Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Italo Calvino

LETTURE critiche

Mostri, mutanti e ultracorpi

di Marco Antonio Bazzocchi

Nel saggio Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Marco Antonio Bazzocchi (n. 1961) si concentra sul ruolo della corporeità nella Giornata d’uno scrutatore, spiegando le ragioni per cui il romanzo va considerato una vera e propria discesa agli inferi, un viaggio in un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati. A partire dalla lettura dei corpi dei pazienti del Cottolengo, il critico interpreta il libro come una metafora della perdita delle coordinate interpretative con le quali l’umanità immagina il proprio ruolo nel mondo e nella Storia.

Uscito di casa alle cinque e mezza del mattino […], dopo aver attraversato sotto la pioggia un intrico di vicoli tetri, gli occhi fissi alle targhe illeggibili coi nomi delle strade, circondato dallo squallore dei manifesti elettorali che stingono l’uno sull’altro alludendo alla «complessità delle cose» (al loro inevitabile sovrapporsi e mescolarsi), Amerigo Ormea, giovane militante comunista degli anni cinquanta, si dirige alla sede che gli è stata destinata per svolgere il suo compito di scrutatore. Il racconto s’intitola appunto La giornata d’uno scrutatore e, tenendo fede a questa perfetta unità temporale (aristotelicamente, tutto si svolge dal mattino presto al calar della sera, e il luogo rimane sempre lo stesso), Calvino piomba il suo personaggio problematico in uno spazio assolutamente anomalo, la torinese Piccola Casa della Divina Provvidenza, detta dal nome del suo fondatore “Cottolengo”, l’«enorme ospizio» creato con lo scopo di «dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere». Stando alla teoria romanzesca di György Lukács1 (che in quegli anni viene molto discussa), siamo di fronte all’ennesima «ricerca degradata di valori autentici in un mondo degradato». Amerigo assisterà, come in un dramma medievale, a una serie di apparizioni che mandano in pezzi il suo sistema intellettuale di illuminista e di razionalista, lasciandogli appena la tenue traccia per ridisegnare una linea di sopravvivenza. Il suo nome, doppiamente allusivo, contiene l’anagramma della parola “amore” (Ormea) e rievoca l’esploratore che si inoltra nel mondo sconosciuto (Amerigo, come Vespucci). La scoperta dell’amore (di un nuovo significato della parola amore) diventa a un certo punto l’evento che consente ad Amerigo di elaborare un seppur risicato pensiero di sopravvivenza.
Secondo una dialettica perversa, tutti gli aspetti del reale che si mostrano in questa descensio ad inferos2 (Amerigo «aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo») sono reversibili, e reversibili sono i concetti che il personaggio ha a disposizione per leggere le cose («le due facce della stessa foglia di carciofo», spiega la voce narrante con un’immagine ripescata da Leopardi, e poi utilizzata anni dopo per Gadda). A cominciare dal Cottolengo, edificio cresciuto dalla metà dell’Ottocento secondo il modello di una costruzione industriale: una vera «città nella città cinta di mura e soggetta ad altre

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regole», che ricopre la superficie di un intero quartiere. In esso si confondono i caratteri del vecchio stabilimento industriale, del luogo di accoglienza benefica, dell’ospedale e del manicomio, della prigione e dell’infelicità offesa («Nel crudele gergo popolare, poi, quel nome era divenuto, per traslato, epiteto derisorio per dire deficiente, idiota, anche abbreviato, secondo l’uso torinese, alle sue prime sillabe: cutu»), per arrivare fino all’immagine che pervade la mente di Amerigo: il Cottolengo come luogo di dominio di un potere che sfrutta la disgrazia per ricavarne beneficio. Qui, ammettendo al voto coloro che sono incapaci di intendere e come tali vengono pilotati, il partito di governo, la Democrazia Cristiana, può contare su un nutrito pacchetto di elettori per far passare quella che viene definita legge-truffa («la coalizione che avesse preso il 50% + 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi»). Ma in questo caso siamo sempre nell’ordine della storia, o meglio ancora della cronaca. L’avventura di Amerigo subisce una svolta consistente quando dal piano della storia scivoliamo al piano meno sicuro e razionalizzabile della natura, che gli si mostra improvvisamente con tutte le ambiguità della nuda biologia.
I primi gesti (arredare il seggio, creare lo spazio adatto per le pratiche del voto utilizzando uno squallido parlatorio) significano per Amerigo prendere possesso di una realtà nuova. Lo stanzone del seggio è innanzitutto uno di quei luoghi «omogenei», resi uguali dallo stesso «anonimo grigiore amministrativo», ma è anche il luogo di un nuovo inizio, di un nuovo possibile inizio. L’atto di preparare la sezione, con i manifesti, le cabine, i tavoli, le urne, dà origine a un dispiegarsi di energie che riproduce, debolmente, tutti gli inizi storici a cui Amerigo può pensare: l’inizio di una nuova vita civile dopo la Liberazione e l’inizio della vita stessa lì al Cottolengo. In ambedue i casi si tratta di momenti in cui «non era l’interesse che contava, ma la vita». Attraverso Amerigo, Calvino sottolinea che queste aperture della storia sono caratterizzate da un massimo di energia vitale, i tempi «in cui tutte le energie sono tese, in cui non esiste che il futuro». Sono zone marcate da una forte tensione, ma anche da una forte deperibilità: lo sforzo degli inizi non può mantenersi a lungo, si tratta proprio di una questione più biologica che storica. Ma una volta esauritosi il primo slancio vitale, la storia ricopre con le sue forme omogenee ogni tipo di attività umana. Così, lo stanzone del seggio è un luogo-tempo degli inizi, incarna anche se debolmente l’apertura del futuro, e ugualmente (proprio perché la mente di Amerigo sovrappone scenari diversi costringendosi a un pensiero stratificato) annuncia già la ripetizione dell’abitudine, il risorgere di ruoli codificati. Calvino usa al proposito una parola forte come «festa» (parola che getta un riverbero sull’ultimissima pagina del racconto).
Amerigo sente intorno a sé l’eccitazione della festa, anche se in questa eccitazione per lui risuona già «la nota falsa», il ritornare cioè del solito itinerario burocratico elettorale che vedrà nascere la consueta divisione in schieramenti avversi. Ma proprio perché si è aperta questa possibilità di stacco dall’ordine delle cose, proprio perché il seggio è un luogo nuovo dentro un luogo anomalo (e tutti e due, imbricandosi,3 rappresentano l’alterità rispetto a ciò che si trova fuori), Amerigo e gli altri suoi compagni (o nemici) d’avventura prevedono che in quello spazio può manifestarsi l’assurdo, «una presenza, forse una sfida». Se gli abitanti del Cottolengo hanno percepito nell’aria la presenza di un nemico che è entrato nel loro mondo, e rispondono con un sussulto di vitalismo alla presenza di questo estraneo, l’estraneo capisce invece che c’è qualcosa di più e che è quel luogo a evocare il manifestarsi di un’inaspettata apparizione. Il che puntualmente avviene:

E ci fu una pausa nel flusso dei votanti, e si sentì un passo, come un arrancare, anzi un battere d’assi, e tutti quelli del seggio guardarono alla porta. Sulla porta apparve una donnetta,

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bassa bassa, seduta su uno sgabello; ossia, non propriamente seduta, perché non posava le gambe per terra, né le penzolava, né le teneva ripiegate. Non c’erano, le gambe. Questo sgabello, basso, quadrato, un panchetto, era coperto dalla gonna, e sotto – sotto alla vita, alle anche della donna – non pareva che ci fosse più niente: spuntavano solo le gambe del panchetto, due assi verticali, come le zampe d’un uccello.

La donna senza gambe, la donna-sgabello (dire donna–uccello sarebbe già usare una metafora di natura mitica con un forte valore estetizzante) è il primo esemplare della lunga serie di freaks, dell’esercito dei semi uomini, degli individui mostruosi che sfilano di fronte agli scrutatori. Amerigo li identifica subito come i rappresentanti di «un’Italia nascosta […] il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina per le strade e che pretende e che produce e che consuma». Un popolo ombra, una stirpe di reclusi: come gli abitanti di un mondo parallelo sopravvissuto nella protezione del ghetto, tra le mura dell’ospizio, e che adesso si presenta per lasciare comunque il proprio segno nella Storia, esprimendo un voto che dovrebbe essere garanzia di uguaglianza e che è (anche) risultato di una ulteriore oppressione, di una manipolazione che la stessa Storia avalla. Deformità contro normalità, uguaglianza contro oppressione. Da questi contrasti concettuali Amerigo non sfugge. Ma la faglia che si è aperta con l’instaurarsi del seggio (e col suo stesso entrare nello spazio del Cottolengo) è simile a quei passaggi dai quali nel poema epico i morti parlavano con i vivi, e nel romanzo di fantascienza gli individui passano da una dimensione del tempo a un’altra. E che si tratti di una situazione mitica, quasi magica, lo confessa il narratore stesso, quando interpreta le sensazioni del suo personaggio di fronte alla lunga sequela dei votanti, in gran parte donne, tutte uguali, tutte impregnate dell’atmosfera del luogo in cui hanno passato la vita. Amerigo vorrebbe chiudere gli occhi, per non vedere, «come se quella processione di ricoverati emanasse un fluido ipnotico, lo facesse prigioniero d’un mondo diverso». È il gesto dell’eroe che deve difendersi dalle forze oscure del mito, gesto che però Amerigo non ripete scegliendo invece di guardare e pensare, contemporaneamente. Calvino crea un intero capitolo, il quinto, fondato sul montaggio alterno delle azioni (si presenta a votare un’elettrice senza documenti) e dei pensieri di Amerigo, chiusi tra parentesi, come un monologo interiore che già, nella scelta della forma, esprime il farsi strada di un impulso irrazionale nel personaggio e una conseguente spinta razionalizzatrice nel narratore. «(D’improvviso gli venne da pensare a un mondo in cui non ci fosse più la bellezza. Ed era alla bellezza femminile che pensava)»: l’insinuarsi di questo pensiero – la bellezza – costituisce un elemento anomalo nell’opera di Calvino. Non che manchino riferimenti nelle altre opere – basta pensare a che cosa rappresenta Viola nella vita di Cosimo, il barone rampante – ma è solo qui che la bellezza del corpo femminile occupa il centro del discorso, in rapporto stretto e complementare con la fisicità deforme e mostruosa di coloro che occupano gli spazi del Cottolengo. Alla fine del capitolo precedente, Amerigo aveva già chiara l’opposizione tra l’idea di uomo «come protagonista della Storia» e quella di «carne d’Adamo misera e infetta» che è necessaria alla Chiesa per rimettere ogni salvezza nelle mani di Dio. Azzerate le differenze, tutti i corpi diventano uguali «in faccia all’onniscienza e all’eterno». Questa è la soluzione che permetterebbe di accettare, senza traumi, la realtà del mostruoso, l’imperfezione della Storia. Per Amerigo è una trappola. Per Calvino pure. La Storia si riduce così a un piatto panorama dove ogni intenzione individuale perde di significato. È la passiva regressione nel biologico, che in questo stesso periodo, sul “Menabò”, Calvino chiama «il mare dell’oggettività», l’arrendersi all’esterno dichiarando sconfitta ogni «tensione ideale». Amerigo non può neppure

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cercar salvezza all’esterno, ricorrendo al pensiero della compagna Lia di cui ora diventa persistente il ricordo del corpo:

E quello che ora ricordava di Lia era la pelle, il colore, e soprattutto un punto del suo corpo – dove la schiena fa una arco, netto e teso a percorrere con la mano, e poi subito s’alza dolcissima la curva dei fianchi –, un punto in cui ora gli pareva si concentrasse la bellezza del mondo, lontanissima, perduta.

Amerigo sa benissimo di essere dentro un’altra realtà, la realtà della donna senza gambe, delle giovani elettrici ritardate e delle suore, tutte uguali. È naturale che si inneschi un nuovo processo di deduzioni logiche, proprio a partire dalla realtà del Cottolengo. Il pensare la bellezza provoca, come contraccolpo, la distanza dalla bellezza stessa. Amerigo, e con lui il Calvino allievo del pensiero fenomenologico, deve far i conti con il fatto che «questo, di mondo, questo del Cottolengo, ora riempiva talmente la sua esperienza che pareva il solo vero». E allora si tratta di riprendere la suggestione sull’origine che abbiamo visto (origine di un sistema, origine di un individuo) e di trapiantarla in un ipotetico nuovo corso dell’evoluzione. Calvino può accettare il mostruoso e il deforme, ciò che biologicamente è deviante, ma non vuole lasciarlo interamente fuori dalla Storia. Apre quindi lo spazio del possibile. Se l’evoluzione avesse seguito altri percorsi, se ci fossero state reazioni diverse a qualche cataclisma preistorico, il Cottolengo potrebbe essere «il solo mondo al mondo». L’evoluzione, anzi, potrebbe un giorno prendere questa strada, «se è vero che le radiazioni atomiche agiscono sulle cellule che racchiudono i caratteri della specie». La nuova specie di esseri mostruosi sarebbe l’unica specie capace di riconoscersi, e di concepirsi in quanto umana. Ammesso che la Storia ricominci da qui, da questa autocoscienza, il popolo del Cottolengo può dunque aspirare a una sua storia. Una volta eliminato il confronto con l’esterno (i “normali”, Lia, la bellezza) il mondo deforme inizia a pensare se stesso come società, come unica società, e il mondo dei normali, espulso dalla Storia, resta presente solo come ricordo di un passato mitico, «un mondo di giganti, un Olimpo ». Amerigo capovolge così letteralmente i rapporti tra due realtà diverse. Colloca alla base della Storia (di una Nuova Storia) la realtà di coloro che sono concepiti solo come deviazione dalla Natura, e proietta in un passato mitico (fuori dalla Storia) coloro che invece credono di esserne gli attori protagonisti. Questa soluzione, drammatica per Amerigo («più la possibilità che il Cottolengo fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva, più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito»), diventa per Calvino, nello stesso momento in cui porta a termine La giornata, il motivo conduttore di una visione comica del mondo che si manifesta con enorme spinta creativa nei racconti cosmicomici. Attraverso la maschera di Amerigo, come Perseo difeso dallo scudo specchiato di fronte alla Medusa, Calvino può iniziare a concepire l’ipotesi di una deviazione biologica nella Storia che non sia concessione all’irrazionale e all’inconscio. E nello stesso tempo riesce a elaborare una nuova versione dell’umano liberandola dall’allegoria della scissione e dell’incompletezza che caratterizzava, a vario livello, i tre personaggi degli Antenati: Visconte, Barone, Cavaliere.


Marco Antonio Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2005

Al cuore della letteratura - volume 6
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Dal Novecento a oggi