Il primo Ottocento – L'opera: I promessi sposi

temi nel tempo

Il manoscritto ritrovato

Una parte considerevole della letteratura di ogni luogo e tempo si è servita dell’artificio del "manoscritto ritrovato" per mostrarsi più autentica e attendibile di quello che è realmente. Si tratta di un vero e proprio luogo comune: l’autore che simula di non esserlo e che, nel solo spazio che riserva a sé (per lo più la prefazione, vera e propria essenza della finzione), sostiene di essere un semplice, quasi meccanico editore di una storia pescata chissà dove. Che sia lo «scartafaccio» secentesco manzoniano o un Vangelo apocrifo, una corrispondenza epistolare o un diario intimo, spesso ci imbattiamo in questo artificio, con cui il fortunato e ambiguo ritrovatore decide di provare a far passare per verità quella cosa romanzesca che è, appunto, la letteratura.

Prestigio e declino del vescovo Turpino
L’abitudine risale addirittura ai primissimi secoli dopo Cristo con i romanzi alessandrini (un archetipo è rappresentato dalle Incredibili avventure al di là di Thule del romanziere greco Antonio Diogene,
I o II sec. d.C.) e si diffonde in seguito nelle narrazioni cortesi medievali e nell’epica cavalleresca rinascimentale, dove si ricorre spesso a Turpino, arcivescovo di Reims caduto a Roncisvalle e considerato come la fonte principale di tutto il ciclo carolingio. Chiamato in causa da anonimi cantari, ma anche da Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto, nel Cinquecento è Pietro Aretino (immagine a fianco) a sbugiardarlo come un «prete poltrone» e «cronachista ignorante», sconfessandone l’autorità.

Il piacere o la necessità di fingere
Tuttavia, anche in secoli successivi accade spesso che l’autore si diverta a eclissarsi, riservandosi lo spazio solo «per indicare i limiti della propria responsabilità e precisare le proprie competenze: raccontando in quali circostanze abbia ritrovato quell’opera (tradizionalmente manoscritta) e come, ritenutala meritevole di pubblicazione, l’abbia approntata per le stampe» (Farnetti). Per non sembrare falso, attribuisce così a un altro la paternità della propria scrittura, raccontando però una menzogna più grande, che rinnova quel sottile sentimento di inimicizia che di frequente separa la letteratura e la realtà.
Così troviamo tutta una serie infinita di alter ego, di testi fittizi e improbabili riscritture, come, all’inizio del Seicento, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (immagine a fianco, in alto) o come, nella seconda metà del Settecento, il cosiddetto «ciclo di Ossian», il leggendario bardo scozzese, eroe di antichi manoscritti, che James Macpherson (1736-1796, immagine a fianco, in basso), facendo finta di tradurre, inventa di sana pianta.
Proprio nel XVIII secolo la mistificazione è spesso necessaria: vi ricorrono polemisti che per difendersi da censure e inquisizioni politiche mettono in campo il loro ingegnoso inventario di anagrammi, nomi d’arte e semplici iniziali. Né gli scrittori romantici sono da meno, a partire dal loro “padre spirituale”: la pubblicazione delle epistole di un suicida idealista è infatti lo stratagemma adottato da Ugo Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1796-1817), pur sempre un modo di parlare di sé stessi fingendo di essere altri.

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Stratagemmi di ieri e di oggi
Del resto, le strategie per dissimulare l’inautenticità e l’arbitrio delle storie narrate sono sterminate. Quando il lettore disincantato ha incominciato a credere meno all’invenzione del manoscritto ritrovato, l’autore ha iniziato a occultarsi in altro modo: dagli pseudonimi ai diari, alle confessioni e alle carte false, tutte pratiche affini necessarie al travestimento o allo sdoppiamento dell’autore (ne è esempio il romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo, alias Ettore Schmitz, immagine a fianco, in alto).
Programmatico è il titolo che Grazia Deledda (immagine a fianco, in basso) dà a un suo racconto del 1923: Dichiarazioni (edito nella raccolta Il flauto nel bosco). La scrittrice sarda finge di raccogliere lettere indirizzate ad altri destinatari, che utilizza come vero e proprio materiale compositivo: «Nella cassetta delle lettere oggi ne ho trovato una portata a mano indirizzata a una distinta signorina mai vista né conosciuta in via Porto Maurizio, n. 15. Fatta una sommaria inchiesta e non avendo ritrovato questa signorina in tutta la contrada mi sono presa il diritto di aprire la lettera. Né me ne pento: perché la lettera contiene, sì, il segreto di un affare molto personale e privato; ma tale, nella sua essenza, da essere considerato pubblico e universale. È infine una lettera di amore, che ricopio qui fedelmente con la religione e il rispetto che le si devono».
E, a dimostrazione che anche le penne femminili non sono immuni dal fascino del testo pseudo-autografo, vale la pena di citare anche l’Autoritratto involontario che Gianna Manzini pubblica nel 1973 all’interno del volume di racconti Sulla soglia: a dichiarare di aver composto il documento è nientemeno che il pittore El Greco, alla cui firma («Domenico Theotocopuli el Greco») segue la dicitura «E per copia conforme Gianna Manzini».

Il vecchio manoscritto è sempre attuale
Eppure si sbaglia chi pensa che il vecchio manoscritto impolverato sia un artificio letterario da ricollocare in soffitta: perfino il cinico e smaliziato Novecento se ne è servito in metaromanzi e sofisticate narrazioni ambientate in epoche remote. È impossibile non pensare al Nome della rosa di Umberto Eco (1932-2016, immagine a fianco), che ritrova nei fogli del monaco Adso da Melk le avventure vissute da quest’ultimo quando era novizio, tanti anni prima, per scoprire la causa delle morti misteriose succedutesi in un monastero. E anche qui, per trovare il colpevole… bisogna tornare a un vecchio manoscritto.

I colori della letteratura - volume 2
I colori della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento