I colori della letteratura - volume 3

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga

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Rosso Malpelo

Vita dei campi


Primo testo verista verghiano, la novella è pubblicata in quattro puntate nell’agosto del 1878 nel supplemento domenicale del quotidiano romano “Fanfulla”, e sarà inserita due anni dopo nella raccolta Vita dei campi. La vicenda vede come protagonista un ragazzo impiegato nel duro lavoro di una cava, disprezzato da tutti e costretto a confrontarsi senza consolazioni con la violenza che domina i rapporti umani e la realtà.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché
era un ragazzo malizioso e cattivo,1 che prometteva di riescire2 un fior di birbone.
Sicché tutti alla cava della rena3 rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre
col sentirgli dir sempre a quel modo4 aveva quasi dimenticato il suo nome di
5 battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse
un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore
gli faceva la ricevuta a scapaccioni.5
10 Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e
in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe
voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso,6 e lo accarezzavano
coi piedi,7 allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
15 mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio8 la loro minestra,
e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello9 fra
le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue
pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo,10 e gli tiravan dei sassi, finché il
soprastante11 lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei12 c’ingrassava fra i calci13
20 e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre
cencioso e lordo14 di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa,15 e aveva altro
pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica16 per tutto Monserrato17 e
la Carvana,18 tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di Malpelo”,
e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e
25 perché mastro Misciu,19 suo padre, era morto nella cava.

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo,
di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva
più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra20 di rena. Invece

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mastro Misciu sterrava21 da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata
30 del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione22 come mastro Misciu
aveva potuto lasciarsi gabbare23 a questo modo dal padrone; perciò appunto lo
chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto24 di tutta la cava. Ei, povero
diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi25 il pane colle sue braccia,
invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio
35 come se quelle soperchierie26 cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era
aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va’ là, che tu non ci morrai nel
tuo letto, come tuo padre».
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché27 fosse una buona
bestia. Zio Mommu28 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe
40 tolto per venti onze,29 tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle
cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.
Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria
era suonata30 da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e
se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone,
45 e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio.31 Ei, che c’era avvezzo alle beffe,
non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in
pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la
gonnella di Nunziata!»32 e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i
denari del suo appalto – il cottimante!33
50 Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava
al pari di un arcolaio;34 ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa,
contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi!
anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone,
il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava
55 dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto
dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo,
che si era voltato a riporre i ferri35 nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato,
come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.
Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i
60 lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona
con un trono, perch’era gran dilettante.36 Rossi rappresentava l’Amleto, e c’era un
bellissimo teatro.37 Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato,
che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia
ch’era toccata a comare Santa,38 la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva

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65 i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era
accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro
ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento,39 ma passarono altre due ore, e
fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto
ci voleva una settimana.
70 Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta
fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere
il doppio di calce.40 Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare
di mastro Bestia!
L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia;41 e gli altri minatori si strinsero
75 nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran
chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla
di umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!». «To’!», disse lo sciancato «è
Malpelo! Da dove è venuto fuori Malpelo? Se tu non fossi stato Malpelo, non te la
saresti scappata,42 no!». Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea
80 il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio43 duro a mo’ dei gatti. Malpelo non
rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena,
dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col
lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati,44 e tale schiuma alla
bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte
85 in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più
graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per
tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando
ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non si
90 può andare a cercarlo di qua e di là.45 Anzi non volle più allontanarsi da quella
galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul46
petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa
in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche
cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna
95 di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che
non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il
cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro
il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta,47 sopportava tutto
lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della
100 zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!».
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava
al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo
che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva
una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba,
105 o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti

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ei si pigliava le busse48 senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che
curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura
crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che
s’immaginava49 gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano
110 diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano
fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era
solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché
ei non faceva così!». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con
un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarì!».50 E un’altra volta, dietro allo
115 sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!».

Per un raffinamento51 di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero
ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da
un ponte52 s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto,
quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava
120 ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano
messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo
pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di
tiranneggiarlo, dicevano.53
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza
125 misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore
accanimento, e gli diceva: «To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo54 di
difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da
questo e da quello!».
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici:
130 «Così, come ti cuocerà55 il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!». Quando
cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare
gli zoccoli, rifinito,56 curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva
senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi
e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma
135 stremo57 di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il
quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora
confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei
potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».
Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi;
140 così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro,58 e ne avrai tanti di meno
addosso».
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’
di uno che l’avesse59 con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli
ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce;
145 «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte,

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o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva
sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena
se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio
150 piagnuccolava a guisa di60 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo
sgridava: «Taci pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano,
dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli
dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva
nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».
155 Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile,
o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi,
colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era
avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva
che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non
160 costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento,
con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò
ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se
non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro
sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava
165 piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e
nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto
di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua
fosse salvatichezza o timidità.61 Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta
mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

170 Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini
e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano62 addosso da ogni parte, la
sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese,63 ché
avrebbe fatto scappare il suo damo64 se avesse visto che razza di cognato gli toccava
sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a
175 rannicchiarsi sul suo saccone65 come un cane malato. Adunque, la domenica, in
cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a
messa o per ruzzare66 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar
randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali
non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro
180 le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,67 come
dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi
dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le
gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati
185 e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e
sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere
persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano68 se vedevano
il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza

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uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan
190 colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o
tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja,69 a strangolarli; ma pel lavoro che
hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se
veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla
fune,70 e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
195 Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare
cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla
schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena
della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe,71 colla pipa in bocca, e andava
tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe
200 voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti
carrubbi,72 e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma
quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando
a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e
dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa
205 in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di
sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni
di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era
stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava
sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a
210 destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse
sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara73
nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti
tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano
ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza
215 poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro
Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi,
proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento.74 Però non si poterono
trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici75
220 asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era
rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente76
come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le
scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder
225 comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi
un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un
altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni
dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso
bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto

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230 stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva
seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato
istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie
rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!», ripeteva lo sciancato, «ei scavava di qua,
mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione
235 che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava
dalla rena caduta e dagli asini morti, ché77 stavolta oltre al lezzo del carcame,78
c’era che il carcame era di carne battezzata;79 e la vedova rimpiccolì i calzoni e
la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima
240 volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi
le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute
di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva
che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i
245 capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo,
sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava
in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra,
e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle
ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.80
250 Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone
e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per
l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati
come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico
colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti
255 di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era
andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa», brontolava Malpelo; «gli arnesi
che non servono più si buttano lontano». Ei andava a visitare il carcame del grigio
in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe
260 voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere
in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di
un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le
carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano
ustolando81 sui greppi82 dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li
265 scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera», gli diceva, «che non ha paura delle tue
sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!». Adesso
non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese,
e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le
ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la
270 schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in
corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose!

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Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche,83 e anch’esso quando
piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle
occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora
275 gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con
quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva
e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un
uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro
280 che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta
scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una
volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi,
e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva
udirlo. «Egli solo ode le sue stesse grida!», diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il
285 cuore più duro della sciara, trasaliva.
«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma
io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà».
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla
sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo,
290 stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a
godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto;84 perciò odiava le notti di luna,
in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente
– allora la sciara sembra più brulla e desolata. «Per noi che siamo fatti per vivere
sotterra», pensava Malpelo, «ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto». La civetta
295 strideva sulla sciara, e ramingava85 di qua e di là; ei pensava: «Anche la civetta
sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli».
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava
perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino
grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano
300 più il dolore di esser mangiate.
«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti», gli diceva, «e allora era tutt’altra
cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver
paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno
volentieri in compagnia dei morti».
305 Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero
a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno
a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori.
«Chi te l’ha detto?», domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva
detto la mamma.
310 Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da
monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei
calzoni, tu dovresti portar la gonnella».
E dopo averci pensato su un po’:
«Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano
315 Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni
qui che ho indosso io».

 >> pag. 153 

Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in
modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe,86
tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo
320 non ne avrebbe fatto osso duro87 a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera
senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di
esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti
quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua
maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio
325 fu colto da uno sbocco di sangue,88 allora Malpelo spaventato si affannò
a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea
potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava
dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente,
gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo,
330 eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse:
«Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!».
Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre
tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli
del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo
335 coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse,
e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo89 della febbre, né con sacchi, né
coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.90 Malpelo se ne stava
zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei
suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto,91 e allorché lo udiva gemere
340 sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello
dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli
borbottava: «È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che
tu crepi!». E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel
ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
345 Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne
lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che
d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero
Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il
suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
350 Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché
sua madre strillasse a quel modo, mentre che92 da due mesi ei non guadagnava nemmeno
quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava
che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto.93 Allora il Rosso si diede ad
almanaccare94 che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo
355 era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che
non si slattano95 mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre
non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta

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adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate
360 del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio
non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato
così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo
s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata
un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali;96 anche la sorella si era maritata e avevano
365 chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e
a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non
avrebbe sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si
teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato
370 dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e
degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si
mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e
guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata
375 la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò
chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di
stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva
tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si
fanno mettere in prigione?», domandò Malpelo.
380 «Perché non sono malpelo come te!», rispose lo sciancato. «Ma non temere, che
tu ci andrai e ci lascerai le ossa».

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso.
Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col
pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata
385 una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era
il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia
voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo per
tutto l’oro del mondo.
Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per
390 la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata
e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La
porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese
al chiodo; perciò gli commettevano97 sempre i lavori più pericolosi, e le imprese
più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente
395 per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne98 del
minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al
buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto
a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna,
il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
400 Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la
voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire
dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi