quel momento, scoppiava in lui il riso: la risata pura, imprevista e imprevedibile, senza più malumori né isterie né furori, la risata infantile e assoluta, che si scioglieva nell’immenso calderone della realtà.
La realtà formicolava. Gadda fissava attentamente il suo occhio avido sopra di lei: dimenticando di dover scrivere un romanzo e di macchinare un intreccio, si soffermava su un piccolo particolare senza funzioni narrative — una pagnottella imbottita, una gallina guercia, gli alluci di due santi in un affresco. Questi dettagli entravano in rapporto tra loro: nel minimo si rifletteva il massimo, la storia antica di Roma, le leggi della natura e il segno di Dio si intravedevano in fondo a un pitale pieno di noci, in una casupola della campagna romana. Ma questa molteplicità non bastava a Gadda. Voleva la contaminazione e la fusione. Davanti al Palazzo degli Ori, o al mercato di piazza Vittorio, nei «vortici della gran fiera magnara», i pesci, le trippe, i capretti, le lattughe, le galline vive, i peperoni secchi, le noci e le massaie simili a «grasse carpie» formavano un impasto unico, un unico inestricabile conglomerato, una sola polpa dove si sciolgono tutte le parti e i regni dell’universo. Così, nel Pasticciaccio, la realtà assunse uno spessore, una densità e un volume enormi, come soltanto in alcune parti della Recherche.4 Mentre leggiamo, ci sentiamo presi, coinvolti e quasi schiacciati, dentro il rilievo del mondo. Penetriamo a fatica, resistendo, riluttando, e poi via via sempre più affascinati ci muoviamo tra la serie dei rapporti, tra gli strati della lingua e delle metafore, come se sempre più profondamente scendessimo tra le falde successive della creazione.
Di fronte alla realtà, si innalza la figura grandiosa del Narratore. La sua voce non è quella di Gadda: ma Gadda la nutre con la sua cultura, i suoi sentimenti, le sensazioni, le rabbie, il senso teatrale, fino a trasformarlo in un personaggio; più grande, forte, nobile, abbietto e pittoresco di tutti i personaggi suscitati dalla sua immaginazione. È sempre lì, davanti ai nostri occhi, come un istrione regale, che commenta intellettualmente, visivamente, fonicamente lo svolgersi dei fatti: ora accusa, ora irride, ora compiange. Forse nessun’altra figura di Narratore. Nel romanzo europeo del Novecento, possiede questa trionfale vastità di respiro. Non ha un volto solo, né una voce sola: se la realtà è molteplice, anche il Narratore si trasforma in un corteo molteplice di narratori, ognuno dei quali possiede un'esistenza biologicamente diversa, e critica e schernisce gli altri. È uno straordinario, pittoresco corteo, come in una cavalcata di Re Magi.
Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, Milano 2008