Storia e Provvidenza

Il primo Ottocento – L'autore: Alessandro Manzoni

 T3 

Lettera sul Romanticismo


Nel 1823 il marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, padre di Massimo (il quale più tardi diverrà genero di Manzoni, sposandone la primogenita Giulia), pubblica La Pentecoste sulla rivista "Amico d’Italia", che invia allo scrittore milanese, accompagnata da una lettera in cui predice al Romanticismo vita breve. Di lì a poco Manzoni gli risponde privatamente con la missiva nota come Lettera sul Romanticismo, in cui espone le proprie idee in merito alle polemiche tra Classicisti e Romantici. La lettera viene stampata nel 1846, contro la volontà dell’autore, che nel 1870 la rivedrà e pubblicherà nelle sue Opere varie. Qui si riprende il testo della prima e più incisiva stesura.

[...] Mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano
ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico.1 Il principio, di necessità
 tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la
poesia e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto
5 e l'interessante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la
massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità
e di affezione, nata da rapporti reali, a preferenza degli argomenti, pei quali una classe
sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una
riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente.2 E che in ogni argomento
10 debba cercare di scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come
fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello: giacché e nell'uno e nell'altro
ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto
dalla cognizione del vero; è quindi temporario3 e accidentale. Il diletto mentale non
è prodotto che dall'assentimento4 ad una idea; l'interesse, dalla speranza di trovare in
15 quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento, e di riposo: ora quando un
nuovo e vivo lume ci fa scoprire in quella idea il falso, e quindi l'impossibilità che la
mente vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l'interesse spariscono.
Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto; e questo diletto è tanto
più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che gusta è avanzata nella cognizione
20 del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere.
[...]
Tale almeno è l'opinione ch'io ho fitta5 nella mente, e nella quale io mi rallegro,
perché questo sistema,6 non solo in alcune parti, come ho accennato più
sopra, ma nel suo complesso mi sembra avere una tendenza religiosa.
Questa tendenza era ella nelle intenzioni di quelli che l'hanno proposto, e di
25 quelli che l'hanno approvato? Sarebbe leggerezza l'affermarlo di tutti; perché in
molti scritti di teorie romantiche, anzi nella maggior parte, le idee letterarie non
sono espressamente subordinate alla religione. Sarebbe temerità7 il negarlo, anche
d'un solo; perché in nessuno di quegli scritti, almeno dei letti da me, la religione è
esclusa. Non abbiamo né i dati, né il diritto, né il bisogno di fare un tal giudizio:
30 una tale intenzione, certo desiderabile, certo non indifferente, non è però necessaria
per farci dare la preferenza a quel sistema. Basta che in effetto abbia la tendenza

 >> pag. 700 

che si è detta. Ora, il sistema romantico, emancipando la letteratura dalle tradizioni
etniche, disobbligandola,8 per così dire, da una morale voluttuosa, superba,
feroce, circoscritta al tempo, e improvvida anche in questa sfera,9 antisociale dove
35 è patriottica, ed egoistica quando cessa d'essere ostile, tende certamente a render
meno difficile l'introdurre nella letteratura le idee e i sentimenti che dovrebbero
informare10 ogni discorso. E dall'altra parte, proponendo, anche in termini generalissimi,
il vero, l'utile, il buono, il ragionevole, concorre se non altro con le parole,
che non è poco, allo scopo della religione, non la contraddice almeno, nei termini.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

La prima parte della Lettera sul Romanticismo, che abbiamo omesso, è dedicata a una serrata critica al vecchio repertorio del Classicismo, ormai in declino: «La mitologia non è morta certamente, ma la credo ferita mortalmente; tengo per fermo che Giove, Marte e Venere faranno la fine che hanno fatta Arlecchino, Brighella e Pantalone, che pure avevano molti e feroci, e taluni ingegnosi sostenitori». Manzoni critica il ricorso alla mitologia non solo per ragioni estetiche, ma anche perché lo ritiene dal punto di vista etico e religioso riprovevole. A suo parere «l'uso della favola è idolatria» e lo riconduce arbitrariamente ai tempi precedenti alla venuta di Cristo.

Il brano della Lettera qui riportato riassume i punti cruciali della poetica di Manzoni negli anni più attivi e fertili della sua carriera. In armonia tanto con l'eredità dell'Illuminismo milanese quanto con gli ideali cattolici maturati dopo la conversione, lo scrittore ritiene che la letteratura debba proporsi l'utile per iscopo (r. 4), ovvero svolgere una funzione civile e pedagogica, e non già ridursi a effimero passatempo. Al tempo stesso reputa necessario coinvolgere un pubblico più ampio della sola classe dei letterati, per mezzo di soggetti interessanti, senza temere di "sporcarsi le mani" con generi allora ritenuti squalificanti per i letterati d'élite, come il romanzo, al quale Manzoni si rivolge giusto in quegli anni, lavorando con impegno anche sul versante stilistico per rendere il suo lavoro accessibile a una vasta platea di lettori.

Ciononostante l'autore milanese non ammette eccezioni alla regola per cui le opere debbano avere il vero per soggetto (r. 4). Come scrive a Chauvet, «il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla», mentre il «vero» è «l'unica sorgente d'un diletto nobile e durevole». In altre parole, compito dello scrittore non è dare prova di immaginazione seducente, inventando dal nulla vicende inverosimili, ma attingere la propria materia dalla Storia, integrandola con il "vero poetico" che deriva dall'interpretazione della realtà alla luce del Vangelo. Solo così la letteratura potrà in definitiva rientrare fra le scienze morali.
Su questa via più tardi Manzoni si spingerà al punto di esprimere, nel discorso Del romanzo storico (1850), riserve sui componimenti «misti di storia e d'invenzione», e dunque implicitamente sul proprio romanzo. Coerentemente, nella versione rivista della Lettera sul Romanticismo che pubblicherà nel 1870 sottometterà al vero l'utile e l'interessante, riducendoli a meri corollari.

 >> pag. 701 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Fai la parafrasi del brano seguente: Tale almeno è l’opinione ch’io ho fitta nella mente, e nella quale io mi rallegro, perché questo sistema, non solo in alcune parti, come ho accennato più sopra, ma nel suo complesso mi sembra avere una tendenza religiosa (rr. 22-24).

ANALIZZARE

2 Spiega in che modo, per Manzoni, il sistema romantico prepara il terreno per introdurre in letteratura le idee religiose.

INTERPRETARE

3 Manzoni ritiene che la letteratura debba aprirsi a un nuovo pubblico. Chiarisci meglio questo punto, facendo riferimento al dibattito delle idee in epoca romantica.

PRODURRE

La tua esperienza

4 Da quale libro o altra opera artistica (per esempio film, canzone) ti è capitato di ricavare degli insegnamenti morali che ti siano stati utili nella vita reale? Raccontalo in un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe.


Storia e Provvidenza

La meditazione sulla Storia ha un ruolo fondamentale in tutta l'opera creativa e saggistica di Manzoni, che a essa guarda per comporre tanto le due tragedie, Il conte di Carmagnola e Adelchi (ambientate la prima nel XV secolo, la seconda nell'VIII), quanto il romanzo I promessi sposi (situato nel XVII secolo). Dagli idéologues francesi frequentati in gioventù, lo scrittore milanese prende spunto per guardare al passato in modo non tradizionale. Lungi dal ridurre la Storia a celebrazione di imprese militari e di vicende politiche, egli mira a una ricostruzione più ampia, che non si limiti a proiettare in primo piano le gesta di principi e generali, ma tenga conto dell'esistenza di chi nel tempo si sia trovato a subire le ragioni della forza, dunque anche degli appartenenti alle classi più umili.
Questa impostazione, sottesa al disegno dei Promessi sposi, è chiaramente espressa da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, scritto e pubblicato a margine dell'Adelchi, nel 1822. Trovatosi dinanzi alla mancanza di testimonianze sulla vita degli italici durante la dominazione longobarda, ai fini di una rappresentazione corretta l'autore si dice convinto dell'esigenza di dar voce ai «desideri, i timori, i patimenti» di quei milioni di uomini che sulla Terra passarono senza lasciare traccia, come comparse invisibili e salgono adesso sul palcoscenico della letteratura e della storiografia.

A ossessionarlo è la questione relativa alla presenza del male nella Storia, a causa del quale, in ultima analisi, nella vita terrena non vi è spazio per azioni nobili o disinteressate, ma solo per la violenza che divide il mondo in «oppressori» e «oppressi». Come dice con amarezza Adelchi, agli uomini «non resta / che far torto o patirlo».
La Grazia divina si presenta allora nei confronti degli eroi manzoniani sotto forma di «provvida sventura», ovvero di una disgrazia terrena che li colloca fra gli «oppressi»: sconfitte e umiliazioni portano la salvezza eterna ad Adelchi, alla sorella Ermengarda, come anche a Napoleone nel Cinque maggio. Da buon cattolico, l'autore vede nella Storia il compimento del volere divino. La Provvidenza agisce in modo imperscrutabile, ma ciò non diminuisce d'altra parte le responsabilità degli uomini.

La più alta e intensa riflessione di Manzoni su quest'ultimo punto è costituita dal saggio Storia della colonna infame, dove rifiuta le opinioni espresse da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura. Verri aveva ricondotto l'esito del processo agli untori che ebbe luogo nella Milano del 1630, devastata dalla peste, all'ignoranza diffusa in un'epoca violenta e alle leggi sbagliate, che giustificarono le torture e procurarono condanne ingiuste.
Manzoni, tornando sul medesimo processo, sostiene che ridurre quel risultato abominevole a «un effetto de' tempi e delle circostanze» è inaccettabile per un credente. Il peso della responsabilità a suo parere ricade interamente sui giudici che punirono degli innocenti, calpestando ogni regola: «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa».

 >> pag. 702 

Al di là di ogni condizionamento, dunque, l'uomo risponde pienamente delle sue azioni. I comportamenti morali nei Promessi sposi sono ampiamente valutati e commentati, senza attenuanti. Nel romanzo la Provvidenza trasforma il male in una serie di prove che consentono di verificare e temprare la fede dei personaggi, che la chiamano in causa a più riprese, a differenza del narratore onnisciente che non la nomina mai esplicitamente.

 T4 

Il cinque maggio

Odi


L’ode viene scritta di getto nel luglio del 1821, alla notizia della morte di Napoleone, che circolava accompagnata da voci di una sua conversione all’ultimo momento. Profondamente colpito, Manzoni compone in pochi giorni questa "orazione funebre", in cui ricapitola la vicenda umana dell’imperatore, sublime dimostrazione del carattere precario delle glorie umane, al cospetto di una prospettiva eterna. La censura austriaca ne proibisce la stampa, ma l’ode si diffonde ampiamente tramite copie manoscritte, riscuotendo ammirazione e consensi. Nel 1822 Goethe la traduce in tedesco. L’anno successivo viene pubblicata a Torino.


METRO 18 strofe di 6 settenari, disposti secondo lo schema SASAST (dove S indica i versi sdruccioli, T i versi tronchi).

         Ei fu. Siccome immobile,
         dato il mortal sospiro,
         stette la spoglia immemore
         orba di tanto spiro,
5      così percossa, attonita
         la terra al nunzio sta,

         muta pensando all'ultima
         ora dell'uom fatale;
         né sa quando una simile
10    orma di piè mortale
         la sua cruenta polvere
         a calpestar verrà.

 >> pag. 703 

         Lui folgorante in solio
         vide il mio genio, e tacque;
15    quando, con vece assidua,
         cadde, risorse e giacque,
         di mille voci al sonito
         mista la sua non ha:

         vergin di servo encomio
20    e di codardo oltraggio,
         sorge or commosso al subito
         sparir di tanto raggio:
         e scioglie all'urna un cantico
         che forse non morrà.

25    Dall'alpe alle piramidi,
         dal Manzanarre al Reno,
         di quel securo il fulmine
         tenea dietro al baleno;
         scoppiò da Scilla al Tanai,
30    dall'uno all'altro mar.

         Fu vera gloria? Ai posteri
         l'ardua sentenza: nui
         chiniam la fronte al Massimo
         fattor, che volle in lui
35    del creator suo spirito
         più vasta orma stampar.

         La procellosa e trepida
         gioia d'un gran disegno,
         l'ansia d'un cor che indocile
40    serve, pensando al regno,
         e il giunge, e tiene un premio
         ch'era follia sperar;

 >> pag. 704 

         tutto ei provò: la gloria
         maggior dopo il periglio, 
45    la fuga e la vittoria,
         la reggia e il tristo esiglio;
         due volte nella polvere,
         due volte in sull'altar.

         Ei si nomò: due secoli, 
50    l'un contro l'altro armato,
         sommessi a lui si volsero,
         come aspettando il fato;
         ei fe' silenzio, ed arbitro
         s'assise in mezzo a lor.

55    E sparve, e i dì nell'ozio
         chiuse in sì breve sponda,
         segno d'immensa invidia,
         e di pietà profonda,
         d'inestinguibil odio 
60    e d'indomato amor.

         come sul capo al naufrago
         l'onda s'avvolve e pesa;
         l'onda su cui del misero,
         alta pur dianzi e tesa 
65    scorrea la vista a scernere
         prode remote invan;

         tal su quell'alma il cumulo
         delle memorie scese:
         oh quante volte ai posteri 
70    narrar se stesso imprese,
         e sull'eterne pagine
         cadde la stanca man! 

 >> pag. 705 

         Oh quante volte, al tacito
         morir d'un giorno inerte, 
75    chinati i rai fulminei,
         le braccia al sen conserte,
         stette, e dei dì che furono
         l'assalse il sovvenir! 

         E ripensò le mobili 
80    tende, e i percossi valli,
         e il lampo dei manipoli,
         e l'onda dei cavalli,
         e il concitato imperio,
         e il celere obbedir.

85    Ah! forse a tanto strazio
         cadde lo spirto anelo,
         e disperò; ma valida
         venne una man dal cielo,
         e in più spirabil aere 
90    pietosa il trasportò; 

         e l'avviò sui floridi
         sentier della speranza,
         ai campi eterni, al premio
         che i desideri avanza, 
95    ove è silenzio e tenebre
         la gloria che passò.

         Bella Immortal! benefica 
         Fede ai trionfi avvezza!
         scrivi ancor questo, allegrati; 
100  che più superba altezza
         al disonor del Golgota
         giammai non si chinò.

         Tu dalle stanche ceneri
         sperdi ogni ria parola: 
105  il Dio che atterra e suscita,
         che affanna e che consola,
         sulla deserta coltrice
         accanto a lui posò.

 >> pag. 706 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

II cinque maggio è divisibile in tre parti. La prima inscena lo stupore che coglie il mondo alla notizia della morte di Napoleone; commosso, il poeta decide di rompere il rigoroso riserbo al quale sino ad allora si era attenuto (vv. 1-24). A differenza degli altri grandi letterati del suo tempo (come Vincenzo Monti, Carlo Porta, Ugo Foscolo), Manzoni non aveva mai celebrato le imprese dell'imperatore, quando questi era in vita. Né intende farlo ora: se nella seconda parte ne ripercorre la sfolgorante carriera, i trionfi e le disfatte (vv. 25-54), maggiore spazio è riservato nella terza ai giorni amari dell'esilio sull'isola di Sant'Elena, sigillati dal decisivo intervento della Grazia, in punto di morte (vv. 55-108). Siamo dinanzi a una «provvida sventura» simile a quella di Ermengarda chiusa in convento, o del conte di Carmagnola imprigionato. Anche Napoleone si trova a vivere un'esperienza di reclusione, che scatena l'onda insostenibile dei ricordi. La fede, infine, gli consente di affrontare la morte placato, trasformando le sue vicende terrene nella più istruttiva delle parabole.

Operando con vigorosa determinazione nel mondo, senza evitare il ricorso a ingiustizie e violenze, da oscuro ufficiale nato in una provincia remota, la Corsica, Napoleone diventa imperatore dei francesi. Signore degli eserciti, giudice dei secoli l'un contro l'altro armato (v. 50), uom fatale (v. 8) che da solo si dà il nome, sollevandosi al di sopra della massa anonima degli uomini, raggiunge un premio ch'era follia sperar (v. 42) e pretende di decidere l'avvenire del mondo.
Più che ricordare Ulisse o Alessandro Magno, egli incarna dunque il prototipo dell'uomo moderno, l'eroe romantico che cerca di costruirsi da solo un destino. In questa prospettiva non stupisce come la pietà e l'ammirazione di Manzoni nascano non al cospetto dei trionfi, ma nel momento esatto in cui Napoleone mette da parte la superbia con cui aveva cercato di sostituirsi a Dio e si trova a riconoscerne la suprema grandezza.

Ancora una volta Manzoni riconosce nella sconfitta l'opportunità di dimostrare un eroismo ben diverso dal modello titanico di stampo romantico, nonché l'unico mezzo per giungere alla salvezza eterna. L'esistenza di Napoleone, che finisce i suoi giorni su uno scoglio in mezzo all'Atlantico dopo avere imperversato dall'alpe alle piramidi, / dal Manzanarre al Reno (vv. 25-26), è ai suoi occhi un'altissima dimostrazione della divina onnipotenza. I posteri pronunceranno l'ardua sentenza (v. 32) sulla gloria terrena dell'imperatore, ma questa conta infinitamente meno del giudizio di Dio, a cui spetta l'unica vera gloria: le imprese umane, anche le più ardite, viste dalla prospettiva dell'eternità si riducono a polvere. Animato da questa convinzione, Manzoni conclude Il cinque maggio con una vibrante apostrofe* alla Fede, che avvicina l'ode a un inno sacro, composto, questa volta, non in occasione di una festa liturgica, ma per interpretare a maggior lode di Dio la morte di un grande protagonista della Storia.

Le scelte stilistiche

L'ode è caratterizzata da uno stile solenne sin dall'attacco, divenuto proverbiale, che riduce a due monosillabi la più straordinaria delle vite: Ei fu (v. 1). Anche in seguito l'insistenza sul passato remoto contribuisce a fissare in una dimensione di compiutezza la rievocazione delle imprese di Napoleone, il cui nome non viene mai pronunciato.
A innalzare il discorso contribuiscono l'uso degli aggettivi, che spesso ricorrono prima del verbo, in posizione di rilievo (valida venne, pietosa il trasportò), i latinismi (nunzio, solio, coltrice, securo ecc.) e il fitto tessuto di figure retoriche, tra le quali è opportuno segnalare almeno le due estese similitudini* (vv. 1-8; vv. 61-68), le anastrofi*, gli iperbati*, la metafora* tesa a sottolineare la rapidità d'azione di Napoleone (di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno, vv. 27-28).
Allo scopo di sottolineare il vorticoso turbine degli accadimenti è frequente il ricorso all'antitesi* (per esempio due volte nella polvere, / due volte in sull'altar, vv. 47-48; d'inestinguibil odio / e d'indomato amor, vv. 59-60). Per contrasto, ai due estremi dell'ode Manzoni delinea una situazione di stasi, evocando la salma immobile del condottiero, alla quale nella conclusione si accosta Dio.

 >> pag. 707 

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi in forma discorsiva il contenuto della poesia in circa 10 righe.

ANALIZZARE

2 Elenca e chiarisci, con l’aiuto di una mappa, tutti i riferimenti geografici presenti nel testo.


3 Colloca nella tabella tutti i richiami alla sfera semantica dell’immobilità e a quella del movimento.

Immobilità
Movimento








INTERPRETARE

4 Perché, secondo te, Napoleone non viene mai nominato esplicitamente per nome, ma sempre attraverso pronomi (Ei, v. 1) o perifrasi (uom fatale, v. 8)?


L’impegno politico-patriottico

Manzoni consacra la propria vita agli studi e non partecipa mai in prima persona agli eventi politici della sua epoca. Ciò non significa, però, che sia distratto o indifferente rispetto alle grandi questioni che dividono la società dell'Ottocento: è anzi, con le armi della letteratura, uno dei fondamentali ispiratori del Risorgimento.
Per tutta la vita, in effetti, Manzoni sostiene con decisione e coerenza l'ideale dell'Unità d'Italia, sin dai tempi in cui questo non era ancora largamente condiviso. La prima occasione per esprimere i propri sentimenti patriottici gli è offerta dalla caduta di Napoleone, da cui scaturisce la canzone Aprile 1814. Poco più tardi, nel 1815, l'appello di Gioacchino Murat agli italiani lo induce a scrivere Il proclama di Rimini, lasciato incompiuto al momento della vittoria degli austriaci.

 >> pag. 708 

Di maggiore interesse è Marzo 1821, un'ode anch'essa composta in un frangente drammatico, in occasione dei moti carbonari di lì a poco repressi con violenza. Manzoni immagina che l'esercito piemontese di Carlo Alberto abbia oltrepassato il Ticino, e auspica che mai più il fiume costituisca il confine con la Lombardia soggetta all'impero austriaco. Il testo è disseminato di apostrofi minacciose agli stranieri e di esortazioni agli abitanti dell'Italia: «O compagni sul letto di morte / o fratelli su libero suol». L'idea di patria si compendia in una formula divenuta celeberrima: «una d'arme, di lingua, d'altare, / di memorie, di sangue e di cor». L'autore individua cioè l'unità ideale della nazione nella comunanza degli eserciti, della lingua parlata, della religione professata, delle memorie storiche, dell'etnia e dei sentimenti profondi di un popolo.

Il secolare asservimento dei «volghi spregiati» (ossia dei popoli di cui si disprezzano le volontà) è tematizzato nell'Adelchi. L'azione ha luogo nell'Alto Medioevo, al tempo delle lotte per il predominio nella penisola fra i longobardi e i franchi, alle quali le popolazioni locali assistevano impotenti e timorose. Nel coro che conclude il terzo atto della tragedia si intravede il convincimento che nessun valido aiuto potrà provenire dall'esterno: il popolo italiano potrà darsi la libertà confidando esclusivamente sulle proprie forze, agendo con determinazione e ripudiando una volta per tutte le lotte fratricide, su cui insiste l'altra tragedia manzoniana, Il conte di Carmagnola.

 T5 

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti

Adelchi, coro dell’atto III


Posto alla fine del terzo atto, è il primo dei due cori della tragedia. I franchi invadono la Pianura padana, mettendo in fuga i longobardi, che da tempo vi spadroneggiavano. Le popolazioni italiche assistono ansiose nella speranza che la sconfitta degli antichi oppressori si traduca nella loro emancipazione. Ma la voce del coro si incarica di dissipare le illusioni: un padrone sostituisce l’altro e la libertà non può arrivare per mano straniera.
Composto in pochi giorni, nel gennaio del 1822, il testo venne sottoposto a un lungo lavoro di correzione per eliminare i riferimenti troppo espliciti alle strategie politiche della Restaurazione, che non avrebbero passato il vaglio della censura austriaca.


METRO 11 strofe di doppi senari, rimati AABCCB (la rima in B è sempre tronca).

 >> pag. 709 

         Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
         dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
         dai solchi bagnati di servo sudor,
         un volgo disperso repente si desta;
5       intende l'orecchio, solleva la testa
         percosso da novo crescente romor.

         Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
         qual raggio di sole da nuvoli folti,
         traluce de' padri la fiera virtù:
10    ne' guardi, ne' volti confuso ed incerto
         si mesce e discorda lo spregio sofferto
         col misero orgoglio d'un tempo che fu.

         S'aduna voglioso, si sperde tremante
         per torti sentieri, con passo vagante,
15    fra tema e desire, s'avanza e ristà;
         e adocchia e rimira scorata e confusa
         de' crudi signori la turba diffusa,
         che fugge dai brandi, che sosta non ha.

         Ansanti li vede, quai trepide fere,
20    irsuti per tema le fulve criniere,
         le note latebre del covo cercar;
         e quivi, deposta l'usata minaccia,
         le donne superbe, con pallida faccia,
         i figli pensosi pensose guatar.

25    E sopra i fuggenti, con avido brando,
         quai cani disciolti, correndo, frugando,
         da ritta, da manca, guerrieri venir:
         li vede, e rapito d'ignoto contento,
         con l'agile speme precorre l'evento,
30    e sogna la fine del duro servir.

         Udite! quei forti che tengono il campo,
         che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
         son giunti da lunge, per aspri sentier:
         sospeser le gioie dei prandi festosi,
35    assursero in fretta dai blandi riposi,
         chiamati repente da squillo guerrier.

 >> pag. 710 

         Lasciâr nelle sale del tetto natio
         le donne accorate, tornanti all'addio,
         a preghi e consigli che il pianto troncò:
40    han carca la fronte de' pesti cimieri,
         han poste le selle sui bruni corsieri,
         volaron sul ponte che cupo sonò.

         A torme, di terra passarono in terra,
         cantando giulive canzoni di guerra,
45    ma i dolci castelli pensando nel cor:
         per valli petrose, per balzi dirotti,
         vegliaron nell'arme le gelide notti,
         membrando i fidati colloqui d'amor.

         Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
50    per greppi senz'orma le corse affannose,
         il rigido impero, le fami durâr:
         si vider le lance calate sui petti,
         a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
         udiron le frecce fischiando volar.

55    E il premio sperato, promesso a quei forti,
         sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
         d'un volgo straniero por fine al dolor?
         Tornate alle vostre superbe ruine,
         all'opere imbelli dell'arse officine,
60    ai solchi bagnati di servo sudor.

         Il forte si mesce col vinto nemico,
         col novo signore rimane l'antico;
         l'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
         Dividono i servi, dividon gli armenti;
65    si posano insieme sui campi cruenti
         d'un volgo disperso che nome non ha.

 >> pag. 711 

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Come spiega nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni nelle sue tragedie riprende dai modelli classici l'espediente dei cori, piegandoli però ad assumere una diversa funzione: ne fa dei «cantucci» che si riserva per commentare le vicende, sostituendo la propria voce a quella dei personaggi. In questa occasione, interrotta l'azione nel momento in cui i franchi trionfano, il poeta non propone in partenza una meditazione personale, ma ripercorre gli eventi adottando il punto di vista di una terza componente rimasta sinora nell'ombra, ovvero i popoli italici che assistono sbigottiti alla sconfitta dei loro signori longobardi (vv. 1-30).
In armonia con lo spirito evangelico, Manzoni concentra la propria attenzione sugli umili, in opposizione alla prospettiva della tragedia classica, per la quale si dovrebbero ritenere degne d'interesse soltanto le gesta di eroi e grandi personaggi. Egli realizza così, allo stesso tempo, gli obiettivi delineati nella lettera a Chauvet e nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica: completa cioè il nudo referto dei documenti storici integrandoli con i sentimenti di una massa di uomini passati sulla terra senza lasciare traccia. Il volgo disperso (vv. 4 e 66), le «genti meccaniche» che nell'Adelchi restano relegate nel coro del terzo atto balzeranno in primo piano nei Promessi sposi, in tutta la loro vitale individualità.

II poeta si rivolge con forza agli italici, che fanno da spettatori al corso della Storia (vv. 31-66). In primo luogo propone un flash back* sulle rinunce, sulle fatiche e sui rischi affrontati dai franchi nel corso della campagna militare. Nel descrivere gli invasori giunti da Oltralpe, Manzoni a tratti sembra cedere al fascino della saga barbarica, ma in realtà l'insistenza sul loro coraggio e vigore risulta funzionale al passaggio successivo, in quanto essa alimenta l'interrogativo retorico rivolto agli italici: perché illudersi? A che pro sperare che un esercito straniero intervenga gratuitamente per restituire la libertà a un popolo che ha dimenticato le antiche glorie, ormai ridotto a volgo disperso in stato di schiavitù?
Incapaci di agire, gli italici non possono che assistere agli avvenimenti, con il cuore in tumulto. Ma questa è già una sconfitta: ancora una volta gli autentici vinti, al di là delle apparenze, sono loro. I longobardi, che non si sono mai fusi con le popolazioni locali (ma la storiografia moderna ha poi smussato questa tesi troppo netta), troveranno presto un accordo con i nuovi oppressori: col novo signore rimane l'antico; / l'un popolo e l'altro sul collo vi sta (vv. 62-63).

In tal modo Manzoni lancia un evidente rimprovero ai patrioti a lui contemporanei, che – un millennio più tardi – si trovavano a fronteggiare situazioni non troppo dissimili. Tramontato il Regno d'Italia, satellite della Francia napoleonica, il ritorno degli Asburgo aveva dissipato molti generosi sogni d'autonomia. L'Adelchi, scritto all'indomani della repressione violenta con cui l'Austria aveva reagito ai moti del 1821, risente fortemente del clima di tensione che allora si respirava a Milano.
Le conseguenze politiche della Restaurazione e il dominio repressivo dell'Austria insegnano come libertà e rispetto si debbano conquistare con le proprie forze, ma non solo: le sconfitte dei carbonari sono le sconfitte di un progetto elitario, che non aveva cercato né trovato vasta condivisione popolare. Manzoni, indifferente al mito romantico dell'eroe solitario, ritiene invece che sia fondamentale suscitare il più possibile la volontà del popolo intorno all'idea di nazione. Il rinnovamento della società italiana e la conquista dell'indipendenza devono essere perseguiti da tutti gli italiani, non solo dagli intellettuali, ai quali pure spetta il compito di sensibilizzare l'opinione pubblica.

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Le scelte stilistiche

L'uso di versi parisillabi quali i doppi senari*, in cui gli accenti sono fissi, conferisce al coro cadenze regolari e incalzanti, molto adatte a scene belliche e di folla. Questo ritmo, che mima l'andamento di una poesia popolare, ricalca i caratteri della ballata romantica. Se il lessico si mantiene su un registro elevato, con abbondante presenza di aulicismi (tema, desire, brandi, latebre, speme), scarseggiano tuttavia le perifrasi auliche, e soprattutto la sintassi appare molto lontana dalla tendenza all'uso delle subordinate secondo il costrutto latino tipica di poeti come Parini o Monti.
Alla semplicità della metrica fa riscontro infatti la semplicità della sintassi, in cui prevalgono le proposizioni coordinate per asindeto* (si desta; / intende l'orecchio, solleva la testa, vv. 4-5), mai troppo estese: nessun periodo oltrepassa la misura della strofa. Insieme alle numerose figure della ripetizione (inaugurate dall'insistita anafora* dei primi tre versi), sono questi i mattoni su cui Manzoni costruisce i continui crescendo che danno al lettore l'impressione complessiva di una drammatica concitazione.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Come viene descritto il comportamento dei longobardi, incalzati dai franchi?


2 Chi viene invitato a tornare ai solchi bagnati di servo sudor (v. 60)?

ANALIZZARE

3 Rintraccia tutte le espressioni che descrivono i franchi. In quali atteggiamenti vengono ritratti e quali caratteristiche complessive vengono loro attribuite?


4 Quale figura retorica riconosci al v. 20? E quale al v. 24?


5 Individua nel testo le espressioni che ricadono nella sfera del "vedere" e dell’"agire".

INTERPRETARE

6 Confronta la situazione storica descritta nel brano con quella attuale in cui scrive Manzoni: quali analogie e quali differenze cogli?

PRODURRE

7 Quale pittore o disegnatore (anche di fumetti) a tuo parere potrebbe efficacemente ritrarre la scena a cui gli italici assistono? Spiega i motivi della tua scelta in un testo argomentativo di circa 20 righe.


La riflessione sulla lingua

Ai tempi di Manzoni erano in pochi a capire il toscano, e pochissimi in grado di parlarlo, persino fra i ceti colti.
Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, addirittura, Manzoni riconosce nel milanese l'unica lingua «nella quale ardirei promettermi di parlare [...] tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo [vocabolo straniero]; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui». In realtà l'autore conosce molto bene anche il francese, perfezionato negli anni trascorsi a Parigi e periodicamente esercitato nelle lettere. In una di esse, scritta all'amico Claude Fauriel nel 1806, confessa di aver visto «con un piacere misto d'invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Molière», mentre in Italia l'eccessivo scarto fra lingua scritta e lingua parlata rende impossibile agli scrittori l'effetto di erudire «la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell'utile, e di rendere in questo modo le cose un po' più come dovrebbono essere».

Il problema della popolarità del linguaggio, che tormenta Manzoni sin dalla gioventù, diviene pressante nel momento in cui egli inizia a dedicarsi alla stesura del romanzo, rendendosi conto ben presto dell’estrema difficoltà del compito, moltiplicata dalla mancanza di una lingua comune nella penisola e di una norma universalmente riconosciuta.
Di qui i dubbi che accompagnano la transizione dall'eclettismo del Fermo e Lucia al "toscano-milanese" della ventisettana (ovvero l'edizione del 1827), figlio di febbrili consultazioni di vocabolari e altre fonti libresche. Subito dopo, il viaggio a Firenze, con la celebre "risciacquatura dei panni in Arno", contribuisce a orientare l'autore verso l'uso vivo del ceto colto cittadino. A questa opzione è improntata la revisione linguistica del romanzo, che sfocia nell'edizione definitiva, comparsa in dispense fra il 1840 e il 1842.

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D'altra parte, alla produzione creativa Manzoni accompagna intense riflessioni teoriche, che avrebbero dovuto convergere nel trattato Della lingua italiana, al quale lavora per decenni, scrivendone cinque redazioni senza mai giungere a un esito ritenuto soddisfacente. Nelle carte di questo «eterno lavoro», pubblicate solo nel XX secolo, lo scrittore articola le sue idee in materia di lingua, ragionando sul concetto di "uso" e confutando le posizioni espresse in merito da puristi e Classicisti. Nelle pagine di Sentir messa, egli insiste sui vantaggi del toscano, unico idioma utilizzato dagli italiani di varia provenienza per comunicare tra loro.
La tesi "fiorentinista" viene pubblicamente espressa e difesa dallo scrittore in interventi più estemporanei, a cominciare dalla Lettera sulla lingua italiana a Giacinto Carena, pubblicata nel 1850, in cui auspica la redazione di un vocabolario dell'uso vivo e caldeggia l'individuazione di una capitale linguistica da assumere a modello. Come il latino fu la lingua di Roma e il francese è la lingua di Parigi, il fiorentino sarà la lingua dell'Italia. L'unità politica non può, secondo Manzoni, prescindere dall'unità linguistica: la nuova nazione dovrà porsi e risolvere il problema. Queste convinzioni impregnano i numerosi interventi, pubblici e privati, che negli anni della vecchiaia Manzoni instancabilmente dedica a una questione che ritiene non puramente estetica, ma innanzitutto sociale e politica.

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La Relazione al ministro Broglio


Il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio, all’inizio del 1868, istituisce una commissione incaricata di occuparsi delle strategie con cui promuovere «in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia». Ne affida la presidenza a Manzoni, che in breve tempo consegna e fa stampare su varie riviste una Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla, dove ribadisce gli orientamenti più volte espressi in precedenza, rimarcando la necessità di una diffusione capillare del fiorentino parlato.

Una nazione dove siano in vigore vari idiomi e la quale aspiri ad avere una lingua
in comune, trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al 
suo intento.
In astratto, il modo di superare un tale ostacolo è ovvio ed evidente: sostituire a
5 que' diversi mezzi di comunicazione d'idee un mezzo unico, il quale, sottentrando
a fare nelle singole parti della nazione l'ufizio essenziale che fanno i particolari
linguaggi,1 possa anche soddisfare il bisogno, non così essenziale, senza dubbio,
ma rilevantissimo, d'intendersi gli uomini dell'intera nazione tra di loro, il più
pienamente e uniformemente che sia possibile.
10 Ma in Italia, a ottenere un tale intento, s'incontra questa tanto singolare quanto
dolorosa difficoltà, che il mezzo stesso è in questione;2 e mentre ci troviamo

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d'accordo nel voler questa lingua, quale poi essa sia, o possa, o deva3 essere, se ne
disputa da cinquecento anni.
Una tale, si direbbe quasi, perpetuità4 di tentativi inutili potrebbe, a prima vista,
15 far credere che la ricerca stessa sia da mettersi, una volta per sempre, nella gran 
classe di quelle che non hanno riuscita, perché il loro intento è immaginario, e il
mezzo che si cerca non vive che nei desideri.
Lontani per sé da un tale scoraggimento,5 e animati dall'autorevole e patriottico
invito del sig. Ministro, i sottoscritti6 non esitano a esprimere la loro persuasione,
20 che il mezzo c'era, come c'è ancora; che il non avere esso potuta esercitare la sua
naturale attività ed efficacia, è avvenuto per la mancanza di circostanze favorevoli,7
senza però, che una tale mancanza abbia potuto farlo dimenticare, né renderlo
affatto inoperoso; e che questa sua debole attività è quella che ha data occasione ai
tanti sistemi che hanno potuto sovrapporglisi come le borraccine e i licheni a un
25 albero che vegeti stentatamente.8
Questo mezzo, indicato dalla cosa stessa, e messo in evidenza da splendidi
esempi,9 è: che uno degl'idiomi, più o meno diversi, che vivono in una nazione,
venga accettato da tutte le parti di essa per idioma o lingua comune [...].
In verità, pensando a que' due gran fatti delle lingue latina e francese, non si
30 può a meno di non ridere della taccia di municipalismo10 che è stata data e si vuol
mantenere a chi pensa che l'accettazione e l'acquisto dell'idioma fiorentino sia il
mezzo che possa dare di fatto all'Italia una lingua comune. Senza il municipalismo
di Roma e di Parigi non ci sarebbe stata, né lingua latina, né lingua francese. [...]
Riconosciuta poi che fosse la necessità d'un tal mezzo, la scelta d'un idioma
35 che possa servire al caso nostro, non potrebbe esser dubbia; anzi è fatta. Perché
è appunto un fatto notabilissimo questo: che, non c'essendo stata nell'Italia moderna
una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province a
adottare il suo idioma, pure il toscano, per la virtù d'alcuni scritti famosi al loro
primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in
40 molti altri, e resa facile da alcune qualità dell'idioma medesimo, che non importa
di specificar qui, abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune
dell'Italia,11 dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli
scritti di tutte le parti d'Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici, e anche privati,
che non fossero espressi in nessun altro de' diversi idiomi d'Italia. E la ragione
45 per cui questa denominazione sia stata accettata così facilmente, è che esprime
un fatto chiaro, uno di quelli la di cui virtù è nota a chi si sia. Ognuno infatti, che
non sia preoccupato da opinioni arbitrarie e sistematiche,12 intende subito che
per poter sostituire un linguaggio novo a quello d'un paese, bisogna prendere il
linguaggio d'un altro paese.
50 S'aggiunga un altro fatto importante anch'esso, cioè che, o tutti o quasi tutti
quelli che negano al toscano la ragione di essere la lingua comune d'Italia, gli 

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concedono pure qualcosa di speciale, una certa qual preferenza, un certo qual privilegio
sopra gli altri idiomi d'Italia [...].
È da osservarsi, del rimanente, che la denominazione di lingua toscana non
55 corrisponde esattamente alla cosa che si vuole e si deve volere, cioè a una lingua
una; mentre il parlare toscano è composto d'idiomi pochissimo dissimili bensì13
tra di loro, ma dissimili, e quindi non formanti una unità. Ma l'improprietà del
vocabolo non potrà cagionare equivoci, quando si sia, in fatto, d'accordo nel concetto;
in quella maniera che le denominazioni di latino, di francese, di castigliano,
60 quantunque derivate, non da delle città, ma dai territori, non hanno impedito che
per latino s'intendesse il linguaggio di Roma, come, per francese e per castigliano,
s'intendono quelli di Parigi e di Madrid.
Uno poi de' mezzi più efficaci e d'un effetto più generale, particolarmente nelle
nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario.
65 E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito14 per l'Italia
non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Infervorato dall'incarico ricevuto dal ministero, che lo chiama a intervenire operativamente sulla questione che più gli stava a cuore, l'ormai vecchio Manzoni si pone al lavoro e in pochi mesi appronta la Relazione, che suscita accese discussioni. La componente fiorentina della commissione, in particolare, dissente sul ruolo secondario che in essa viene attribuito agli scrittori, ritenuti tradizionalmente modelli fondamentali in materia di lingua. Manzoni, convinto che la questione della lingua nel nuovo contesto nazionale sia un'urgenza sociale prima che una questione letteraria, assegna, come si è detto, un ruolo cruciale alla parlata della classe colta fiorentina. Approva per questo motivo l'invio di maestri toscani in tutto il paese, e incoraggia la compilazione di un vocabolario dell'uso vivo, che bandisca gli usi storici degli autori dei secoli andati e funga da punto di riferimento per una serie di dizionari bilingui, atti a suggerire il corrispondente fiorentino corretto dei termini dialettali.

Il ruolo di Manzoni nel promuovere la sovrapposizione fra italiano e lingua parlata a Firenze (che in quegli anni era capitale del Regno) è senza dubbio decisivo, ma più sotto forma di esempio pratico che come proposta teorica. Già alla fine dell'Ottocento, infatti, I promessi sposi diventano nelle scuole del Regno una fondamentale palestra di lingua. I tormentati ripensamenti linguistici che avevano accompagnato la stesura del romanzo vengono così premiati da un esito che supera ogni più rosea aspettativa.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Sintetizza il contenuto del brano in circa 5 righe. 

ANALIZZARE

2 Individua ed esamina i passi in cui si espongono le ragioni del privilegio accordato al toscano.

INTERPRETARE 

3 In che senso Manzoni sminuisce il ruolo degli scrittori in materia di lingua, e per quali motivi? 


I colori della letteratura - volume 2
I colori della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento