Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Carlo Emilio Gadda

LETTURE critiche

Il Pasticciaccio e lo sguardo sulla realtà

di Pietro Citati

Prima di diventare uno dei più noti critici italiani del Novecento, Pietro Citati (n. 1930) è stato il giovane editor che l’editore Livio Garzanti affiancò a Gadda durante l’ultima stesura del Pasticciaccio. Stabilì con lui un rapporto duraturo di amicizia e fu uno dei primi e più generosi difensori dell’opera gaddiana, attaccata in quegli anni da più parti. Il suo contributo analizza il rapporto dell’autore con la realtà e con il dialetto, rapporto contraddistinto da un sentimento di attrazione e repulsione.

Nell’opera di Gadda, il Pasticciaccio è un libro unico. Mai egli aveva conosciuto come qui, senza requie né interruzioni, una felicità vitale così piena: un simile respiro, un tale abbandono, un tale abbraccio del mondo; una fantasia sempre rinnovata, cosi ricca, divertente, inesauribile. Non c’è più traccia (o quasi) della nevrosi della Cognizione, come se la confessione e l'espiazione lo avessero liberato: né della bile e del furor, che erano esplosi, pochi mesi prima, in Eros e Priapo, e che nei libri successivi avrebbero continuato ad accompagnarlo, continui come la sua nevrastenia e la sua raffinatissima arte della nevrastenia.
Per lui la realtà era sempre stata qualcosa di turpe. Il dialetto, che rappresentava il lato pittoresco della realtà, suscitava nel suo animo, dice una nota della Cognizione, «un’indicibile repugnanza»: il lombardo con i suoi barbari borborigmi ossitoni,1 il romanesco con la sua bonarietà facilona. Per rappresentare la volgarità della vita, egli doveva vincere una fortissima resistenza interiore. Forse gli sembrava di commettere un’infrazione. Gli pareva di offendere le nobili «idee» platoniche della Natura, quel mondo di miti alberi centenari, di biondi eroi vinti dalla malvagità della sorte, di uomini dediti a compiere silenziosamente il proprio dovere, al quale sentiva di appartenere con tutta l’anima.
Appena un frammento colorato di esistenza, la pronuncia di un contadino brianzolo o di una portiera romana gli giungevano davanti agli occhi o gli colpivano l’orecchio, avveniva in lui un completo capovolgimento: più forte di qualsiasi inibizione, sopraffacendo e spezzando qualsiasi resistenza, irrompeva nell’anima di Gadda un’ondata di caldissima simpatia per le cose. Allora, di colpo, egli entrava nelle case, percorreva le strade, frequentava i mercati, come se questo fosse veramente il suo mondo, invece che un paese occupato da una stirpe nemica. Con un’allegria quasi infantile, con una improvvisa estroversione, fissava l’impagabile foresta di colori e di suoni. Quando cominciò il Pasticciaccio, si accorse che non aveva mai amato tanto la realtà. Non esisteva più, a dividerlo dalle cose, l’elegante e ironica fissazione dall’Adalgisa: veniva posseduto da una specie di esaltante cupidigia, dalla voracità di tutto vedere, ascoltare e divorare. Non aveva più limiti: si adattava a far crescere in sé come una pianta l’enorme bêtise2 della vita, a deformarsi, a fingere di essere sciocco, diventando l’impagabile Manuela Pettacchioni3 di sé stesso. In

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quel momento, scoppiava in lui il riso: la risata pura, imprevista e imprevedibile, senza più malumori né isterie né furori, la risata infantile e assoluta, che si scioglieva nell’immenso calderone della realtà.
La realtà formicolava. Gadda fissava attentamente il suo occhio avido sopra di lei: dimenticando di dover scrivere un romanzo e di macchinare un intreccio, si soffermava su un piccolo particolare senza funzioni narrative — una pagnottella imbottita, una gallina guercia, gli alluci di due santi in un affresco. Questi dettagli entravano in rapporto tra loro: nel minimo si rifletteva il massimo, la storia antica di Roma, le leggi della natura e il segno di Dio si intravedevano in fondo a un pitale pieno di noci, in una casupola della campagna romana. Ma questa molteplicità non bastava a Gadda. Voleva la contaminazione e la fusione. Davanti al Palazzo degli Ori, o al mercato di piazza Vittorio, nei «vortici della gran fiera magnara», i pesci, le trippe, i capretti, le lattughe, le galline vive, i peperoni secchi, le noci e le massaie simili a «grasse carpie» formavano un impasto unico, un unico inestricabile conglomerato, una sola polpa dove si sciolgono tutte le parti e i regni dell’universo. Così, nel Pasticciaccio, la realtà assunse uno spessore, una densità e un volume enormi, come soltanto in alcune parti della Recherche.4 Mentre leggiamo, ci sentiamo presi, coinvolti e quasi schiacciati, dentro il rilievo del mondo. Penetriamo a fatica, resistendo, riluttando, e poi via via sempre più affascinati ci muoviamo tra la serie dei rapporti, tra gli strati della lingua e delle metafore, come se sempre più profondamente scendessimo tra le falde successive della creazione.
Di fronte alla realtà, si innalza la figura grandiosa del Narratore. La sua voce non è quella di Gadda: ma Gadda la nutre con la sua cultura, i suoi sentimenti, le sensazioni, le rabbie, il senso teatrale, fino a trasformarlo in un personaggio; più grande, forte, nobile, abbietto e pittoresco di tutti i personaggi suscitati dalla sua immaginazione. È sempre lì, davanti ai nostri occhi, come un istrione regale, che commenta intellettualmente, visivamente, fonicamente lo svolgersi dei fatti: ora accusa, ora irride, ora compiange. Forse nessun’altra figura di Narratore. Nel romanzo europeo del Novecento, possiede questa trionfale vastità di respiro. Non ha un volto solo, né una voce sola: se la realtà è molteplice, anche il Narratore si trasforma in un corteo molteplice di narratori, ognuno dei quali possiede un'esistenza biologicamente diversa, e critica e schernisce gli altri. È uno straordinario, pittoresco corteo, come in una cavalcata di Re Magi.


Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, Milano 2008

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi