La civiltà moderna, la macchina e l’alienazione

Il primo Novecento – L'autore: Luigi Pirandello

 T3 

Mia moglie e il mio naso

Uno, nessuno e centomila, Libro I, cap. 1


Nell’incipit del romanzo il lettore viene immediatamente posto di fronte all’evento scatenante, dal quale deriverà una crisi esistenziale di enorme portata. Dopo il fulminante commento della moglie, nella vita di Vitangelo Moscarda nulla sarà più come prima, nemmeno il suo nome.

«Che fai?», mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti
allo specchio.
«Niente», le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo,
avverto un certo dolorino».
5 Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende».
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?».
E mia moglie, placidamente:
10 «Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra».

Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello,
almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui
m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono
tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme:
15 che cioè sia da sciocchi invanire1 per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e
inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse
subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende,2 me ne
levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così…
20 «Che altro?».
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi,
^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri
difetti…
«Ancora?».
25 Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la
destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora,
scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito
dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto,
30 ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto
ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver
motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi
difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza
35 mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, 

 >> pag. 591 

quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver
conto che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti
del marito».
40 Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero
fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare,
in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano3
giù per torto e sù per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori
ne paresse nulla.
45 «Si vede», voi dite, «che avevate molto tempo da perdere».
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sì, anche per l’ozio, non
nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai
miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato
con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne
50 di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi
presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo
aveva potuto ottenere da me.
E non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio
padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi
55 fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre più da vicino
a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli
altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me
intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un
mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
60 Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi,
o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano
passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza più di me.
M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando4 come tanti
cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano
65 stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun
carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro;
ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella
riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso
70 corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le
mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in
condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o
impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che
75 doveva guarirmene.

 >> pag. 592 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Come può, dopo un veloce scambio di battute con la moglie, sgretolarsi d’improvviso l’immagine che fino a questo momento Vitangelo Moscarda ha avuto di sé? Il naso – quel naso da sempre uguale a sé stesso, secondo il protagonista – viene sottoposto casualmente a un’analisi minuziosa e disgregante che, estesa ad altre parti del corpo, finisce per travolgere l’intera esistenza del protagonista, smantellando uno dopo l’altro i tratti della sua persona sociale.
Quest’inezia, questo difetto marginale, non compromette la piacevolezza dell’insieme (anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo, r. 30); eppure l’effetto è enorme, sproporzionato rispetto alla causa. Quel che sconvolge Vitangelo è il riconoscersi da sempre cieco di fronte a ciò che più di tutto dovrebbe conoscere: sé stesso, almeno nella veste esteriore del proprio corpo (le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe, rr. 70-71). Come appare davvero, all’esterno, la forma della nostra persona? La risposta di Pirandello è semplice ma devastante: in un’ottica relativista, ognuno vede e sente con i “propri” occhi e le “proprie” orecchie, attraverso il filtro di una soggettività che deforma il reale. Nessuno ha ragione e nessuno ha torto; per questo non può esserci “un solo” naso di Moscarda: esso è moltiplicato dagli sguardi degli altri, in un relativismo senza fine.

Si innesca così un meccanismo di riflessioni che sradicheranno, passo dopo passo, ogni certezza pazientemente costruita e depositata nel repertorio delle forme della vita sociale. Vitangelo Moscarda si è “infettato” irrimediabilmente (Cominciò da questo il mio male, r. 72): l’analisi spietata e minuziosa non lo abbandonerà più, fino a quando anche l’ultimo tassello della propria identità (il suo nome) non finirà fra le macerie del vecchio io.
Solo alla fine di questo percorso difficile e doloroso si offrirà una speranza di salvezza, come a dire che unicamente distruggendo l’immagine stereotipata del proprio io è possibile rinascere a una nuova vita. La presunta malattia mentale di Moscarda diviene così fonte di guarigione: Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene (rr. 72-75).

Fin dal primo capitolo del romanzo si trova una caratterizzazione abbastanza precisa delle attitudini psicologiche del protagonista. Parlando di sé, Vitangelo dipinge il ritratto di un inetto, indifferente e superficiale quando si tratta di occuparsi degli affari di famiglia: sbadato e inattivo, egli è un “pensatore” con la testa tra le nuvole (fatto per sprofondare […] in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro, rr. 41-42). Invece di seguire i consigli del padre, o meglio, seguendoli svogliatamente, Moscarda si attarda a osservare ogni sassolino (r. 56) in cui si imbatte durante le sue passeggiate. Il sassolino, però, è materia solo in apparenza insignificante (mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, rr. 56-58): in questa attenzione maniacale al particolare, il protagonista segue il canone dell’umorista, che scompone in minuscoli granelli il mondo circostante per osservarlo meglio e tentare di capirlo.

Le scelte stilistiche

La narrazione in prima persona, che permette all’autore di alternare racconto e riflessione, sfocia in una sorta di “flusso di coscienza” adatto alla forma teatrale. Il narratore, per esempio, si rivolge incessantemente a un pubblico chiamato all’ascolto («Si vede», voi dite, «che avevate molto tempo da perdere», r. 45): il monologo di Moscarda appare più un soliloquio recitato da un attore sul palcoscenico che una confessione intima che lasci emergere il subconscio della voce narrante.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 In quale atteggiamento è sorpreso Vitangelo Moscarda quando la moglie gli pone la fatidica domanda Che fai?


2 Al protagonista vengono fatti notare difetti fisici che non aveva mai visto prima. Come reagisce, in un primo momento?

ANALIZZARE

3 Individua le parole e le espressioni appartenenti a un lessico semplice e quotidiano.

INTERPRETARE

4 Perché la banale considerazione sul naso che pende verso destra innesca una reazione a catena dagli esiti catastrofici? Quanto influiscono le naturali inclinazioni del protagonista su questa crisi dalla portata universale? Si tratta solo della reazione di un uomo permaloso o di qualcosa di più complesso?

PRODURRE

La tua esperienza

5 L’evento scatenante della crisi di Vitangelo Moscarda è vicino al vissuto quotidiano di ciascuno di noi. L’esposizione al giudizio altrui si è moltiplicata oggi, con la diffusione dei social network, in modo esponenziale. Nelle reti sociali virtuali, potenzialmente infinite, l’immagine dell’io risulta scissa in modo ancora più drastico di quanto Pirandello avesse ipotizzato. Anche tu sei sensibile al giudizio degli altri? Come reagisci quando l’immagine di te che ti sei costruito mentalmente viene messa in discussione dai commenti di chi ti osserva? Scrivi un testo espositivo di circa 25 righe.


La civiltà moderna, la macchina e l’alienazione

Il rapporto di Pirandello con la civiltà moderna è contraddistinto da un atteggiamento di rifiuto, derivante in parte dall’originario radicamento dell’autore nella società contadina, in parte da una diffidenza, maturata criticamente, nei confronti dell’industrializzazione e della macchina.
Nella visione del mondo e nella stessa produzione letteraria di Pirandello gli sviluppi delle scienze applicate e le innumerevoli innovazioni tecniche d’inizio secolo costituiscono elementi stridenti, problematici. Al culto futurista della macchina egli contrappone una lucida consapevolezza dei risvolti negativi della trionfale celebrazione del “nuovo”. Velocità, potenza, produttività, energia: in nome di questi miti moderni si consuma quotidianamente, secondo l’autore, il sacrificio del sentimento, della coscienza e della memoria.

Luogo-simbolo di una meccanizzazione industriale fuori controllo è la città moderna, dalla quale Pirandello si sente insieme attratto e respinto. Nel Fu Mattia Pascal vengono descritte due città esemplari, Milano e Roma. Il protagonista prima si aggira spaesato tra la folla milanese, rintronato dal «frastuono» e dal «fermento continuo della città», stupito e inquieto di fronte allo sferragliare dei tram e all’abbagliante «miracolo» della luce elettrica, ma, in ultima analisi, non viene conquistato dal fascino della vita cittadina né è persuaso circa le possibilità di trovarvi una spontanea vivibilità. Si sposta successivamente a Roma, dove però gli sembra di trovare soltanto un passato di «cartapesta», il ricordo degli antichi fasti sgradevolmente mescolato ai primi accenni di modernità. Insomma l’umanità contemporanea è destinata a restare sospesa tra vecchio e nuovo, senza riuscire ad adattarsi a nessuna delle due dimensioni.

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Al centro della civiltà moderna, a guidare la corsa senza fine al progresso, si erge imperiosa la macchina. Prodotto della tecnologia che dovrebbe aiutare l’uomo, in realtà, secondo Pirandello, la macchina ha il carattere inquietante e minaccioso di un essere vampiresco e parassitario, che si ribella al suo creatore per soppiantarlo (il protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, per esempio, è consapevole del fatto che un giorno verrà sostituito da un congegno meccanico in grado di svolgere il suo lavoro).
Non a caso l’immaginario pirandelliano insiste molto sull’analogia macchina-mostro. L’autore dissemina ovunque metafore sulla fame, sulla digestione, sul fare a «pezzetti e bocconcini» quel poco di verità che è ancora possibile trovare nella società industriale e commerciale, e in particolare nella nuova industria d’intrattenimento, il cinema, che segna lo stupido trionfo della realtà artificiale su quella autentica.

Nel denunciare i rischi di omologazione connessi all’avvento della civiltà meccanizzata, Pirandello avverte il pericolo della mercificazione dell’opera d’arte. Grazie alla sua riproducibilità, consentita dalle moderne tecnologie (si pensi in particolare al cinema e alla fotografia), vengono irrimediabilmente intaccate l’unicità e l’irripetibilità del prodotto artistico.
Nel suo celebre saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) fornirà la spiegazione più completa di questo processo, citando proprio i Quaderni di Serafino Gubbio operatore nel suo discorso sulla demitizzazione della creazione estetica nella società di massa. L’opera d’arte, scrive Benjamin, ha perso la sua «aura», quell’aspetto indefinibile – e proprio per questo non riproducibile – che infonde un’anima viva a un semplice oggetto materiale. Ecco, la crisi dell’opera d’arte è vista da Pirandello proprio nell’occhio di vetro – vuoto e inanimato – dell’apparecchio cinematografico, in cui l’attore non può riflettersi e dunque riconoscersi. Privati del contatto con il pubblico, ma nemmeno compensati con una restituzione diretta della propria immagine (che avviene solo in un secondo momento, sullo schermo), gli attori non possono che finire per odiare la macchina da presa e il suo prodotto, perché «l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più». Questa riduzione della persona a oggetto, a immagine priva di vita, è il simbolo dell’alienazione dell’individuo moderno. L’insolenza dell’occhio di vetro diviene metafora della disumanità celata dietro il fascino della tecnica.

 T4 

Una mano che gira una manovella

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno primo


Il passo che segue costituisce l’inizio del romanzo. Si tratta di una sorta di presentazione dell’ambiente del cinema e del mestiere dell’operatore (il primo titolo del romanzo era Si gira…), in cui sono evidenziati i temi fondamentali dell’opera, sviluppati poi più ampiamente nel corso della narrazione.

I

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli
altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano
ciò che fanno.

 >> pag. 595 

In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano
5 e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci.
Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi
intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano.1 Taluni anzi si smarriscono in una
perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero
o m’aggredirebbero.
10 No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo
neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle
consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non
sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come
me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.
15 Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente
e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo
e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo
là. – No, caro, grazie: non posso! – Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare… – 
Alle undici, la colazione. – Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola… – Bel tempo,
20 peccato! Ma gli affari… – Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di corsa, a 

chi se n’è andato. – La bottega, la fabbrica, il tribunale… 
Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che
vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga,
ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe
25 trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato
da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile
raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra
facciamo un gesto da ubriachi.
– Svaghiamoci!
30 Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché
dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano
in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi,
i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di
35 quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per
ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo
della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non
abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a
sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato.
40 Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono
frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tumulto
della vita, traboccano giù,2 fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo
presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io – modestamente – sono
45 uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui
vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.

 >> pag. 596 

Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno
50 o due apparatori,3 secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma
con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori
debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla
55 macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore4 vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione
da svolgere.
Io domando al direttore:
– Quanti metri?
60 Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il
numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
– Attenti, si gira!
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori,
65 press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma
non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è
compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:
– Diciotto metri, – oppure: – trentacinque.
E tutto è qui.
70 Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
– Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?  

Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi;
occhi cilestri,5 arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un
sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella
75 domanda voleva dirmi:
«Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella.
Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso,
sostituito da un qualche meccanismo?».
Sorrisi e risposi:
80 – Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno
che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti
alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio
più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa:
trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si
85 svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso
modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non 
dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta –
anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma 
che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro 
90 signore, resta ancora da vedere.

 >> pag. 597 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il gesto di annotare su alcuni quaderni le sue considerazioni sulla realtà rappresenta, per l’operatore cinematografico Serafino Gubbio, il tentativo di sfuggire all’alienazione di un lavoro puramente meccanico. L’incipit del romanzo (Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, r. 1) rivela subito una caratteristica fondamentale dell’opera: la presenza di un narratore dotato di una vocazione filosofica. Non ci si deve pertanto aspettare un racconto coerente e compiuto, ma un saggio-studio in cui le vicende narrate sono condizionate dalla voce narrante. Questo personaggio, che appare persino privo di una precisa fisionomia, diviene quasi puro pensiero, proprio in conseguenza del fatto che la sua fisicità è stata ridotta ad appendice pseudovivente di una macchina da presa, a “protesi” umana di un congegno meccanico.

Abituato, per la sua professione, a tenere sotto controllo passioni e sentimenti (l’operatore non deve partecipare all’azione, ma solo registrarla fedelmente), Serafino sceglie come narratore di indossare consapevolmente la «maschera dell’impassibilità», non per denunciare la corruzione e i difetti di una specifica realtà – come avrebbe fatto uno scrittore naturalista o verista – ma per rivelare che uno «studio senza passione» è forse l’unica vera salvezza rimasta all’individuo alienato dalla modernità; solo in questo modo, infatti, egli può recidere ogni legame con la falsa realtà in cui è immerso.
Proprio perché si rifiuta di partecipare emotivamente alla vita falsa che è costretto a registrare, egli può guardarsi intorno inosservato e dipingere così ritratti grotteschi di quello che vede.

Chi aziona la manovella della macchina da presa può arrivare persino a credere, per un istante, di avere un qualche potere sugli attori (Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, rr. 64-65). Ma si tratta solo di un’illusione. Il suo ruolo non è indispensabile; anzi, ciò che rende umani (la ragione, i sentimenti) è ostacolo all’efficienza del suo gesto imperturbabile. Per essere impassibile, insomma, egli deve ridursi a parte meccanica di un apparecchio. Del resto è solo questione di tempo: presto, in un futuro totalmente meccanizzato, si troverà un modo per azionare la manovella automaticamente (La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere, rr. 87-90).

Serafino non è dunque altro che un piccolo ingranaggio che contribuisce a far funzionare la neonata industria cinematografica; dall’interno egli è in grado di osservare e giudicare questo primo esempio di intrattenimento in serie, volto a distrarre (Svaghiamoci!, r. 29) e a distendere gli animi affaticati dal ritmo convulso della vita moderna. Tuttavia, il riposo che l’individuo trova nelle sale cinematografiche è fittizio, essendo gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento (rr. 25-26) da non riuscire più a godere di un minuto di raccoglimento per pensare.

Le scelte stilistiche

L’uso del tempo presente, fin dall’inizio del romanzo, non indica alcuna contemporaneità fra storia e racconto, ma inscrive la dimensione del testo nella fredda impassibilità di un lavoro scientifico o teorico, in un presente quasi atemporale proprio della riflessione filosofica.

 >> pag. 598 

La prosa pirandelliana è comunque, come sempre, molto vicina alla realtà delle cose: dialoghi immaginari, monologhi, confessioni e riflessioni spezzano il discorso, scandendo un ritmo vario e incalzante, che rispecchia da vicino il pensiero tormentato della voce narrante.
A rendere lo stile ancora più concreto e vicino al reale contribuiscono gli inserti specifici del lessico cinematografico. L’attenzione minuziosa agli aspetti gergali dell’ambiente in cui si svolge la vicenda dà al lettore la sensazione di essere condotto per mano alla scoperta di un mondo nuovo. Il treppiedi a gambe rientranti su cui si colloca la macchina da presa, gli apparatori, il tappeto, la piattaforma, il lapis turchino con cui si segna il campo (rr. 49-53); e poi ancora le indicazioni tecniche sulla quantità di pellicola necessaria per girare una scena, la funzione del direttore e molti altri particolari costituiscono la materia prima di un romanzo che si può leggere anche come uno spaccato storico sul cinema nel 1915. L’intento di Pirandello, forse, è stato anche quello di dare testimonianza delle caratteristiche di un’arte ancora alle prime armi, cogliendola all’origine di un percorso che giunge fino ai nostri giorni.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Quali sono le conseguenze, secondo il protagonista, di una vita che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera (r. 37)?

ANALIZZARE

2 All’inizio del brano Serafino Gubbio parla del congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie (rr. 15-16) Come si manifesta, nelle righe successive, questa frenesia della vita moderna?

INTERPRETARE

3 Perché, nell’alienazione della civiltà moderna, gli svaghi sembrano a volte Più faticosi e complicati del lavoro (r. 30)?

PRODURRE

4 Qual è l’atteggiamento di Serafino Gubbio – e, dietro di lui, di Pirandello – nei confronti della civiltà delle macchine che si afferma all’inizio del Novecento? Prova a spiegarlo in un testo argomentativo di 30 righe a partire da un commento alla seguente frase: La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere (rr. 87-90).


5 Quali ritieni che siano oggi i pericoli connessi alla rapidità e alla qualità del flusso delle informazioni generato dallo sviluppo tecnologico degli ultimi dieci anni? Rispondi in un testo espositivo di circa 20 righe.


I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi