Il "pessimismo storico"
All'inizio della sua meditazione, fino alla cosiddetta "conversione filosofica" (1819), Leopardi si sofferma a riflettere sulla condizione esistenziale degli individui, caratterizzata da una profonda infelicità. Interrogandosi sulla natura e sull'origine di tale stato, egli contrappone l'età antica a quella attuale: mentre la prima si presenta ai suoi occhi come un'epoca ancora rasserenata dai sogni, dalle favole e dal contatto diretto con la natura, l'epoca contemporanea gli appare dominata dalla ragione che ha privato gli esseri umani della possibilità di illudersi e sperare, cancellando le consolazioni prodotte dalla «sterminata operazione della fantasia». Secondo Leopardi, gli antichi potevano aspirare alla felicità grazie all'immaginazione, all'ingenuità e agli slanci eroici e magnanimi, ispirati da generose illusioni. I moderni invece hanno irrimediabilmente perso tali capacità, imprigionati nell'angusta dimensione dell'«arido vero» e privati in tal modo della possibilità di risarcire la reale condizione di sofferenza con il confortante miraggio della gloria, dell'amicizia e della virtù.
L'infelicità non è quindi un dato intrinseco alla natura umana, ma è legata allo sviluppo, alla civiltà, al progresso: ha insomma un'origine storica. Pertanto la critica ha definito questa prima fase della parabola conoscitiva leopardiana come quella del "pessimismo storico": secondo una prospettiva che si richiama alla filosofia di Jean-Jacques Rousseau, alla natura vista come fonte benigna delle piacevoli illusioni che nascondono i dolori dell'esistenza, si contrappone la ragione, che con la sua indagine razionale e scientifica della realtà ha svelato all'uomo l'inconsistenza delle sue fantasticherie, sprofondandolo in un'angoscia senza rimedio e condannandolo a perdere l'innocenza, la spontaneità e, in ultima istanza, la stessa felicità. «La ragione è nemica d'ogni grandezza», scrive Leopardi in un brano dello
Zibaldone, datato 1817, poi aggiungendo che «pochi possono essere grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni».