Finché il padre era vivo, l’inettitudine di Zeno, che ancora si percepiva come “figlio”, poteva apparire come immaturità, ma con la sua morte essa si rivela nella sua essenza di sostanziale inadeguatezza alla vita e di inguaribile deficit esistenziale. Il rapporto è tra due personalità contrastanti: solido e borghesemente sereno il padre, nevrotico e inconcludente il figlio.
Non dobbiamo pensare però che questo contrasto sia assimilabile a quello, davvero aspro e insanabile, comune a molti altri scrittori, contemporanei o precedenti (si pensi a Leopardi o a Kafka, ► p. 470). In Svevo, infatti, il dissidio conserva qualcosa di ambiguo, di irrisolto: potrebbe essere quello che Freud ha chiamato “complesso di Edipo”, vale a dire, come già accennato, il desiderio inconscio del bambino di sbarazzarsi della figura del padre per non avere rivali nell’ottenere l’amore della madre. D’altro canto, Zeno non ha certo la natura del ribelle che reclama libertà e autonomia, mai negategli dal padre, ma soltanto la consapevolezza di essere un debole e un incapace.
Ciò che gli rende ostile la figura paterna è, in fondo, la stessa ragione per cui diffida di chiunque: lo considera giudice del proprio operato, un avversario sempre pronto a scrutarlo e colpevolizzarlo. In altri termini, nella contrapposizione generazionale affiorano il consueto egocentrismo di Zeno e quella sua tendenza all’autocommiserazione che lo porta a nutrire, in ogni circostanza, sensi di colpa, aggressività latenti, autoaccuse e giustificazioni che sono vere e proprie scuse non richieste.
Ogni vicenda – a maggior ragione quelle tragiche – viene dunque rielaborata da un inconscio che gli fa ingigantire i fatti della vita in un’ottica esclusivamente autoreferenziale. Per questo il suo pianto è più per sé stesso, destinato a rimanere solo, che per il padre, destinato a morire: Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi
avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che
sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera (rr. 22-25).