Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Italo Calvino

LETTURE critiche

Realtà e fantasia nell’opera di Calvino

di Antonia Mazza

Calvino è un autore multiforme e dalle molte facce, che corrispondono alle diverse, successive fasi della sua produzione. La studiosa Antonia Mazza (1934-2005) ripercorre l’opera calviniana identificando quale sua costante una caratteristica già presente nel libro d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, vale a dire la compresenza di realismo e dimensione fantastica, di realtà esterna e realtà interiore.

Calvino. Calvino e il realismo. Calvino e la fiaba. Ovvero: Calvino e l’impegno, Calvino e il disimpegno. Si può dire che Pavese per primo, presentando nel 1947 Il sentiero dei nidi di ragno, abbia assegnato all’interpretazione del giovanissimo scrittore ligure due direttive destinate a essere puntualmente riprese da tutta la critica; due antitetici termini di un’avventura narrativa tutto sommato non facile né facilmente definibile.
Se infatti l’intuizione di Pavese coglieva nel segno, o addirittura – vista a distanza di tanti anni – rivelava qualcosa di profetico là dove parlava di «sapore ariostesco» della pagina di Calvino, l’ispirazione e la scrittura calviniana sono troppo complesse perché si possa concepirle soltanto come oscillanti fra quei due poli, o distinte di volta in volta dal prevalere dell’un polo sull’altro. Scrittore notissimo, persino a livello scolastico (avendo, come si sa, ridotto per le Medie alcuni dei propri testi), Calvino in definitiva è ancora abbastanza incompreso dal pubblico medio. O forse non si è abbastanza indagato sulle origini del suo narrare, paghi come si è di solito, della suggestiva formula scaturita a suo tempo in ambiente neorealista per vedere di «integrare» un narratore che tutto era fuorché neorealista. E trattandosi di formula, oltre che suggestiva, agevole per non dir comoda, non pochi manuali se la tramandano senza verifiche: né c’è da stupirsene, se si pensa che con spensieratezza anche maggiore si tramandano persino errori biografico-anagrafici, come quello che vorrebbe Calvino nato a San Remo invece che in un sobborgo dell’Avana.
Non che manchino gli studi su Calvino. Anzi. Critici, marxisti e no; studiosi di linguistica e di stilistica; formalisti e strutturalisti; moralisti: la bibliografia registra parecchie voci, e del resto l’opera dello scrittore si presta ad un’analisi multiforme. Ma è raro che l’analisi, sia che vada in senso stilistico che in senso socio-politico (e magari polemico), prescinda da quei termini, realismo e fiaba, o da altri che, anche più sapientemente scanditi, a quelli in sostanza si riconducono, e operano nel corpus calviniano una certa resezione,1 lasciando in disparte grossi ritagli che non si sa bene dove collocare.
Calvino, d’altro canto, quando parla di sé e del proprio lavoro, tende a riunirsi, non a dimezzarsi. Confessa la propria rinuncia al romanzo di tipo realista, riconosce al proprio linguaggio narrativo caratteri particolari, definisce con lucidità la propria posizione di intellettuale, ma senza ricorrere a una dicotomia che ormai, salvo eccezioni, si potrebbe chiamare tradizionale; e si limita a considerare «fortunata» la formula con la quale Vittorini accompagnò, nel risvolto di copertina, il «gettone» di Il visconte dimezzato: «realismo a carica fiabesca» e «fiaba a carica realistica».
Tentar di uscire dall’impasse critica, vuol dire riportarsi al primo Calvino, all’autore di quel Il sentiero dei nidi di ragno che non persuase né Vittorini né Giansiro Ferrata,2 e sul quale Pavese stesso non nascose qualche riserva. Come è noto, nel Sentiero lo scrittore ventitreenne riviveva la sua recente esperienza partigiana sulle aspre montagne liguri. La riviveva in una chiave che non voleva essere lirica, né tantomeno ermetica; e non riusciva a essere realista, o neorealista al modo, che so, di un Vittorini. Quale fosse l’incerta condizione degli intellettuali italiani, giovani o no, nel dopoguerra, è stato chiaramente, e in fondo malinconicamente, ricordato da Natalia Ginzburg (e le sue parole ci portano alla Torino di Einaudi, quella che ha, per così dire, tenuto a battesimo Calvino):

«Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino, dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano... Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni».3

Parole che valgono anche per un esordiente, come era allora Calvino. Ripudiato l’autobiografismo, i grandi modelli erano, oltre ai neorealisti italiani, i descrittori di una realtà epica quali Babel,4 o lo Hemingway di For Whom the Bell Tolls.5 Il problema era, ovviamente, di contenuto e di stile insieme. Ma Calvino non sarebbe mai stato autenticamente verista: 6 troppo forte era già in lui, fin da allora, la tendenza non già a osservare e far osservare al lettore una determinata realtà, bensì a giudicarla, quasi a pretenderla diversa, a riorganizzarla ostinatamente a modo suo.
Tutta la vicenda partigiana, nei suoi aspetti tragici come in quelli comici o tragicomici, è infatti raccontata, nel Sentiero, in funzione del ragazzetto Pin: e appunto in questo personaggio dovrebbe trovarsi concentrata la maggior carica di «fiabesco». La guerra, cioè, sarebbe vista da occhi infantili; diverrebbe, pur cruenta com’è una favola in cui il bambino si vede assegnato, inaspettatamente, un ruolo. Ma, a ben guardare, Pin non è tanto portavoce di un mondo infantile quanto piuttosto di un’adolescenza che l’autore vorrebbe evitar di evocare perché, nella sostanza se non nelle circostanze esteriori, è la sua.
A evitare, insomma, sospetti di soggettivismo, Calvino riversa nel personaggio di un bambino l’esperienza e le esigenze di un giovane. Esigenze di chiarezza, di giustizia, di purezza: morali, infine. Appare già nel Sentiero una costante, o quasi, della narrativa di Calvino: il rappresentare da un lato il mondo e dall’altro un suo implacabile quanto candido osservatore; da un lato storture e bassezze, dall’altro un «puro», un «diverso», un «giudice» irriducibile. Il ragazzo Pin o il barone rampante: espressioni, ambedue, del risentito moralismo calviniano, che ci pare sia nel complesso troppo poco tenuto presente dalla critica, mentre in fondo racchiude la matrice dello stile sempre un po’ deformante e ironico, svagato e severo insieme, dell’autore.
Pin, nonostante il gergo crudo e i gesti cinici, è un puro: quando canta, gli uomini dell’osteria «ascoltano in silenzio, a occhi bassi come fosse un inno di chiesa». Ma Calvino gli ha dato il disgusto, la rabbia, l’ingenua speranza di un giovane, non di un bambino. Se vogliamo cercare un esempio di autentica poesia dell’infanzia, di contro al mondo squallido e sciatto degli adulti; se pensiamo, ad esempio, al piccolo principe di Saint-Exupéry,7 che si muove in un silenzio astrale e veramente favoloso, allora ci parrà grande la distanza con il terreno, incomposto tumulto in cui vive Pin, che non riesce a staccarsene del tutto. Pin è un povero ragazzo che conosce solo il turpiloquio per esprimersi; che è attratto e insieme respinto da un mondo che gli si presenta solo, da sempre, sotto la specie del sesso e della violenza: «I compagni del distaccamento sono una razza ambigua e distante... con questa loro furia d’uccidere negli occhi e questa loro bestialità nell’accoppiarsi in mezzo ai rododendri».
Tuttavia, se non è più innocente, Pin è un puro, perché giudica senza lasciarsi corrompere; e quello che soprattutto tradisce in lui non già il bambino perduto nella favola ma il giovane severo, deciso a difendere una propria indipendenza morale, è la gioia che Calvino gli fa provare quando viene a sapere che il cugino, il grande amico, «l’ultima persona che gli resti al mondo», ha avuto schifo della prostituta Nera e se ne è andato «senza far niente». […]
Un severo moralismo giovanile scaturisce dall’opposizione Pin-mondo: e insieme a un gran senso di solitudine e di straniamento, una lucida coscienza e angoscia del male. Stilisticamente, il Sentiero è, almeno in parte, un coacervo di linguaggi giustapposti, dal verista al letterario, dal gergale all’ermetico («ci si sveglia... con una letizia come d’àncore salpate»): ma questa «opera prima» rimane straordinariamente interessante e rivelatrice proprio perché Calvino ha già trovato, con essa, lo stampo narrativo in cui riversarsi, per così dire, anche in seguito. Lo stampo che consenta di far coesistere realtà esterna e realtà interiore, realtà giudicata e realtà giudicante, quasi essere e dover essere, infine: il tutto senza cadere nella trappola (o avvertita come tale) di un esasperato soggettivismo di tipo decadente, ma anche allontanandosi dalla maniera neorealista.
In effetti, c’erano già le premesse per quelle opere del Calvino più maturo, che sono fluttuanti tra la narrazione e il saggio, l’operetta morale e la satira. Per il momento, pur con tutte le incertezze stilistiche, il Sentiero valeva in quanto il suo protagonista infantile contribuiva potentemente, anziché a comporre un’atmosfera fiabesca, alla scoperta di una dolorosa condizione umana.


Antonia Mazza, Italo Calvino, in Scrittori italiani, vol. 11, Edizioni di “Letture”, Milano 1989

I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi