La critica alla società del benessere

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Italo Calvino

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il brano presenta, in apertura, la descrizione dello spazio in cui si svolgono le vicende: una sorta di “paradiso perduto”, quello della riviera ligure un tempo totalmente ricoperta da una splendida e rigogliosa vegetazione, fitta di frutteti e di boschi, con le chiome degli alberi che creano un mondo parallelo, alternativo a quello terreno. In questa natura aggrovigliata e tortuosa, nella quale ha preso dimora, Cosimo vive la sua prima avventura, indicando a un branco di ladruncoli di frutta, inseguiti dai contadini, come mettersi in salvo fuggendo sugli alberi.

L’episodio proietta il lettore in una dimensione picaresca, che risulta fondamentale nel romanzo. Fughe e inseguimenti si susseguono continuamente in un universo labirintico, dominato dall’avventura e dal succedersi – freneticamente ariostesco – di imprevisti e peripezie.
Allo stesso tempo, si delineano da subito le caratteristiche di Cosimo: egli è curioso e desideroso di conoscere, ed è spinto a infrangere le ingiunzioni familiari (r. 73) per cercare qualcosa che gli appare ancora indefinito. A guidarlo nell’impresa di dominare il nuovo mondo arboreo è la capacità di analizzare la situazione e di trovare sempre una soluzione razionale agli ostacoli che gli si presentano e che si frappongono alla realizzazione dei suoi desideri.
Il protagonista è ritratto come un solitario osservatore della vita umana che, pur essendo separato dalla società, non rinuncia a conoscerne i meccanismi, a illustrarne pregi e difetti, a mettere al servizio del prossimo le proprie esperienze. Grazie allo sguardo panoramico di cui può godere dall’alto, Cosimo finisce per capire il mondo che lo circonda meglio di coloro che si trovano a terra, sebbene questo potenziamento della propria coscienza sia pagato con l’esclusione dalla vita di comunità.

Il barone rampante può essere in tal modo assimilato a un contestatore intellettuale, la cui disobbedienza è di qualità superiore – più raffinata, più drastica e più determinata – in confronto a quella dei ladri di frutta con le loro bravate. Il rigore della volontà di Cosimo è simboleggiato qui dalla destrezza e dalla pertinacia con cui egli riesce a guadagnare la via dei rami, anche quando altri, considerati esperti (cioè i ladruncoli), desistono. È del resto Calvino stesso, nel presentare il romanzo, ad affermare che la prima lezione da trarre dal libro è che «la disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella».

Le scelte stilistiche

Il brano mostra il tono dell’intera opera: dopo l’espressionismo delle prime prove neorealiste, Calvino dà vita a una scrittura sempre più limpida. Nella ricerca del lessico più appropriato, l’autore non rinuncia a termini rari (sbiocca, r. 17), ma presenta anche vocaboli coloriti (battichiappe, r. 82) ed espressioni dialettali (Cuiasse! Belinùi!, r. 95). Frequenti sono le costruzioni tipiche del parlato (Cos’è ch’è qui che cerca questo qui?, r. 77).
All’agile scatto dei dialoghi, ridotti all’essenziale nell’intento di restituire il frangente concitato in cui avvengono, fanno riscontro le parti più propriamente narrative e descrittive, con il dilatarsi dell’ordine sintattico attraverso il ricorso a semplici paratassi* o a ordinate ipotassi*.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Come e perché, secondo quanto riportato dalla voce narrante, è cambiato nel tempo l’ambiente in cui si svolge la vicenda?


2 Che cosa intende il narratore quando dice: pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege (r. 62)?


ANALIZZARE

3 Individua le frasi attraverso le quali il narratore spiega perché quello d’Ombrosa è ormai un paradiso perduto.


4 A quali sostantivi, aggettivi e verbi ricorre il narratore per descrivere l’universo arboreo di Cosimo come una sorta di labirintico “nuovo mondo”, alternativo a quello terreno?


INTERPRETARE

5 Nel brano si racconta di quando il golfo di Ombrosa era ancora coperto da una fitta vegetazione. Secondo te il narratore rimpiange quel tempo passato?


6 Dalle parole del narratore trapela un certo orgoglio nei confronti di Cosimo e delle sue imprese? Perché?


PRODURRE

La tua esperienza

7 L’intera esistenza di Cosimo è determinata da un ferreo vincolo che egli si è imposto di sua volontà (non scendere mai dagli alberi). Ti è mai capitato di vivere un’esperienza che ha acquisito una forza particolare proprio in virtù delle difficili condizioni entro cui si è svolta? Riferiscine in un testo narrativo di circa 30 righe.


La critica alla società del benessere

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo Calvino si pone l’obiettivo di osservare e interpretare le tendenze della società industriale e gli effetti sociali, culturali e antropologici derivati dal miracolo economico. Sviluppando riflessioni su tematiche quali l’inquinamento, la lotta sindacale, l’alienazione sul lavoro, la pubblicità, il consumismo, lo scrittore esercita una lucida critica alla società del benessere, che cambia le abitudini, i gusti e le aspirazioni delle famiglie italiane.

Calvino ritiene che lo scrittore abbia la responsabilità di non «perdersi nel labirinto» della civiltà moderna, e di indicare all’umanità le vie per salvarsi dall’alienazione acquisendo una coscienza critica dei processi in atto.
Per descrivere i guasti della società neocapitalista, egli adotta in questa fase della sua produzione letteraria due soluzioni: da una parte l’impostazione analitica, che dipinge criticamente la realtà, elaborata nelle opere del filone che abbiamo definito realistico–contemporaneo; dall’altra il distacco ironico, sperimentato soprattutto con l’invenzione del personaggio malinconico e sprovveduto di Marcovaldo.

L’approccio analitico viene utilizzato da Calvino per esempio nei racconti lunghi a sfondo sociale La nuvola di smog e La speculazione edilizia (confluiti nell’antologia I racconti del 1958). In questi testi, nei quali la vita umana appare minacciata dall’incombere di una nube tossica o dall’assenza di moralità tipica dei parvenu arricchitisi con la speculazione edilizia, l’autore ritrae il paesaggio urbano del boom economico, fagocitato dalle esalazioni chimiche e travolto dalla cementificazione selvaggia.

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Ben diverso è lo sguardo che getta sul mondo il manovale Marcovaldo, sebbene con implicazioni simili a quelle proposte dai Racconti. Il protagonista dell’omonimo romanzo è un contadino inurbato, un «povero diavolo» alla Charlie Chaplin (secondo quanto suggerito dall’autore stesso), nostalgico del proprio mondo rurale poiché imprigionato nell’universo estraneo ed estraniante costituito dalla città industriale. Ridotto a una sorta di buffo fantoccio, egli denuncia inconsapevolmente le trasformazioni avvenute in seno alla «società opulenta»: Calvino ne segue le vicissitudini con una pietà sorridente e comica, la quale lascia però trasparire la rappresentazione della dolorosa condizione di migliaia di uomini e donne che hanno smarrito per sempre, nella giungla d’asfalto, la semplicità del mondo contadino.
La città in cui Marcovaldo vive non ha un nome: sebbene alcuni tratti la apparentino a Torino, essa è la città per antonomasia, con i suoi ritmi frenetici e i suoi meccanismi opprimenti. Allo stesso modo, non si viene mai a sapere che cosa produca la ditta per cui il protagonista lavora, la Sbav: essa è, come scrive l’autore, una di quelle fabbriche anonime «che regnano sulle persone e sulle cose del nostro tempo».
All’interno di queste deprimenti coordinate spaziali, Marcovaldo è capace di vedere dove tutti gli altri non posano neppure lo sguardo, riuscendo ancora a cogliere il riaffiorare delle stagioni in uno spazio urbano che, al contrario, è avviato all’annullamento della natura. Il risultato è un comico e straniante attrito tra le speranze e i sogni di un uomo ancora sorretto da un candido ottimismo e la disincantata ironia di una voce narrante onnisciente che, conferendo al racconto un tono tragicomico, sembra svelare una verità surreale: la città non è un posto adatto agli uomini.

 T3 

La pietanziera

Marcovaldo, cap. 7


All’ora di pranzo, il manovale Marcovaldo siede sulla panchina di un viale e svita il coperchio della sua pietanziera, pregustando le gioie che dovrebbero giungergli dai profumi e dai sapori del desco familiare. Ma non sempre l’attesa si traduce in realtà; un giorno d’autunno, dopo aver scoperto che il contenitore ospita l’ennesimo pasto deludente preparatogli dalla moglie, inizia a vagare per le strade della città in preda alla tristezza, finché trova il modo di dare una svolta alla sua pausa. Il capitolo è collocato nella sezione Autunno.

Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto
nell’essere svitabile. Già il movimento di svitare il coperchio richiama
l’acquolina in bocca, specie se uno non sa ancora quello che c’è dentro, perché
ad esempio è sua moglie che gli prepara la pietanziera ogni mattina. Scoperchiata
5 la pietanziera, si vede il mangiare lì pigiato: salamini e lenticchie, o uova sode
e barbabietole, oppure polenta e stoccafisso, tutto ben assestato in quell’area di
circonferenza come i continenti e i mari nelle carte del globo, e anche se è poca
roba fa l’effetto di qualcosa di sostanzioso e di compatto. Il coperchio, una volta
svitato, fa da piatto, e così si hanno due recipienti e si può cominciare a smistare
10 il contenuto.

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Il manovale Marcovaldo, svitata la pietanziera e aspirato velocemente il profumo,
dà mano alle posate che si porta sempre dietro, in tasca, involte in un fagotto,
da quando a mezzogiorno mangia con la pietanziera anziché tornare a casa. I primi
colpi di forchetta servono a svegliare un po’ quelle vivande intorpidite, a dare il
15 rilievo e l’attrattiva d’un piatto appena servito in tavola a quei cibi che se ne sono
stati lì rannicchiati già tante ore. Allora si comincia a vedere che la roba è poca, e si
pensa: «Conviene mangiarla lentamente», ma già si sono portate alla bocca, velocissime
e fameliche, le prime forchettate.
Per primo gusto si sente la tristezza del mangiare freddo, ma subito ricominciano
20 le gioie, ritrovando i sapori del desco familiare, trasportati su uno scenario
inconsueto. Marcovaldo adesso ha preso a masticare lentamente: è seduto sulla
panchina d’un viale, vicino al posto dove lui lavora; siccome casa sua è lontana e
ad andarci a mezzogiorno perde tempo e buchi nei biglietti tramviari, lui si porta
il desinare nella pietanziera, comperata apposta, e mangia all’aperto, guardando
25 passare la gente, e poi beve a una fontana. Se è d’autunno e c’è sole, sceglie i posti
dove arriva qualche raggio; le foglie rosse e lucide che cadono dagli alberi gli fanno
da salvietta;1 le bucce di salame vanno a cani randagi che non tardano a divenirgli
amici; e le briciole di pane le raccoglieranno i passeri, un momento che nel viale
non passi nessuno.
30 Mangiando pensa: «Perché il sapore della cucina di mia moglie mi fa piacere
ritrovarlo qui, e invece a casa tra le liti, i pianti, i debiti che saltano fuori a ogni
discorso, non mi riesce di gustarlo?» E poi pensa: «Ora mi ricordo, questi sono gli
avanzi della cena d’ieri». E lo riprende già la scontentezza, forse perché gli tocca di
mangiare gli avanzi, freddi e un po’ irranciditi, forse perché l’alluminio della pietanziera
35 comunica un sapore metallico ai cibi, ma il pensiero che gli gira in capo
è: «Ecco che l’idea di Domitilla2 riesce a guastarmi anche i desinari lontano da lei».
In quella, s’accorge che è giunto quasi alla fine, e di nuovo gli sembra che quel
piatto sia qualcosa di molto ghiotto e raro, e mangia con entusiasmo e devozione
gli ultimi resti sul fondo della pietanziera, quelli che più sanno di metallo. Poi,
40 contemplando il recipiente vuoto e unto, lo riprende di nuovo la tristezza.
Allora involge e intasca tutto, s’alza, è ancora presto per tornare al lavoro, nelle
grosse tasche del giaccone le posate suonano il tamburo contro la pietanziera vuota.
Marcovaldo va a una bottiglieria e si fa versare un bicchiere raso all’orlo; oppure
in un caffè e sorbisce una tazzina; poi guarda le paste nella bacheca di vetro, le
45 scatole di caramelle e di torrone, si persuade che non è vero che ne ha voglia, che
proprio non ha voglia di nulla, guarda un momento il calciobalilla per convincersi
che vuole ingannare il tempo, non l’appetito. Ritorna in strada. I tram sono di
nuovo affollati, s’avvicina l’ora di tornare al lavoro; e lui s’avvia.
Accadde che la moglie Domitilla, per ragioni sue, comprò una grande quantità
50 di salciccia. E per tre sere di seguito a cena Marcovaldo trovò salciccia e rape. Ora,
quella salciccia doveva essere di cane; solo l’odore bastava a fargli scappare l’appetito.
Quanto alle rape, quest’ortaggio pallido e sfuggente era il solo vegetale che
Marcovaldo non avesse mai potuto soffrire.
A mezzogiorno, di nuovo: la sua salciccia e rape fredda e grassa lì nella pietanziera.
55 Smemorato com’era, svitava sempre il coperchio con curiosità e ghiottoneria,

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senza ricordarsi quel che aveva mangiato ieri a cena, e ogni giorno era
la stessa delusione. Il quarto giorno, ci ficcò dentro la forchetta, annusò ancora
una volta, s’alzò dalla panchina, e reggendo in mano la pietanziera aperta s’avviò
distrattamente per il viale. I passanti vedevano quest’uomo che passeggiava con in
60 una mano una forchetta e nell’altra un recipiente di salciccia, e sembrava non si
decidesse a portare alla bocca la prima forchettata.
Da una finestra un bambino disse: – Ehi, tu, uomo!
Marcovaldo alzò gli occhi. Dal piano rialzato di una ricca villa, un bambino
stava con i gomiti puntati al davanzale, su cui era posato un piatto.
65 – Ehi, tu, uomo! Cosa mangi?
– Salciccia e rape!
– Beato te! – disse il bambino.
– Eh… – fece Marcovaldo, vagamente.
Pensa che io dovrei mangiare fritto di cervella…
70 Marcovaldo guardò il piatto sul davanzale. C’era una frittura di cervella morbida
e riccioluta come un cumulo di nuvole. Le narici gli vibrarono.
– Perché: a te non piace, il cervello?… – chiese al bambino.
– No, m’hanno chiuso qui in castigo perché non voglio mangiarlo. Ma io lo
butto dalla finestra.
75 – E la salciccia ti piace?…
– Oh, sì, sembra una biscia… A casa nostra non ne mangiamo mai…
– Allora tu dammi il tuo piatto e io ti do il mio.
– Evviva! – Il bambino era tutto contento. Porse all’uomo il suo piatto di maiolica
con una forchetta d’argento tutta ornata, e l’uomo gli diede la pietanziera colla
80 forchetta di stagno.
Così si misero a mangiare tutti e due: il bambino al davanzale e Marcovaldo
seduto su una panchina lì di fronte, tutti e due leccandosi le labbra e dicendosi che
non avevano assaggiato mai un cibo così buono.
Quand’ecco, alle spalle del bambino compare una governante colle mani sulle
85 anche.
– Signorino! Dio mio! Che cosa mangia?
– Salciccia! – fa il bambino.
– E chi gliel’ha data?
– Quel signore lì, – e indicò Marcovaldo che interruppe il suo lento e diligente
90 mastichio d’un boccone di cervello.
– Butti via! Cosa sento! Butti via!
– Ma è buona…
– E il suo piatto? La forchetta?
– Ce l’ha il signore… – e indicò di nuovo Marcovaldo che teneva la forchetta in
95 aria con infilzato un pezzo di cervello morsicato.
Quella si mise a gridare: – Al ladro! Al ladro! Le posate! Marcovaldo s’alzò,
guardò ancora un momento la frittura lasciata a metà, s’avvicinò alla finestra, posò
sul davanzale piatto e forchetta, fissò la governante con disdegno, e si ritrasse.
Sentì la pietanziera rotolare sul marciapiede, il pianto del bambino, lo sbattere
100 della finestra che veniva richiusa con mal garbo. Si chinò a raccogliere pietanziera
e coperchio. S’erano un po’ ammaccati; il coperchio non avvitava più bene. Cacciò
tutto in tasca e andò al lavoro.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi