La narrazione fantastica

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Italo Calvino

 T1 

La pistola del tedesco

Il sentiero dei nidi di ragno, cap. 2


Pin, piccolo garzone di calzolaio orfano di madre e dimenticato dal padre marinaio sempre in viaggio, vive tra i vicoli di un paese ligure con la sorella, una prostituta che spesso si vende a un soldato tedesco. Spinto dagli adulti dell’osteria nella quale trascorre molte ore del giorno cantando, facendo battute e dicendo cose oscene, Pin ruba la pistola al tedesco e la nasconde in un posto che solo lui conosce, lungo il sentiero dei nidi di ragno. In questo brano Pin, attraverso una fessura nel muro, spia nella camera della sorella: il suo sguardo vede gli abbracci della donna e del soldato e si posa sull’arma. Tutto l’episodio è inquadrato dal punto di vista del bambino, che fatica a capire il senso di molte cose: l’amplesso dei corpi, i discorsi degli uomini dell’osteria, il valore stesso da attribuire alla pistola, sempre in bilico tra oggetto reale e strumento magico.

In camera di sua sorella, a guardarci in quel modo, sembra sempre che ci sia la nebbia:
una striscia verticale piena di cose con intorno l’offuscarsi dell’ombra, e tutto
sembra cambi dimensioni se s’avvicina o s’allontana l’occhio dalla fessura. Sembra
di guardare attraverso una calza da donna e anche l’odore è lo stesso: l’odore di
5 sua sorella che comincia di là della porta di legno ed emana forse da quelle vesti
gualcite1 e da quel letto mai rifatto, rincalzato2 senza fargli prender aria.
La sorella di Pin è sempre stata sciatta3 nelle faccende di casa, fin da bambina:
Pin faceva dei grandi pianti in braccio a lei, da piccolo, con la testa piena di croste,
e allora lei lo lasciava sul muretto del lavatoio e andava a saltare con i monelli nei
10 rettangoli tracciati col gesso sui marciapiedi. Ogni tanto tornava la nave del loro
padre, di cui Pin ricorda solo le braccia, grandi, e nude, che lo sollevavano in aria,
forti braccia segnate da vene nere. Ma da quando la loro madre è morta, le sue venute
sono state sempre più rade, finché nessuno l’ha più visto; si diceva che avesse
un’altra famiglia in una città di là dal mare.
15 Ora, per abitarci, Pin più che una camera ha un ripostiglio, una cuccia al di
là d’un tramezzo4 di legno, con una finestra che sembra una feritoia, stretta e alta
com’è, e profonda nello sbieco del muro della vecchia casa. Di là c’è la camera di
sua sorella filtrata dalle fessure del tramezzo, fessure da farsi venire gli occhi strabici
a girarli per vedere tutt’intorno. La spiegazione di tutte le cose del mondo è lì
20 dietro quel tramezzo; Pin ci ha passato ore e ore fin da bambino e ci ha fatto gli
occhi come punte da spilli; tutto quel che succede là dentro lui lo sa, pure ancora
la spiegazione del perché gli sfugge e Pin finisce per aggomitolarsi5 ogni notte nella
sua cuccetta abbracciandosi il petto. Allora le ombre del ripostiglio si trasformano
in sogni strani, di corpi che s’inseguono, si picchiano e s’abbracciano nudi, finché
25 viene un qualcosa di grande e caldo e sconosciuto, che sovrasta su di lui, Pin, e lo
carezza e lo tiene nel caldo di sé, e questo è la spiegazione di tutto, un richiamo
lontanissimo di felicità dimenticata.
Ora il tedesco gira per la camera in maglietta, con le braccia rosee e cicciose
come cosce, e ogni tanto viene a fuoco della fessura;6 a un certo punto si vedono
30 anche le ginocchia della sorella che girano per aria ed entrano sotto le lenzuola.

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Pin ora deve contorcersi per seguire dove viene posato il cinturone con la pistola;
è lì appeso a una spalliera di seggiola come uno strano frutto e Pin vorrebbe avere
un braccio sottile come lo sguardo da far passare nella fessura, per prendere l’arma
e tirarla verso di sé. Ora, il tedesco è nudo, in maglietta, e ride: ride sempre quando
35 è nudo perché ha un fondo d’animo pudico, da ragazza. Salta nel letto e spegne
la luce; Pin sa che passerà un po’ di tempo così nel buio e in silenzio, prima che il
letto cominci a gemere.
Ora è il momento: Pin dovrebbe entrare nella camera scalzo e carponi e tirare
giù, senza far rumore, il cinturone dalla sedia: tutto questo non per fare uno
40 scherzo e poi ridere e canzonare, ma per qualcosa di serio e misterioso, detto dagli
uomini dell’osteria, con un riflesso opaco nel bianco degli occhi. Pure, a Pin piacerebbe
essere sempre amico con i grandi, e che i grandi scherzassero sempre con
lui e gli dessero confidenza. Pin ama i grandi, ama fare dispetti ai grandi, ai grandi
forti e sciocchi di cui conosce tutti i segreti, ama anche il tedesco, e ora questo sarà
45 un fatto irreparabile; forse non potrà più scherzare col tedesco, dopo questo; e
anche con i compagni dell’osteria sarà diverso, ci sarà qualcosa che li lega a loro su
cui non si può ridere e dire cose oscene, e loro lo guarderanno sempre con quella
riga diritta tra le sopracciglia e gli chiederanno a bassa voce cose sempre più strane.
Pin vorrebbe sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti e fantasticare, mentre
50 il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per un solletico sotto le ascelle,
fantasticare di bande di ragazzi che lo accettino come loro capo, perché lui sa
tante cose più di loro, e tutti insieme andare contro i grandi e picchiarli e fare cose
meravigliose, cose per cui anche i grandi siano costretti a ammirarlo ed a volerlo
come capo, e insieme a volergli bene e a carezzarlo sulla testa. Ma invece lui deve
55 muoversi nella notte solo e attraverso l’odio dei grandi, e rubare la pistola al tedesco,
cosa che non fanno gli altri ragazzi che giocano con pistole di latta e spade di
legno. Chissà cosa direbbero se domani Pin andasse in mezzo a loro, e scoprendola
a poco a poco mostrasse loro una pistola vera, lucida e minacciosa e che sembra
stia per sparare da sola. Forse loro avrebbero paura e anche Pin forse avrebbe paura
60 a tenerla nascosta sotto il giubbetto: gli basterebbe una di quelle pistole per bambini
che fanno lo sparo con una striscia di fulminanti rossi e con quella fare tanto
spavento ai grandi da farli cadere svenuti e chiedergli pietà.
Invece ora Pin è carponi sulla soglia della stanza, scalzo, con la testa già al di
là della tenda in quell’odore di maschio e femmina che dà subito alle narici. Vede
65 le ombre dei mobili nella stanza, il letto, la sedia, il bidè bislungo7 con le gambe a
trespolo. Ecco: dal letto ora comincia a sentirsi quel dialogo di gemiti, ora si può
avanzare carponi badando di far piano. Però forse Pin sarebbe contento che il pavimento
scricchiolasse, il tedesco sentisse e tutt’a un tratto accendesse la luce, e lui
fosse obbligato a scappare scalzo con sua sorella dietro che gli grida: Porco! E che
70 tutto il vicinato sentisse e se ne parlasse anche all’osteria, e lui potesse raccontare
la storia all’Autista e al Francese,8 con tanti particolari da essere creduto in buona
fede e da far dire loro: – Basta. È andata male. Non ne parliamo più.
Il pavimento scricchiola difatti, ma molte cose scricchiolano in quel momento
e il tedesco non sente: Pin già è arrivato a toccare il cinturone, e il cinturone al

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75 contatto è una cosa concreta, non magica, e scivola giù dalla spalliera della sedia
in modo spaventosamente facile, senza nemmeno battere contro terra. Adesso «la
cosa» è successa: la paura finta di prima diventa paura vera. Bisogna aggomitolare
in fretta il cinturone intorno alla fondina, e nascondere tutto sotto il maglione
senza impastoiarsi9 braccia e gambe: poi tornare a quattro piedi sui propri passi,
80 pian piano e senza mai togliere la lingua di tra i denti: forse se si togliesse la lingua
di tra i denti succederebbe qualcosa di spaventoso.
Una volta fuori non c’è da pensare a tornare nella sua cuccetta, a nascondere la
pistola sotto il materasso come le mele rubate al mercato della frutta. Tra poco il
tedesco s’alzerà e cercherà la pistola e metterà tutto a soqquadro.
85 Pin esce nel carrugio:10 non è che la pistola gli bruci addosso; così nascosta nei
suoi vestiti è un oggetto come un altro e ci si può dimenticare d’averla; spiace anzi
questa propria indifferenza, e a ricordarsene Pin vorrebbe gli prendesse un brivido.
Una pistola vera. Una pistola vera. Pin cerca di eccitarsi col pensiero. Uno che ha
una pistola vera può tutto, è come un uomo grande. Può far fare tutto quello che
90 vuole alle donne e agli uomini minacciando d’ucciderli.
Pin ora impugnerà la pistola e camminerà sempre con la pistola puntata: nessuno
potrà togliergliela e tutti ne avranno paura. Invece ha sempre la pistola avvolta
nel gomitolo del cinturone, sotto il maglione e non si decide a toccarla, spera
quasi che quando la cercherà non ci sia più, si sia smarrita nel calore del suo corpo.
95 Il posto per guardare la pistola è un sottoscala nascosto dove ci si caccia per
giocare a rimpiattino,11 e arriva un riverbero di luce da un lampione guercio.12 Pin
svolge il cinturone, apre la fondina e con un gesto che sembra tiri un gatto per la
collottola estrae la pistola: è davvero grossa e minacciosa, se Pin avesse il coraggio
di giocarci farebbe finta che fosse un cannone. Ma Pin la maneggia come fosse una
100 bomba; la sicura, dove avrà la sicura?
Alla fine si decide a impugnarla, ma bada a non mettere le dita sotto il grilletto,
tenendo ben forte l’impugnatura; pure così si può impugnare bene e puntarla
contro quello che si vuole. Pin la punta prima contro il tubo della grondaia,
a bruciapelo sulla lamiera, poi contro un dito, un suo dito, e fa la faccia feroce
105 tirando indietro la testa e dicendo tra i denti: «la borsa o la vita», poi trova
una scarpa vecchia e la punta contro la scarpa vecchia, contro il calcagno, poi
nell’interno, poi passa la bocca dell’arma sulle cuciture della tomaia. È una cosa
molto divertente: una scarpa, un oggetto così conosciuto, specie per lui, garzone
ciabattino, e una pistola, un oggetto così misterioso, quasi irreale; a farli incontrare
110 uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si possono far loro recitare
storie meravigliose.
Ma a un certo punto Pin non resiste più alla tentazione e si punta la pistola
contro la tempia: è una cosa che dà le vertigini. Avanti, fino a toccare la pelle e sentire
il freddo del ferro. Si potrebbe posare il dito sul grilletto, adesso: no, meglio
115 premere la bocca della canna contro lo zigomo fino a farsi male, e sentire il cerchio
di ferro con dentro il vuoto dove nascono gli spari. A staccare l’arma dalla tempia,
di botto, forse il risucchio dell’aria farà esplodere un colpo: no, non esplode. Ora
si può mettere la canna in bocca e sentire il sapore sotto la lingua. Poi, cosa più

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paurosa di tutte, portarla agli occhi e guardarci dentro, nella canna buia che sembra
120 fonda come un pozzo. Una volta Pin ha visto un ragazzo che s’era sparato in
un occhio con un fucile da caccia, mentre lo portavano all’ospedale: aveva un gran
grumo di sangue su mezza faccia, e l’altra mezza tutta puntini neri della polvere.
Ora Pin ha giocato con la pistola vera, ha giocato abbastanza: può darla a quegli
uomini che gliel’hanno chiesta, non vede l’ora di darla. Quando non l’avrà più
125 sarà come se non l’avesse rubata e il tedesco avrà un bell’andare in bestia con lui,
lui lo potrà di nuovo prendere in giro.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

In tutto il romanzo Pin ha a che fare con il mondo “dei grandi”: la sorella, i soldati tedeschi, i frequentatori dell’osteria, gli uomini del distaccamento partigiano del Dritto (il comandante del gruppo di ribelli cui giungerà Pin). Il brano mostra come da questo rapporto il bambino sviluppi sentimenti e atteggiamenti contrastanti: da un lato, l’attrazione per i misteri e per le prodezze che, a suo vedere, appartengono soltanto all’universo adulto; dall’altro, la diffidenza verso un ambiente che non gli riconosce alcun ruolo e, allo stesso tempo, la paura di compiere davvero quel gesto (il furto della pistola) che lo proietterebbe direttamente all’altezza degli uomini dell’osteria, in una condizione di parità nei loro confronti.
Pin è convinto che gli adulti percepiscano la realtà con grande sicurezza e vivano la vita come un meccanismo perfetto e immodificabile; lui, al contrario, immerso in una dimensione infantile, stravolge la percezione delle cose, ingrandisce i particolari a discapito della visione generale, adatta gli eventi alla propria capacità di comprensione per collocarli nel campo del meraviglioso.

Nella seconda parte del brano, in particolare, si assiste a una trasposizione delle coordinate spazio-temporali e di quelle psicologiche in un’atmosfera favolosa e ambigua. Non a caso le strategie narrative adottate fanno diretto riferimento ai meccanismi che Vladimir Propp (1895-1970, linguista russo autore del fondamentale saggio Morfologia della fiaba, 1928) aveva individuato nelle fiabe russe di magia: ci sono l’Eroe (Pin), l’Antagonista (il tedesco), l’Aiutante (la sorella di Pin che, indirettamente, agevola il bambino nel rubare la pistola distraendo l’Antagonista), il Mandante (gli uomini dell’osteria), la Prova da superare, ossia l’Iniziazione (il furto), e l’ottenimento dell’Oggetto magico (la pistola, appunto).
Tuttavia il ricorso alla dimensione fiabesca non si risolve mai, per Calvino, in meccanica applicazione di regole generali, che anzi vengono spesso disattese. Il superamento della prova, per esempio, non appianerà la situazione: Pin non entrerà di diritto nel mondo degli adulti e la pistola stessa non verrà neppure esibita ai loro occhi, finendo anzi nelle mani del traditore Pelle. Allo stesso modo la sorella, che avrebbe potuto vestire i panni dell’Aiutante, si dimostrerà in realtà un personaggio negativo, da affiancare all’Antagonista e forse da punire, alla fine, con la morte.

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Le scelte stilistiche

Per descrivere l’esperienza collettiva della guerra, Calvino sceglie di adottare una focalizzazione dal basso: è il punto di vista di Pin, un bambino che vede e interpreta il mondo con una prospettiva diversa da quella degli adulti. Per ottenere tale ottica, l’autore ricorre ad accorgimenti stilistici ben individuabili in questo brano, come l’uso più frequente del tempo presente, che genera un livellamento prospettico delle azioni (per ben dodici volte compare l’avverbio di tempo ora, come se le azioni, invece di distribuirsi in un arco diacronico, fossero magicamente compresenti), e una sintassi che presenta caratteri propri del parlato (paratassi*, ripetizioni, frasi che spesso iniziano con la ridondante presenza del nome del protagonista: senza mai togliere la lingua di tra i denti: forse se si togliesse la lingua di tra i denti succederebbe qualcosa di spaventoso, rr. 80-81; Ora, per abitarci, Pin più che una camera ha un ripostiglio, r. 15; Ora il tedesco gira per la camera in maglietta, r. 28; Ora, il tedesco è nudo, r. 34). Per esprimere l’immaginifico punto di vista del bambino, inoltre, il narratore fa ricorso ad alcuni artifici retorici: perifrasi* (il cerchio di ferro con dentro il vuoto dove nascono gli spari, rr. 115-116), similitudini* (gli occhi come punte da spilli, rr. 20-21) e reticenze, per descrivere ciò che Pin non sa dire con parole più esatte (come l’atto sessuale tra la sorella e il tedesco: il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per un solletico sotto le ascelle, rr. 50-51).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Che tipo di rapporto vorrebbe avere Pin con i “grandi”? Quale immagine si è fatto del mondo adulto?


2 Che cosa fa Pin con la pistola, una volta al sicuro da sguardi indiscreti?

ANALIZZARE

3 Pin non possiede le parole “giuste” per indicare ciò che sta avvenendo tra la sorella e il soldato tedesco al di là del tramezzo, e fa quindi ricorso a metafore e a similitudini. Rintraccia nel testo la presenza di queste figure retoriche (oltre a quelle evidenziate nell’analisi).


4 Come spesso avviene nelle opere di Calvino, il senso della vista è preponderante nelle descrizioni. Individua nel testo tutte le spie lessicali che fanno riferimento alla vista, allo sguardo, agli occhi.

INTERPRETARE

5 Perché, una volta sottratta al soldato, la pistola sembra perdere in parte il proprio fascino?


6 Verso la pistola Pin ha un atteggiamento ambiguo, di attrazione-repulsione: desidera impadronirsene, ma poi ha fretta di disfarsene. Prova a dare una spiegazione di questo comportamento.


La narrazione fantastica

Dopo l’esordio neorealista, Calvino continua a dar seguito alla propria vocazione all’impegno intellettuale e filosofico soprattutto attraverso l’immaginazione e il travestimento fiabesco.
La fantasia e gli elementi surreali che contraddistinguono la trilogia dei Nostri antenati non sono però concepiti come un gioco o come ingenui strumenti di un frivolo intrattenimento letterario. Il racconto fantastico non è finalizzato all’evasione dalla realtà ma, al contrario, funziona come spiegazione del mondo e lettura della contemporaneità, attraverso il filtro di uno sguardo ironico e per mezzo di uno stile nitido ed essenziale.

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Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente recuperano la struttura narrativa della fiaba, senza però attingere alla sua funzione consolatoria, ma caricandola anzi della complessità dei rapporti sociali in cui l’individuo si trova immerso. Ciascuno di questi romanzi è basato su una figura di cui l’autore rovescia il significato al fine di farne una metafora della condizione umana: il visconte diviso da una cannonata finisce per acquistare una visione del mondo più chiara e coerente; il barone che ha scelto di vivere sugli alberi, apparentemente distante dalla realtà, partecipa agli eventi della Storia con maggiore intensità degli uomini comuni; il cavaliere senza corpo si dimostra efficiente e impeccabile nello svolgere la propria missione. Il motivo conduttore è quello della faticosa conquista della libertà in un universo alienante e irrazionale, che lo scrittore non rinuncia però a indagare, ancora fiducioso che l’intelletto umano possa garantire la conquista della dignità e della misura, strumenti essenziali del vivere civile.

Per quanto riguarda lo stile e i modelli letterari, la narrativa fantastica di Calvino non nasconde le numerose influenze della tradizione. Il motivo del dimezzamento del Visconte richiama le Avventure del barone di Münchhausen (1785) del tedesco (ma autore in inglese) Rudolf Erich Raspe (1736-1794), oltre che Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) dell’inglese Robert Louis Stevenson (1850-1894), ma anche suggestioni più popolari, come quelle dei fumetti (alcuni compagni di scuola dell’autore hanno rivelato che già al liceo Calvino aveva tentato alcune storie con personaggi “dimezzati”). I modelli più immediati del Barone sono invece i racconti filosofici di Voltaire, Denis Diderot e Jonathan Swift. Per il Cavaliere, infine, si possono individuare precedenti nel Don Chisciotte di Cervantes (Agilulfo e il suo scudiero Gurdulù ricordano il nobile spagnolo e il fedele Sancho Panza), oltre che nei poemi cavallereschi di Boiardo, Ariosto e Tasso.

 T2 

La gran banda dei ladruncoli di frutta

Il barone rampante, cap. 4


Il narratore, Biagio, racconta le prime avventure del fratello Cosimo, il quale, dopo aver trascorso la prima notte sugli alberi, comincia ad abituarsi alla sua nuova vita. Mentre si trova su un ciliegio, il barone sente delle voci provenienti dall’alto: è l’inizio della sua avventura.

Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia
che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna
senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo
d’Ombrosa1 da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo
5 i nostri posti erano nominati dappertutto.
Ora, già non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato quando vennero
i Francesi,2 a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e
poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone,
di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li
10 conoscevamo da prima, fa impressione.

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Allora, dovunque s’andasse, avevamo sempre rami e fronde tra noi e il cielo.
L’unica zona di vegetazione più bassa erano i limoneti, ma anche là in mezzo si
levavano contorti gli alberi di fico, che più a monte ingombravano tutto il cielo
degli orti, con le cupole del pesante loro fogliame, e se non erano fichi erano ciliegi
15 dalle brune fronde, o più teneri cotogni, peschi, mandorli, giovani peri, prodighi
susini, e poi sorbi, carrubi, quando non era un gelso o un noce annoso. Finiti gli
orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca3 a mezza costa.
In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche
lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante: lecci, platani, anche roveri,
20 una vegetazione più disinteressata e altera che prendeva sfogo – un ordinato sfogo
– nella zona dove i nobili avevano costruito le ville e cinto di cancelli i loro parchi.
Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato
su tutta la plaga,4 perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i
versanti fino sulla spiaggia del mare, e così i larici. Le roveri erano più frequenti
25 e fitte di quel che oggi non sembri, perché furono la prima e più pregiata vittima
della scure. Più in su i pini cedevano ai castagni, il bosco saliva la montagna, e non
se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo,
abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene.
Il primo che vi fermò il pensiero fu Cosimo. Capì che, le piante essendo così
30 fitte, poteva passando da un ramo all’altro spostarsi di parecchie miglia, senza bisogno
di scendere mai. Alle volte, un tratto di terra spoglia l’obbligava a lunghissimi
giri, ma lui presto s’impratichì di tutti gli itinerari obbligati e misurava le distanze
non più secondo i nostri estimi,5 ma sempre con in mente il tracciato contorto
che doveva seguire lui sui rami. E dove neanche con un salto si raggiungeva il ramo
35 più vicino, prese a usare degli accorgimenti; ma questo lo dirò più in là; ora siamo
ancora all’alba in cui svegliandosi si trovò in cima a un elce, tra lo schiamazzo degli
storni, madido di rugiada fredda, intirizzito, le ossa rotte, il formicolio alle gambe
ed alle braccia, e felice si diede a esplorare il nuovo mondo.
Giunse sull’ultimo albero dei parchi, un platano. Giù digradava la valle sotto
40 un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da qualche tetto d’ardesia, casolari
nascosti dietro le ripe come mucchi di sassi; un cielo di foglie alzate in aria dai fichi
e dai ciliegi; e più bassi prugni e peschi divaricavano tarchiati rami; tutto si vedeva,
anche l’erba, fogliolina a fogliolina, ma non il colore della terra, ricoperta dalle
pigre foglie della zucca o dall’accesparsi6 di lattughe o verze nei semenzai;7 e così
45 era da una parte e dall’altra del V in cui s’apriva la valle ad un imbuto alto di mare.
E in questo paesaggio correva come un’onda, non visibile e nemmeno, se non di
tanto in tanto, udibile, ma quel che se n’udiva bastava a propagarne l’inquietudine:
uno scoppio di gridi acuti tutt’a un tratto, e poi come un croscio8 di tonfi e forse anche
lo scoppio d’un ramo spezzato, e ancora grida, ma diverse, di vociacce infuriate,
50 che andavano convergendo nel luogo da cui prima erano venuti i gridi acuti. Poi
niente, un senso fatto di nulla, come d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspettarsi
non là ma da tutt’altra parte, e difatti riprendeva quell’insieme di voci e rumori,
e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre

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dove si muovevano al vento le piccole foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con
55 la parte della sua mente che veleggiava distratta – un’altra parte di lui invece sapeva e
capiva tutto in precedenza – formulò questo pensiero: le ciliege parlano.
Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso,
che Cosimo si dirigeva, e carichi di ciliege nere, ma mio fratello ancora non aveva
l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette
60 lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le ciliege
che c’erano sopra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe saputo spiegare come, parevano
convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege.
Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un
ciacc! Socchiuse le palpebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva) e
65 vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzi appollaiati.
Al vedersi visti non stettero più zitti, e con voci acute benché smorzate dicevano
qualcosa come: – Guardalo lì quanto l’è bello! – e spartendo davanti a sé le
foglie ognuno dal ramo in cui stava scese a quello più basso, verso il ragazzo col
tricorno in capo.9 Loro erano a capo nudo o con sfrangiati cappelli di paglia, e
70 alcuni incappucciati in sacchi; vestivano lacere camicie e brache; ai piedi chi non
era scalzo aveva fasce di pezza, e qualcuno legati al collo portava gli zoccoli, tolti
per arrampicarsi; erano la gran banda dei ladruncoli di frutta, da cui Cosimo ed io
c’eravamo sempre – in questo obbedienti alle ingiunzioni familiari – tenuti ben
lontani. Quel mattino invece mio fratello sembrava non cercasse altro, pur non
75 essendo nemmeno a lui ben chiaro che cosa se ne ripromettesse.
Stette fermo ad aspettarli mentre calavano indicandoselo e lanciandogli, in
quel loro agro sottovoce, motti come: – Cos’è ch’è qui che cerca questo qui? – e
sputandogli anche qualche nocciolo di ciliegia o tirandogliene qualcuna di quelle
bacate o beccate da un merlo, dopo averle fatte vorticare in aria sul picciòlo con
80 mossa da frombolieri.
– Uuuh! – fecero tutt’a un tratto. Avevano visto lo spadino che gli pendeva
dietro. – Lo vedete cosa ci ha? – E giù risate. – Il battichiappe!
Poi fecero silenzio e soffocavano le risa perché stava per succedere una cosa da
diventare matti dal divertimento: due di questi piccoli manigoldi,10 zitti zitti, si
85 erano portati su di un ramo proprio sopra a Cosimo e gli calavano la bocca d’un
sacco sulla testa (uno di quei lerci sacchi che a loro servivano certo per metterci il
bottino, e quando erano vuoti si acconciavano in testa come cappucci che scendevano
sulle spalle). Tra poco mio fratello si sarebbe trovato insaccato senza neanche
capir come e lo potevano legare come un salame e caricarlo di pestoni.
90 Cosimo fiutò il pericolo, o forse non fiutò niente: si sentì deriso per lo spadino
e volle sfoderarlo per punto d’onore. Lo brandì alto, la lama sfiorò il sacco, lui lo
vide, e con un’accartocciata lo strappò di mano ai due ladroncelli e lo fece volar via.
Era una buona mossa. Gli altri fecero degli «Oh!» insieme di disappunto e meraviglia,
e ai due compari che s’erano lasciati portar via il sacco lanciarono insulti
95 dialettali come: – Cuiasse! Belinùi!11
Non ebbe tempo di rallegrarsi del successo, Cosimo. Una furia opposta si scatenò
da terra; latravano, tiravano dei sassi, gridavano: – Stavolta non ci scappate,
bastardelli ladri! – e s’alzavano punte di forcone. Tra i ladruncoli sui rami ci fu un

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rannicchiarsi, un tirar su di gambe e gomiti. Era stato quel chiasso attorno a Cosimo
100 a dar l’allarme agli agricoltori che stavano all’erta.
L’attacco era preparato in forze. Stanchi di farsi rubar la frutta man mano che
maturava, parecchi dei piccoli proprietari e dei fittavoli della vallata s’erano federati
tra loro; perché alla tattica dei furfantelli di dar la scalata tutti insieme a un frutteto,
saccheggiarlo e scappare da tutt’altra parte, e lì daccapo, non c’era da opporre che
105 una tattica simile: cioè far la posta tutti insieme in un podere dove prima o poi sarebbero
venuti, e prenderli in mezzo. Ora i cani sguinzagliati abbaiavano rampando
al piede dei ciliegi con bocche irte di denti, e in aria si protendevano le forche da
fieno. Dei ladruncoli tre o quattro saltarono a terra giusto in tempo per farsi bucare
la schiena dalle punte dei tridenti e il fondo dei calzoni dal morso dei cani, e correre
110 via urlando e sfondando a testate i filari delle vigne. Così nessuno osò più scendere:
stavano sbigottiti sui rami, tanto loro che Cosimo. Già gli agricoltori mettevano le
scale contro i ciliegi e salivano facendosi precedere dai denti puntati dei forconi.
Ci vollero alcuni minuti prima che Cosimo capisse che essere lui spaventato
perché era spaventata quella banda di vagabondi era una cosa senza senso, com’era
115 senza senso quell’idea che loro fossero tanto in gamba e lui no. Il fatto che se ne
stessero lì come dei tonti era già una prova: cosa aspettavano a scappare sugli alberi
intorno? Mio fratello così era giunto fin lì e così poteva andarsene: si calcò il tricorno
in testa, cercò il ramo che gli aveva fatto da ponte, passò dall’ultimo ciliegio a un
carrubo, dal carrubo penzolandosi calò su di un susino, e così via. Quelli, al vederlo
120 girare per quei rami come fosse in piazza, capirono che dovevano tenergli subito
dietro, se no prima di ritrovare la sua strada chissà quanto avrebbero penato; e lo seguirono
zitti, carponi per quell’itinerario tortuoso. Lui intanto, salendo per un fico,
scavalcava la siepe del campo, calava su di un pesco, tenero di rami tanto che bisognava
passarci uno alla volta. Il pesco serviva solo ad aggrapparsi al tronco storto
125 d’un olivo che sporgeva da un muro; dall’olivo con un salto s’era su una rovere che
allungava un robusto braccio oltre il torrente, e si poteva passare sugli alberi di là.
Gli uomini con le forche, che credevano ormai d’avere in mano i ladri di frutta,
se li videro scappare per l’aria come uccelli. Li inseguirono, correndo insieme ai
cani latranti, ma dovettero aggirare la siepe, poi il muro, poi in quel punto del torrente
130 non c’erano ponti, e per trovare un guado persero tempo ed i monelli erano
lontani che correvano.
Correvano come cristiani, con i piedi per terra. Sui rami c’era rimasto solo mio
fratello. – Dov’è finito quel saltimpalo12 con le ghette?13 – si chiedevano loro, non
vedendoselo più davanti. Alzarono lo sguardo: era là che rampava per gli olivi. –
135 Ehi, tu, cala dabbasso, ormai non ci pigliano! – Lui non calò, saltò tra fronda e
fronda, da un olivo passò a un altro, sparì alla vista tra le fitte foglie argentee.

I colori della letteratura - volume 3
I colori della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi