I colori della letteratura - volume 3

Il primo Novecento – L'opera: La coscienza di Zeno

 T6 

La morte del padre

Cap. 4


Tutto il quarto capitolo è incentrato sulla malattia e sull’agonia del padre, oltre che, di riflesso, sul rapporto conflittuale che Zeno ha sempre avuto con lui. Una sera il protagonista, rincasato più tardi del solito, trova il genitore che, piuttosto irrequieto, lo ha atteso per la cena. Nel colloquio che ne segue si profilano le differenze caratteriali tra il figlio e il padre: quest’ultimo vorrebbe comunicare a Zeno alcune verità importanti, ma sembra che gli manchino le parole. Dopo che entrambi sono andati a letto, quella notte stessa l’anziano è vittima di un serio malore, dal quale non si riprenderà più. Passano alcune settimane in cui alterna momenti di incoscienza ad altri di lucidità, fino alla notte in cui muore, nel brano qui antologizzato, su cui si chiude il capitolo.

La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per
l’infermiere. Lasciavamo fare all’ammalato quello che voleva, ed egli camminava
per la stanza nel suo strano costume,1 inconsapevole del tutto di attendere la morte.
Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto freddo. Io glielo impedii
5 ed egli m’obbedì subito. Un’altra volta, invece, l’infermiere che aveva sentita la
raccomandazione del medico, volle impedirgli di levarsi dal letto, ma allora mio
padre si ribellò. Uscì dal suo stupore,2 si levò piangendo e bestemmiando ed io
ottenni gli fosse lasciata la libertà di moversi com’egli voleva. Egli si quietò subito
e ritornò alla sua vita silenziosa e alla sua corsa vana in cerca di sollievo.
10 Quando il medico ritornò, egli si lasciò esaminare tentando persino di respirare
più profondamente come gli si domandava. Poi si rivolse a me:
«Che cosa dice?».
Mi abbandonò per un istante, ma ritornò subito a me:
«Quando potrò uscire?».
15 Il dottore incoraggiato da tanta mitezza mi esortò a dirgli che si forzasse di restare
più a lungo nel letto. Mio padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato, la mia
e quelle di Maria3 e dell’infermiere. Non credevo all’efficacia di quelle raccomandazioni,
ma tuttavia le feci mettendo nella mia voce anche un tono di minaccia.
«Sì, sì», promise mio padre e in quello stesso istante si levò e andò alla poltrona.
20 Il medico lo guardò e, rassegnato, mormorò:
«Si vede che un mutamento di posizione gli dà un po’ di sollievo».
Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire
indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi.
Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva
25 senza pace per la sua camera.
Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme
all’infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai.
Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò
lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne
30 il dolore, fu d’uopo4 che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.
L’infermiere mi disse:
«Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta
importanza!».

 >> pag. 541 

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto
35 ove, in quel momento, ansante5 più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso:
avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico.
Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla
mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii
40 mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante,
terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:
«Muoio!».
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione
della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me.
45 Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento
solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui
aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto.
Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se
avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e
50 la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione
ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi
in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:
«Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star
55 sdraiato!».
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non
farlo più:
«Ti lascerò movere come vorrai».
L’infermiere disse:
60 «È morto».
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non
potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era
sempre fuori di sensi,6 avesse potuto risolvere7 di punirmi e dirigere la sua mano
65 con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era
giusto? Pensai persino di dirigermi8 a Coprosich.9 Egli, quale medico, avrebbe potuto
dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo
anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione!
70 Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a
lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver
mancato di affetto per mio padre!10

 >> pag. 542 

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in
cucina, di sera, raccontava a Maria: «Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo
75 suo atto picchiò il figliuolo». Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.11
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere.
L’infermiere doveva anche avergli ravviata12 la bella, bianca chioma. La morte aveva
già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi,
potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano
80 pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo
sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che
m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono,
buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce.
85 Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto
il più debole e lui il più forte.
Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione13 della mia infanzia. Immaginavo
che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma
del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva14 tutto
90 ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e
celati15 come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni
pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a qualcuno16
giornalmente e ferventemente17 raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la
religione vera18 quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto
95 di cui qualche volta – raramente – non si può fare a meno.

 >> pag. 543 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

All’inizio del capitolo (qui non antologizzato), Zeno dichiara che la morte del padre è stata «l’avvenimento più importante della sua vita», «una vera, grande catastrofe». E poco più avanti spiega: «Il paradiso non esisteva più ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente».
Il rapporto tra Zeno e il padre era stato per molti anni di sostanziale indifferenza. Nel momento del trapasso, esso acquista invece grande importanza agli occhi del protagonista: il decesso del genitore lo trasporta infatti dal piano della quotidianità a quello degli echi profondi che quell’evento traumatico innesca. Le considerazioni di Zeno, narratore “inattendibile”, come al solito sono ambivalenti: propongono un’interpretazione dei fatti ma lasciano filtrare, al contempo, indizi che sembrano avallare un’interpretazione diversa o addirittura opposta.

Finché il padre era vivo, l’inettitudine di Zeno, che ancora si percepiva come “figlio”, poteva apparire come immaturità, ma con la sua morte essa si rivela nella sua essenza di sostanziale inadeguatezza alla vita e di inguaribile deficit esistenziale. Il rapporto è tra due personalità contrastanti: solido e borghesemente sereno il padre, nevrotico e inconcludente il figlio.
Non dobbiamo pensare però che questo contrasto sia assimilabile a quello, davvero aspro e insanabile, comune a molti altri scrittori, contemporanei o precedenti (si pensi a Leopardi o a Kafka, ► p. 470). In Svevo, infatti, il dissidio conserva qualcosa di ambiguo, di irrisolto: potrebbe essere quello che Freud ha chiamato “complesso di Edipo”, vale a dire, come già accennato, il desiderio inconscio del bambino di sbarazzarsi della figura del padre per non avere rivali nell’ottenere l’amore della madre. D’altro canto, Zeno non ha certo la natura del ribelle che reclama libertà e autonomia, mai negategli dal padre, ma soltanto la consapevolezza di essere un debole e un incapace.
Ciò che gli rende ostile la figura paterna è, in fondo, la stessa ragione per cui diffida di chiunque: lo considera giudice del proprio operato, un avversario sempre pronto a scrutarlo e colpevolizzarlo. In altri termini, nella contrapposizione generazionale affiorano il consueto egocentrismo di Zeno e quella sua tendenza all’autocommiserazione che lo porta a nutrire, in ogni circostanza, sensi di colpa, aggressività latenti, autoaccuse e giustificazioni che sono vere e proprie scuse non richieste.
Ogni vicenda – a maggior ragione quelle tragiche – viene dunque rielaborata da un inconscio che gli fa ingigantire i fatti della vita in un’ottica esclusivamente autoreferenziale. Per questo il suo pianto è più per sé stesso, destinato a rimanere solo, che per il padre, destinato a morire: Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera (rr. 22-25).

Allo stesso modo si può leggere la grande quantità di rimproveri e assoluzioni che il protagonista regala a sé stesso dopo la scena terribile (r. 28): mentre il figlio tenta di sollevarlo, con l’aiuto dell’infermiere, il padre sente la morte arrivare e alza, nell’ultimo spasmo dell’agonia, la mano alto alto (r. 48) lasciandola poi ricadere sul volto di Zeno. Di che cosa si è trattato? Di uno schiaffo? O di un movimento inconsulto? Nella prima ipotesi l’atto equivarrebbe a una punizione (r. 51): ma per quale colpa? E anche nel caso che si trattasse di un’azione irriflessa, la psicanalisi freudiana avverte che dietro ad atti apparentemente “gratuiti” si possono celare ragioni che affondano le radici nell’inconscio del soggetto che le compie. Anche in questo caso, dunque, potrebbe darsi che il padre avesse inconsciamente qualcosa da imputare al figlio; o, almeno, quest’ultimo potrebbe crederlo.
La prima spiegazione che Zeno dà a sé stesso – cioè che il padre si sentisse da lui impedito nei movimenti e che dunque fosse arrabbiato per questo (Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione!, rr. 68-70) – è soltanto un’ipotesi rassicurante, che però non elimina, a un livello più profondo, i suoi pressanti interrogativi.

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Non a caso, dopo che il padre si è accasciato privo di vita, Zeno gli dice piangendo: Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato! (rr. 54-55). E subito dopo il narratore (cioè lo stesso Zeno, che rievoca i fatti diversi anni più tardi) aggiunge: Era una bugia (r. 56). È vero, infatti, che il medico aveva prescritto il riposo a letto, ma è anche vero che Zeno ha interpretato quella richiesta in maniera forse troppo energica. Dietro l’alibi del dovere filiale (Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?, rr. 35-37) sembra celarsi un’altra motivazione: un’inconscia volontà del figlio di dominare e controllare il padre, mettendo in atto un’inversione di ruoli rispetto a quelli interpretati fino a quel momento, oppure – addirittura – di privare il padre dell’aria necessaria per poter respirare.

È a questo punto che scatta la reazione tipica di chi cerca di scacciare l’angoscia attraverso un’opera tutt’altro che innocente di idealizzazione: secondo quello che nella terminologia psicanalitica viene definito “processo di rimozione”, Zeno è portato a sublimare la figura paterna, cancellando contrasti e ambiguità e confezionando il ritratto trasfigurato di un uomo debole e buono (r. 81), alla cui superiorità il figlio ora si inchina, in un estremo e affettuoso – ma naturalmente menzognero – recupero della bontà, come sognando di tornare alla condizione di sottomessa ubbidienza (Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce, rr. 83-84).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Il brano si compone di una preparazione, di una scena centrale e di uno scioglimento. Individua i tre momenti e fai un breve riassunto di ciascuno.


2 Che ruolo hanno nella vicenda l’infermiere e il dottor Coprosich? Quali sentimenti Zeno nutre verso di loro?


3 Con quali sentimenti vive Zeno il momento della morte del padre?


4 Durante il funerale nella mente del protagonista si modifica l’immagine del padre: in che modo?

ANALIZZARE

5 Individua nel testo esempi di quell’uso impreciso oppure libresco della lingua italiana che a parere di molti studiosi connota lo stile sveviano (forme arcaiche, termini letterari, incertezze nell’uso delle preposizioni).

INTERPRETARE

6 Come possiamo spiegare i pianti di Zeno? Quali ne sono, a tuo avviso, le autentiche motivazioni?


7 Illustra il significato della seguente affermazione di Zeno: Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! (rr. 61-62).


I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi