La “vita” romana

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Pier Paolo Pasolini

      Dentro il testo

I contenuti tematici

In questi versi l’autore rievoca il momento del suo primo contatto con il mondo delle borgate romane e con la loro grande carica umana. La borgata è una zona intermedia, lontana dalla città / e dalla campagna (vv. 3–4), che non possiede la struttura dell’agglomerato urbano né quella della comunità rurale. Essa è una sorta di terra di nessuno, abbandonata dalla politica e dalle istituzioni, sostanzialmente disinteressate alla vita e ai problemi di chi vi abita.
Pasolini, invece, sceglie consapevolmente di condividere l’esistenza di queste persone. Lo fa perché in tale ambiente egli può finalmente ritrovare sé stesso e una nuova gioia di vivere, che si esplica all’insegna di una condizione di libertà dai vincoli moralistici piccolo–borghesi (Rinnovato dal mondo nuovo, v. 19). L’istintiva allegria (v. 27) della gente del popolo si comunica al poeta, che si sente intimamente vicino a quel mondo sottoproletario al quale si accosta. In lui, così, cresce il senso di appartenenza all’anima popolare (Un’anima in me, che non era solo mia, […] cresceva, vv. 25–27). Poco importa se il suo amore (che andrà inteso qui anche in senso erotico, nei confronti dei ragazzi del popolo) non è del tutto ricambiato (di chi amava, anche se non riamato, v. 28), perché tutto si illuminava, a questo amore (v. 29).

La borgata romana diventa così il centro del mondo (vv. 33 e 61), il luogo dove il giovane “di buona famiglia” può finalmente maturare a contatto con un’esperienza che nasceva ai piedi della storia (v. 32), vale a dire la vita degli ultimi in queste borgate tristi, beduine (v. 34), di coloro, cioè, che sono abbandonati a sé stessi da quanti detengono le leve della grande Storia collettiva. E su questo mondo emerge di nuovo l’amore (il vocabolo torna al v. 62) del poeta per il popolo.

Il popolo per Pasolini è puro nella misura in cui non è contaminato né dai distorti valori borghesi né dalle ideologie politiche. La maturità (v. 64) equivale a un’involuzione interiore e può esprimersi come amore solo finché è allo stato iniziale (per essere nascente / era ancora amore, vv. 64–65). Quando l’ideologia ha il sopravvento e il popolo ne viene corrotto, esso rischia di perdere la propria essenza, fatta di un’ingenuità che è la vita / nella sua luce più attuale (vv. 69–70).
Per Pasolini la forza più viva e autentica della Storia non è dunque il proletariato consapevole della propria condizione e della necessità di rivendicare i propri diritti (come riteneva l’ortodossia comunista, qui emblematizzata dal rozzo giornale / della cellula, vv. 73–74), ma – appunto – questo sottoproletariato primitivo e ignaro, un caos non ancora proletario (v. 72) niente affatto negativo, bensì dotato di una straordinaria energia vitale, pura (v. 77) e assoluta (v. 78).

Le scelte stilistiche

In questa come nelle altre liriche della raccolta Le ceneri di Gramsci Pasolini tenta una sintesi tra lirismo e impegno civile. Infatti egli non rinuncia ad affrontare certi nodi politici e ideologici (come quello relativo alla visione del proletariato e alle prospettive di una sua azione), ma insieme pone sé stesso e il proprio io poetico – con tutte le sue tensioni, le sue angosce, i suoi slanci, i suoi entusiasmi, i suoi sentimenti – in rapporto dialettico con la realtà che rappresenta. Alla marginalità del sottoproletariato romano corrisponde la marginalità personale del poeta, finché queste due condizioni finiscono quasi con il sovrapporsi.

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Dal punto di vista prettamente formale, va notato come a una forma metrica, la terzina*, di tipo tradizionale – sebbene rivisitata con una certa libertà – si unisca qui un linguaggio semplice e discorsivo, perfettamente funzionale agli intenti narrativi e dimostrativi che l’autore si propone di perseguire. I due elementi sembrerebbero in contraddizione, ma la scelta pasoliniana risponde a una motivazione precisa: affinché i contenuti concettualmente impegnativi (sul piano storico, logico, razionale) di questi versi potessero trovare una loro poeticità era necessario «imprigionarli dentro istituzioni stilistiche codificate, dentro ritmi, rime e suoni saldamente impiantati nella tradizione, […] preesistenti e tali da costituire un margine alla violenza dell’autobiografia» (Cerami).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto del testo in circa 10 righe.


ANALIZZARE

2 Rintraccia tutti i riferimenti alla povertà dell’ambiente e della gente della borgata.


3 Quale figura retorica troviamo nel sintagma frutto di furto (v. 16)?

  •   A   Allitterazione.
  •     Paronomasia.
  •     Ossimoro.
  •     Iperbato.

INTERPRETARE

4 Perché il poeta ripete l’aggettivo “giallognolo” in due versi consecutivi (vv. 41–42)? Che cosa intende sottolineare in questo modo?


5 In che senso il carcere di Rebibbia domina la borgata?


PRODURRE

6 Confronta questi versi con quelli di Città vecchia di Umberto Saba ( T5, p. 532). Quali analogie riscontri? Ed eventualmente quali differenze? Scrivi un testo espositivo di circa 20 righe.


7 La critica ha spesso rimproverato a Pasolini di aver mitizzato il sottoproletariato urbano. Sulla scorta della lettura di questo testo, sei d’accordo con tale giudizio? Argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.


La “vita” romana

All’inizio del 1950 lo scrittore e la madre Susanna si trasferiscono a Roma. Nella capitale Pasolini entra in contatto con la realtà del sottoproletariato urbano, che metterà a fuoco in particolare in due romanzi: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Sono opere che risentono del clima neorealista, ma che per molti versi vanno oltre i modelli di quella corrente letteraria.

Appena arrivato a Roma, Pasolini, subito innamoratosi della città, conduce in prima persona ricerche “sul campo”, frequentando il mondo delle borgate e facendosi aiutare dalle persone del posto per risolvere i dubbi linguistici in cui si imbatte. Il critico Alberto Asor Rosa ha sottolineato «la minuziosa opera di raccoglitore linguistico di Pasolini, che, taccuino in tasca, va di borgata in borgata, di strada in strada, alla ricerca dei ragazzi di vita, dei loro padri e delle loro madri, colloquia, scherza, ride con loro, e nel frattempo accuratamente li studia».
In effetti quello di Pasolini è uno studio “dal vivo”, quasi da sociologo o da antropologo prima ancora che da scrittore: dei ragazzi delle borgate osserva e annota il lessico, gli atteggiamenti e i comportamenti, ma non lo fa con il distacco dello scrittore naturalista, bensì con un forte coinvolgimento umano ed emotivo. Racconta egli stesso, in un testo del 1958 intitolato La mia periferia: «Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta». Lui, di estrazione borghese, decide di avvicinarsi a una realtà molto diversa da quella del suo ambiente di appartenenza, con rispetto e con capacità di ascolto.

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Anche negli anni seguenti, quando Ragazzi di vita e le opere successive gli hanno procurato una certa fama nell’ambiente letterario, egli non si concede più di tanto alla mondanità culturale, ma preferisce continuare a frequentare la Roma delle borgate più che quella dei salotti. «Il mio realismo», spiega Pasolini sempre nello scritto La mia periferia, «io lo considero un atto d’amore: e la mia polemica contro l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso, implica una presa di posizione politica contro la borghesia fascista e democristiana che ne è stata l’ambiente e il fondo culturale».

Ancora Pasolini spiega così la sua scelta linguistica del dialetto romanesco: «Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la “borgata” romana. Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, […] a cercare le amicizie più semplici, normali presso i “pagani” (la periferia di Roma è completamente pagana: i ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna), che vivono a un altro livello culturale».

Il critico Cesare Garboli ha avanzato un suggestivo accostamento tra il Pasolini romano e Caravaggio, vedendo nel Riccetto, il protagonista di Ragazzi di vita, una sorta di Bacco caravaggesco trasferito nel XX secolo. Come l’artista del Seicento sceglieva i modelli e le modelle tra i frequentatori delle taverne e tra le prostitute, al punto da raffigurare la Vergine Maria ispirandosi al corpo di una popolana annegata nel Tevere, così Pasolini va a cercare i modelli della sua rappresentazione nel mondo della miseria, del disagio, del degrado più spinto. Si capisce in tal modo anche la sua tendenza a ingaggiare per i suoi film attori non professionisti.

 T2 

La maturazione del Riccetto

Ragazzi di vita, capp. 1 e 8


Del primo romanzo romano di Pasolini riportiamo due passi: la conclusione del capitolo iniziale e l’epilogo dell’ultimo. Nel primo brano il Riccetto, ancora ragazzo, è sul Tevere, in una barca, a giocare con alcuni amici. Nel secondo, ormai cresciuto, si trova invece a essere spettatore, sulle rive dell’Aniene, di un evento tragico: un ragazzo, Genesio, tenta la traversata a nuoto, ma viene travolto dalla corrente, annegando sotto lo sguardo angosciato dei due fratellini, Mariuccio e Borgo Antico.

Il Riccetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti,1 ammusato,2
sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava
sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. «Ecco
li pirata!» gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei
5 trasteverini, in piedi in pizzo alla barca:3 gli altri continuavano scatenati a cantare.

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A un tratto il Riccetto si voltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che
aveva attratto la sua attenzione, sul pelo dell’acqua, presso la riva, quasi sotto le
arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capir bene cosa fosse. L’acqua tremolava, in
quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e
10 difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.
«Ched’è», 4 disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella
parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. «È na rondine,
vaffan…», disse Marcello.5 Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente
i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il
15 petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti c’era
proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava.6 Il Riccetto
era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. «A stronzo, nun
vedi che ce fai rovescià?», gli disse Agnolo. «An vedi», gridava il Riccetto, «affoga!».
Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva
20 piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però
dopo un po’ perdette la pazienza e ricominciò a remare. «Aòh, a moro», gli gridò il
Riccetto puntandogli contro la mano, «chi t’ha detto de remà?» L’altro fece schioccare
la lingua con disprezzo e il più grosso disse: «E che te frega». Il Riccetto guardò
verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto7 le ali.
25 Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si
misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro
corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua:
lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo
specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo», gridava
30 Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché nun la piji?». Il Riccetto dovette
sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncica!».8 «Li mortacci
tua», 9 gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli
scappava sbattendo le ali e tutti e due ormai erano trascinati verso il pilone dalla
corrente che lì sotto si faceva forte e piena di mulinelli. «A Riccetto», gridarono
35 i compagni dalla barca, «e lassala perde!». Ma in quel momento il Riccetto s’era
deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. «Torniamo indietro,
daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto
sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvata a ffà», gli
disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!». Il Riccetto non gli rispose
40 subito. «È tutta fracica»,10 disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!». Ci volle
poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne,
sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.

***

Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e
poi gridò: «Conto fino a tre e me butto». Stette fermo, in silenzio, a contare, poi
45 guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera11 ancora tutta
ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta
fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva

 >> pag. 980 

svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva
indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare
50 facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui,
alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo
sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.
«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano
perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!».12
55 Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume,
di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume.
Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù
verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono13 giù dalla gobba
del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano
60 con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro
a Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il Riccetto,
mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra,
a strofinare le lastre,14 se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che
ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non
65 cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti
di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giù verso
l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che stava succedendo
sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; ma poi capì e si
buttò di corsa giù per la scesa,15 scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non
70 c’era più niente da fare: gettarsi nel fiume lì sotto il ponte voleva proprio dire esser
stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto.
Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia,
ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e
poi risortiva16 un poco più in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte,
75 dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta,
senza un grido, e si vide solo ancora un poco affiorare la sua testina nera.
Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva
sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora
un po’ lì fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico
80 e Mariuccio che urlavano e piangevano, Mariuccio sempre stringendosi contro il
petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi
con le mani su per la scarpata.
«Tajamo, è mejo»,17 disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi
in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava quasi di corsa, per
85 arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bene ar Riccetto, sa!»,18 pensava.
S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo
scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi
indietro, imboccò il ponte.

Al cuore della letteratura - volume 6
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Dal Novecento a oggi