico di Irma Brandeis, che si pone al centro della raccolta e occupa un ruolo privilegiato anche nella Bufera e altro. La sua figura subisce un progressivo processo di sublimazione, fino ad assumere la forma di un angelo redentore: non a caso il nome che la designa, Clizia, è quello di una ninfa innamorata di Apollo, dio del Sole, e da questi trasformata in girasole.
La donna è ormai rientrata in America ed è quindi fisicamente lontana dal poeta; il suo profilo si riduce perciò a pochi tratti, ricordati o suggeriti appunto dalla trasposizione mitica e “metafisica”: la fronte incorniciata dalla frangia, lo sguardo abbagliante, le ali che riparano il poeta dalle bufere personali e storiche, un angelo, insomma, al quale vengono affidati compiti via via più impegnativi. Clizia diventa così una sorta di nuova Beatrice, chiamata non solo a dare un conforto al suo protetto e a mediare per lui con la divinità, ma a farsi emblema della capacità di resistere al male, in nome dei valori più alti della civiltà umanistica.

Alla fine degli anni Quaranta nella poetica di Montale si affaccia un nuovo personaggio, dai tratti più decisamente terrestri e sensuali: la Volpe, ovvero la poetessa Maria Luisa Spaziani, alla quale sono indirizzati i Madrigali privati, ultima sezione della Bufera e altro. In Satura compare infine la Mosca, vale a dire la moglie Drusilla Tanzi, alla quale – dopo la sua morte nel 1963 – Montale dedica le due serie di Xenia e, nelle opere successive, innumerevoli versi, in cui ricorda con ironia e affetto episodi minimi della loro vita in comune, rimpiangendo «il suo radar di pipistrello», ovvero l’invidiabile capacità di orientarsi e riconoscere – lei quasi cieca – gli inganni della realtà.

I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi