Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'opera: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

 T4 

Il commissario Ingravallo

Cap. 1


Riportiamo le prime pagine del romanzo, nelle quali viene introdotto il protagonista.

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato
alla mobile:1 uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari
della sezione investigativa: ubiquo ai casi,2 onnipresente su gli affari tenebrosi. Di
statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri
5 e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due
bernoccoli metafisici3 dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura
greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con
una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale4 gli permetteva
di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili
10 però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo,
del nostro mondo detto latino, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo
avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona
di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio
strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista,5 e di chiamate notturne e d’ore
15 senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha
orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». Era, per lei, lo statale6
distintissimo lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del
Messaggero, 7 evocato, pompato fuori8 dall’assortimento infinito degli statali con
quell’esca della «bella assolata affittasi»9 e non ostante la perentoria intimazione
20 in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre,
com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione.10 E poi era riuscito a far
chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… sì della
multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a
metà, la multa, tra governatorato11 e questura. «Una signora come me! Vedova del
25 commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo
conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano,12 non dico perché fosse mio
marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna
santa, piuttosto me butto a fiume».
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva
30 vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come

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pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan,13 nella sua saggezza interrompeva talora
codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica14 idea (idea generale
s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle,
sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano
35 sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello15 illuminatore, rivivevano poi
nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo
un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo
me l’aveva pur detto». Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate16 catastrofi non
sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa
40 al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica17 nella
coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali
convergenti. 18 Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana
vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva
preferentemente 19 di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare
45 in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi,20 da Aristotele
o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione
centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava21 dalle labbra carnose,
ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando22
da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro
50 e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della
faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo23 della parrucca.
Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!…24 già.
Si me chiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de
sberretà…» 25 diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
55 La causale apparente, la causale principe,26 era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto
di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello27 (come
i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba28 in una depressione
ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata
«ragione del mondo».29 Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma
60 questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà».30 Una
tarda riedizione italica del vieto «cherchez la femme».31 E poi pareva pentirsi, come
d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati
nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva
significare 32 che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto33

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65 di affettività,34 un certo «quanto di erotia»,35 si mescolava anche ai «casi
d’interesse», 36 ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche
collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto37 dei molti
danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse
dei libri strani: da cui cavava38 tutte quelle parole che non vogliono dir nulla,
70 o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare39 gli sprovveduti, gli ignari.
Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti.40
Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie41 son da lasciare ai trattatisti:
la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole
della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando
75 non traballi tutta la baracca dei taliani,42 senso di responsabilità e decisione sicura,
moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don
Ciccio, non se ne dava per inteso:43 seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco
vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta,44 regolarmente spenta.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il Pasticciaccio si apre in modo piuttosto tradizionale, descrivendo il protagonista innanzitutto dal punto di vista esteriore, un po’ come accade nei romanzi dell’Ottocento. Veniamo a conoscenza del suo lavoro, del suo aspetto fisico, del modo in cui si presenta (l’aria assonnata, l’andatura stanca), della condizione economica (vestito in maniera dignitosa ma poveramente, abita a pensione e dunque non ha una casa sua), del suo luogo d’origine, dell’età. Lo osserviamo poi da un punto di vista particolare, quello della padrona di casa, che ne esalta il ruolo (lo statale distintissimo, rr. 16–17) e la solerzia sul lavoro (spesso torna a casa tardi).

Dal secondo capoverso, lo sguardo si sposta dall’esterno all’interno, e apprendiamo qualcosa di più sul modo di pensare di Ingravallo. In particolare, viene enucleato in queste prime pagine un concetto cardine della sua visione del mondo: alla base del suo pensiero (e, di conseguenza, della sua metodologia operativa) sta la convinzione che i fatti non sono mai la conseguenza di una sola causa, ma sono il risultato di più cause, che rendono ogni evento un garbuglio (r. 42) intricato.
La teoria del commissario corrisponde alla filosofia dell’autore, secondo il quale la realtà è un insieme caotico o una trama indissolubile di fili: le causali convergenti (rr. 41– 42) di Ingravallo, destinate a sfociare negli imprevedibili accidenti dell’esistenza, simboleggiano il «pasticciaccio» di un assurdo mondo moderno, in cui l’impresa di giungere a forme stabili di conoscenza risulta impossibile.

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Nell’ultimo capoverso si passa alla percezione che del commissario hanno gli altri, il coro di colleghi, preti e uscieri che – tutti insieme – lo considerano astratto, inconcludente, privo del necessario pragmatismo: quanto dice don Ciccio è frutto di strambe filosoficherie (r. 72), che poco hanno a che fare con la pratica dei commissariati (r. 73), la quale esigerebbe sicurezza e determinazione, mentre lui dà l’idea di essere irresoluto e sbadato (ha un’aria un po’ assonnata, r. 6, un fare un po’ tonto, r. 7, un quasi–ghigno, tra amaro e scettico, rr. 49-50). Questo coro rappresenta il senso comune, che non sa o non vuole andare oltre l’apparenza delle cose, che si ferma alle grandezze visibili: si possono cogliere in esso quei tratti di faciloneria e pressapochismo che Gadda rinfacciava agli esponenti del fascismo. Il riferimento alla sconquassata baracca dei taliani (r. 75), in opposizione alla declamata moderazione civile (r. 76) e al polso fermo (r. 76), lascia già trapelare l’insofferenza di Ingravallo (e di Gadda) verso il regime, un’insofferenza che nelle pagine successive si trasformerà in rabbiosa violenza.

Le scelte stilistiche

L’impressione suggerita dalle prime righe del brano che la descrizione sia affidata dall’autore a una voce onnisciente, sia pure lievemente ironica, secondo una modalità tipicamente manzoniana, è destinata presto a cadere. La frequenza dei sintagmi dubitativi testimonia il venir meno di ogni sua certezza e l’affacciarsi di ipotesi e opinioni ambigue: non si sa perché (r. 2), o forse un po’ tozzo (r. 4), una o due macchioline d’olio (r. 9). Chi narra, insomma, non solo testimonia l’incrinarsi di ogni visione oggettiva della realtà, ma anche mostra di conoscere in modo parziale il protagonista, oscillando tra la bonaria canzonatura (come appare nelle righe iniziali del brano), la descrizione pittoresca (per esempio, i capelli vengono paragonati a una giungla, a una parrucca e a una pelliccia di Astrakan, rr. 30– 31) e la complice simpatia (A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità, rr. 33–34).
D’altra parte, il narratore non è uno solo. Il gioco intricato delle focalizzazioni* interne presenta infatti punti di vista diversi mediante il ricorso al discorso diretto, indiretto* e indiretto libero*. In tal modo le impressioni o le idee di alcuni personaggi si innestano sulla voce narrante principale, senza che lo scrittore ricorra necessariamente a una punteggiatura che indichi in modo chiaro e netto la separazione tra narratore e parlanti: l’effetto che ne deriva è una straordinaria polifonia, che registra fedelmente il contorto gomitolo di fatti, pensieri e sentimenti che costituisce la realtà quotidiana.

Anche dal punto di vista stilistico, il romanzo offre un’iniziale “normalità” formale, appena complicata da qualche latinismo (ubiquo ai casi, r. 3) o arcaismo (la separazione della preposizione sugli in su gli, l’apocope* del verbo venivano in venivan, la forma giovine invece di giovane). Questa prassi tuttavia cede gradualmente il posto a una delle peculiarità del Pasticciaccio, ovvero il ricorso al dialetto. Con la vedova Antonini entra in scena il romanesco, mescolato con l’italiano senza soluzione di continuità; con Ingravallo, Gadda introduce il campano e il molisano.
Ad arricchire ulteriormente il pastiche* linguistico contribuisce poi l’utilizzo di termini appartenenti a registri diversi e soprattutto ad ambiti e linguaggi specifici: vocaboli colti (teoretica, r. 32), espressioni rare o ricercate (cresputi, r. 5; tempo incubatorio, r. 37; inopinate catastrofi, r. 38), neologismi (erotia, r. 65) sono affiancati a termini filosofici, medici, scientifici (abbondano le metafore* meteorologiche), giuridici, in una commistione barocca che riflette degnamente il teatro del mondo.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi quanto Ingravallo sostiene circa il rapporto tra causa ed effetto.


2 Descrivi il carattere di Ingravallo, aiutandoti con espressioni prese direttamente dal testo.


3 Perché viene usata l’immagine della depressione ciclonica (r. 40 e rr. 57-58)?


ANALIZZARE

4 Rintraccia termini ed espressioni che fanno riferimento all’idea di groviglio e suddividile in base al linguaggio utilizzato.


Italiano standard
Dialetto
Linguaggi specialistici











5 Identifica e trascrivi i sintagmi che rendono la narrazione dubitativa e non onnisciente.


INTERPRETARE

6 Perché Ingravallo dice che i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà? A che cosa si riferisce? Contestualizza l’affermazione all’interno del brano.


PRODURRE

7 Immagina Ingravallo commissario ai giorni nostri: adatta il carattere, l’aspetto fisico, il modo di pensare del personaggio al contesto della società attuale. Scrivi un testo narrativo di circa 20 righe.


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Il cadavere di Liliana

Cap. 2


Ingravallo era già stato nel palazzo di via Merulana a seguito di un furto di gioielli. Dopo pochi giorni vi ritorna per un altro caso: questa volta si tratta di omicidio, e la vittima è la sua amica Liliana Balducci.

«Dottor Ingravallo, senta. Me manna er1 commissario capo», abbassò2 ancora la
voce: «a via Merulana… è successo un orrore… stamattina presto. Hanno telefonato
ch’ereno 3 le dieci e mezza. Lei era appena uscito. Il dottor Fumi4 lo cercava.
Tratanto m’ha mannato subbito a vede,5 co due agenti. Credevo quasi de trovallo6
5 là… Poi ha mannato a casa sua a cercallo».
«Be’, che è stato?».
«Lei ce lo sa già?».

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«C’aggia sapé? mo7 me ne jevo a spasso…».8
«Hanno tajato9 la gola, ma scusi… so che lei è un po’ parente».
10 «Parente ’e chi?…»,10 fece Ingravallo accigliandosi, come a voler respingere
ogni propinquità con chi si fosse.11
«Volevo dire, amico…».
«Amico, che amico! amico ’e chi?». Raccolte a tulipano le cinque dita della
mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi12 digito-interrogativa13 tanto in
15 uso presso gli Apuli.14
«S’è trovato la signora… la signora Balducci…».
«La signora Balducci?». Ingravallo impallidì, afferrò Pompeo per il braccio. «Tu
sei pazzo!», e glielo strinse forte, che a lo Sgranfia15 parve glielo stritolasse una
morsa, d’una qualche macchina.
20 «Sor dottó,16 l’ha trovata suo cugino, il dottor Vallarena… Valdassena.17 Hanno
telefonato subbito in questura. Mo è là puro18 lui, a via Merulana. Ho dato disposizzioni.
Mi ha detto che lo conosce. Dice», alzò le spalle, «dice ch’era annato a trovalla.
Pe salutalla, perché ha d’annà19 a Genova. Salutalla a quell’ora? dico io. Dice che l’ha
trovata stesa a terra, in un lago de sangue, Madonna! dove l’avemo20 trovata puro
25 noi, sul parquet, in camera da pranzo: stesa de traverso co le sottane tirate su, come
chi dicesse in mutanne. Il capo rigirato un tantino… Co la gola tutta segata, tutta
tajata da una parte. Ma vedesse che tajo, dottó!». Congiunse le mani come implorando,
si passò la destra sulla fronte: «E che faccia! ch’a momenti svengo! già fra poco
dovrà vedello. Un tajo! che manco er macellaro.21 Mbè, un orrore: du occhi! che
30 guardaveno fisso fisso la credenza. Una faccia stirata, stirata, bianca da paré un panno
risciacquato… che, era tisica?…22 come si avesse fatto una gran fatica a morì…».
Ingravallo, pallido, emise un mugolo23 strano, un sospiro o un lamento da
ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla24 in corpo.
«La signora Balducci, Liliana…», balbettò, guardando negli occhi lo Sgranfia. Si
35 tolse il cappello. Sulla fronte, in margine al nero cresputo dei capelli, un allinearsi
di gocciole: d’un sudore improvviso. Come un diadema di terrore, di dolore. Il
volto, per solito olivastro-bianco, lo aveva infarinato25 l’angoscia. «Andiamo, va’!».
Era madido,26 pareva esausto.
Giunti a via Merulana, la folla. Davanti il portone il nero della folla, con la sua
40 corona de rote27 de bicicletta. Fate passare, polizia. Ognuno si scostò. Er portone
era chiuso. Piantonava un agente: con due pizzardoni28 e due carabinieri. Le donne
li interrogavano: loro diceveno a le donne: Fate largo! Le donne voleveno sapé.29

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Tre o quattro, deggià,30 se sentì che parlaveno de nummeri: ereno d’accordo p’er
dicissette, ma discuteveno sur tredici.31
45 I due salirono in casa Balducci, l’ospitale casa che Ingravallo conosceva, si può
dire, col cuore. Su le scale un parlottare di ombre, il susurro delle casigliane.32 Un
bimbo piangeva. In anticamera… nulla di particolarmente notevole (il solito odore
di cera, l’ordine abituale) eccettoché due agenti, muti, attendevano disposizioni.
Sopra una seggiola un giovane col capo tra le mani. Si alzò. Era il dottor Valdarena.
50 Apparve poi la portiera, emerse, cupa e cicciosa,33 dall’ombra del corridoio. Nulla
di notevole si sarebbe detto: entrati appena in camera da pranzo, sul parquet, tra la
tavola e la credenza piccola, a terra… quella cosa orribile.
Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame,34 supino, con la
gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto:
55 come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous,35 o
indagarne lo stato di nettezza.36 Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile,
sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura
e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema
della carne, d’un pallore da clorosi:37 quelle due cosce un po’ aperte, che i due
60 elastici – in un tono di lilla – parevano distinguere in grado,38 avevano perduto il
loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne
dimore. L’esatto officiare del punto a maglia,39 per lo sguardo di quei frequentatori
di domestiche,40 modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà41 il cui ardore,
il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte,
65 da quella riga, il segno carnale del mistero…42 quella che Michelangelo (don Ciccio
ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere.43
Pignolerie! Lassa perde!44
Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di
lattuga: 45 l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo,46
70 significava a momenti la frale47 gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza
spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione,48 tramutata
ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino.
Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore
creato) dalla fiaba degli anni nuovi,49 delle magliatrici blasfeme:50 le calze

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75 incorticavano51 di quel velo di lor luce il modellato52 delle gambe, dei meravigliosi
ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile.53 Oh, gli occhi!
dove, chi guardavano? Il volto!… Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio,
sur naso!… Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel
nimbo, 54 che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità.55 Affilato nel
80 pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.56
Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva
preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per
loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi,57
lama o punta: un orrore! da nun potesse vede.58 Palesava come delle filacce rosse,59
85 all’interno, tra quella spumiccia nera60 der sangue, già raggrumato, a momenti; un
pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano
buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. «La trachea», mormorò
Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare… Dio!».61
Er sangue aveva impiastrato62 tutto er collo, er davanti de la camicetta, una
90 manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio63
(don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!).
S’era accagliato64 sul pavimento, sulla camicetta tra i due seni: n’era tinto
anche l’orlo della gonna, il lembo rovescio65 de quela66 vesta de lana buttata su, e
l’altra spalla: pareva si dovesse raggrinzare67 da un momento all’altro: doveva de
95 certo risultarne un coagulato68 tutto appiccicoso come un sanguinaccio.69
Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi
nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano
offesi da sgraffiature, da unghiate: come ciavesse70 preso gusto, quer boja,71 a
volerla sfregiare a quel modo. Assassino!
100 Gli occhi s’erano affisati72 orrendamente: a guardà che, poi? Guardaveno, guardaveno,
in direzzione nun se capiva da che, verso la credenza granne,73 in cima in
cima, o ar soffitto. Le mutandine nun ereno insanguinate: lasciaveno scoperti li
du 74 tratti de le cosce, come du anelli de pelle: fino a le calze, d’un biondo lucido.
La solcatura del sesso…75 pareva d’esse a Ostia d’estate, o ar Forte de marmo de

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105 Viareggio,76 quanno so sdraiate su la rena a cocese,77 che te fanno vede tutto quello
che vonno.78 Co quele maje tirate tirate79 d’oggigiorno.
Ingravallo, a capo scoperto, pareva lo spettro di se stesso. Domandò: «L’avete
mossa?». «No, dottore», gli risposero. «L’avete toccata?». «No». Del sangue era stato
portato attorno dai tacchi, da le suole di qualcuno, sur parquet de legno, che poi si
110 vedeva bene che ci aveveno messo drento80 li piedi, in quer pantano de spavento.81
Ingravallo si irritò. Chi era stato?! «Sete na massa de burini!»,82 minacciò. «Brutti
caprari de la Sgurgola!».83

      Dentro il testo

I contenuti tematici

L’attenzione, degna di uno scrittore naturalista, con cui la penna di Gadda si sofferma sui dettagli, anche macabri, del cadavere (la posizione indecorosa assunta dalla donna, la terribile ferita alla gola) provoca un senso di orrore e di disgusto: il narratore non lascia nulla sottinteso e riporta la realtà, con tutto il suo dolore e il suo disordine. Il bellissimo corpo di Liliana, il suo candore, la sua eleganza, l’equilibrio del suo volto e delle sue forme: tutto si perde e si sfalda di fronte allo strazio della morte, diventando quella cosa orribile (r. 52) e un pantano de spavento (r. 110). Il “pasticcio”, che fino a questo punto del romanzo era stato rappresentato in modo grottesco e quasi comico, assume i caratteri della tragedia, irrompendo in modo inaspettatamente brutale.

La figura di Liliana, che agli occhi di Ingravallo incarna una sorta di essere puro, rovescia il modello della donna italiana veicolato dalla propaganda fascista, che esalta le madri prolifiche: se esse devono servire a “dare figli alla patria”, il personaggio è invece sterile, come persino il suo cognome da nubile sottolinea (Valdarena, “valle d’arena” ovvero “deserto”); non a caso il narratore indugia in modo quasi ossessivo sui dettagli intimi, dalle mutande alla pelle delle cosce, dalle giarrettiere alle calze fino, soprattutto, al monte di Venere. Ora la sua nascosta femminilità si anima di un’energia paradossalmente sottile e insinuante. La morte sembra d’un tratto aver donato alla defunta una desiderabilità prima mai avuta: perfino gli agenti burini (r. 111) sembrano colpiti dalla macabra sensualità del cadavere.

D’altro canto, la continua ricerca condotta dalla donna per trovare “nipoti” da adottare (come si saprà nel prosieguo del racconto) lascia intravedere da un lato il bisogno di sublimare la maternità, dall’altro manifesta un interesse ambiguo, forse di natura omosessuale. Queste ragazze sono viste come figlie, e se – come sembra – è stata proprio una di loro a ucciderla, l’omicidio si presenta ancora una volta come un matricidio, proprio come avviene nella Cognizione del dolore. Anche nel Pasticciaccio, dunque, Gadda inscena il proprio dramma personale, alludendo al consueto, autobiografico, insanabile senso di colpa. Pertanto non va sottovalutato il fugace riferimento che viene messo tra parentesi: don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma! (rr. 91– 92), unico momento in cui nel romanzo si accenna al passato del commissario. Si tratta chiaramente di una sovrapposizione tra personaggio e autore.

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Le scelte stilistiche

Ogni evento reale ha tante facce e può essere raccontato da prospettive diverse: questo sembra volerci dire lo scrittore nel narrare una delle scene centrali della storia. Solo in tal modo è possibile avvicinarsi alla completezza della realtà. Per rendere stilisticamente la sua visione delle cose, egli adotta la tecnica della moltiplicazione dei punti di vista. L’occhio dei personaggi si ferma più volte, per esempio, sulla ferita mortale alla gola, prima con l’accenno dello Sgranfia (Co la gola tutta segata, tutta tajata da una parte. Ma vedesse che tajo, dottó! […] Un tajo! che manco er macellaro, rr. 26–29), poi con un’osservazione a metà tra il clinico (Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano, rr. 81–83) e l’addolorato («La trachea», mormorò Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare… Dio!», rr. 87–88).
In particolare, lo sguardo di Ingravallo si segnala per commozione e pietosa partecipazione ( Oh, gli occhi! […] Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, rr. 76– 78), ma possiamo verosimilmente attribuire a lui anche le colte annotazioni suggerite dall’aspetto del cadavere, puntualmente registrate dal narratore: i vocaboli preziosi (dessous, r. 55; clorosi, r. 59; sommissione, r. 71; nimbo, r. 79), i riferimenti alti (Michelangelo, le Parche), le immagini poetiche (la lieve luce di seta, r. 58; il segno carnale del mistero, r. 65), le espressioni auliche (al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore, rr. 61–62; il volto […] emaciato dalla suzione atroce della Morte, r. 80).

La voce di don Ciccio non è però l’unica: a essa si affianca quella, più bassa e grossolana, che riflette altre prospettive, come quelle dei presenti nella stanza, nel cui immaginario espressivo abbondano piuttosto metafore* culinarie (dai maccheroncini al sanguinaccio) e considerazioni popolari (come ciavesse preso gusto, quer boja, r. 98; pareva d’esse a Ostia d’estate, r. 104).
A complicare la situazione intervengono alcune interferenze linguistiche che rompono l’omogeneità stilistica di un periodo o di un brano. Durante l’esame di Ingravallo, infatti, lo stile viene improvvisamente contaminato da un sur naso! (r. 78) che non appartiene al suo modo di parlare e di osservare. Al contrario, nei capoversi finali in romanesco (da r. 89 in poi) compare il rapidissimo riferimento alle cime del Faiti e del Cengio che ripropongono bruscamente la focalizzazione sul commissario e sul suo lontano ricordo materno. La sovrapposizione dei codici linguistici e dei punti di vista è insomma volutamente ingarbugliata, come a dare l’impressione che lo strumento letterario non sia mai sufficiente a rendere con completezza ciò che la realtà mostra.

Un’altra caratteristica notevole del brano è rappresentata dalle tonalità cromatiche. I colori che prevalgono sono il bianco e il rosso, un rosso scuro che sfuma verso il nero. Se il bianco rappresenta la purezza e la morte, ed è associato esclusivamente a Liliana (candida sin nel nome, che deriva dal latino lilium, ovvero giglio, il fiore bianco per eccellenza), alla sua pelle, alla sua biancheria intima, il rosso/nero evoca il sangue raggrumato che oltraggia il pallore della carne, raffigurando l’orrore del caos e la violenza che stravolge l’ideale di bellezza simboleggiato dalla donna (filacce rosse, r. 84; spumiccia nera, r. 85; maccheroncini color rosso, r. 87).

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Suddividi il testo in sequenze e dai loro un titolo.


2 Come reagisce il commissario alla notizia della morte di Liliana?


3 Qual è l’atteggiamento di Ingravallo nei confronti degli agenti in conclusione del brano?


ANALIZZARE

4 Individua i diversi punti di vista presenti nella narrazione. Per ciascuno di essi fornisci qualche parola o espressione particolarmente rappresentativa.


5 Rintraccia termini ed espressioni relativi ai registri: italiano standard, dialetto, linguaggi specialistici.


6 Che cosa indica il tepido senso (r. 61), riferito alle gambe di Liliana?


7 Che cosa sono le taciturne dimore (rr. 61–62)? Quale figura retorica viene utilizzata?


INTERPRETARE

8 Perché lo Sgranfia parla del dottor Vallarena… Valdassena (r. 20)?


9 A che cosa si riferisce l’espressione segno carnale del mistero (r. 65)?


10 Per quale motivo il taglio della gola della donna e il suo assassinio vengono definiti un pasticcio (rr. 85–86)?


invito ALLA VISIONE

Un maledetto imbroglio di Pietro Germi

Portare sul grande schermo un romanzo complesso come il Pasticciaccio è una vera impresa (anche Gadda, a fine anni Quaranta, ne ha tratto una sceneggiatura intitolata Il palazzo degli Ori, rimasta però sulla carta) che farebbe pensare a un cineasta d’avanguardia; sorprendentemente, a trasformare il libro in film è invece un regista legato alla tradizione come Pietro Germi (1914–1974), che nel 1959 dirige e interpreta Un maledetto imbroglio. Germi guarda al cinema americano classico, riletto alla luce dell’esperienza del Neorealismo arricchita da tinte da commedia grottesca (in particolare nella galleria di ritratti popolareschi).

Un adattamento di estrema originalità
Il regista opera uno stravolgimento del romanzo originale. Innanzitutto, pur ricorrendo ai dialetti per la caratterizzazione di alcuni personaggi, accantona lo sperimentalismo linguistico. Poi, l’ambientazione è spostata nella Roma contemporanea di fine anni Cinquanta: Germi rinuncia così al motivo gaddiano dell’onnipresenza del fascismo, ma solo per esigenze pratiche di contenimento dei costi. Inoltre, il film non si conclude con un finale aperto, ma con l’arresto dell’assassino. Rivendicando l’autonomia del cinema rispetto alla letteratura, Germi si serve della trama gialla per realizzare il primo riuscito film poliziesco italiano («non ha un momento di tregua e fila velocemente da una scena all’altra» è il commento di Alberto Moravia). Il risultato è un’opera ben distinta dal romanzo (nonostante il copione venga approvato da Gadda), al punto da essere premiato con il Nastro d’argento per la migliore sceneggiatura originale. Come osserva il critico Mario Sesti, in Un maledetto imbroglio «il cinema assimila al proprio interno il romanzo modificandolo come fa la natura con i fossili, trasformando completamente la chimica interna degli organismi ma lasciandone intatta la struttura e la fisionomia».

Una messa alla berlina della borghesia
A detta dello stesso Germi, il film è anche «un grande panorama di cose e personaggi, un quadro vasto e popoloso, ridondante e barocco». Le simpatie del regista vanno indubbiamente ai personaggi del proletariato, in primo luogo la domestica Assuntina (interpretata da Claudia Cardinale, che conferisce al personaggio spontaneità e umanità). Un maledetto imbroglio è infatti uno spietato ritratto della borghesia, una classe sociale all’apparenza rispettabile ma in realtà avida, gretta e che ha sempre qualcosa da nascondere: «È come in campagna quando smuovi un sasso e sotto ci trovi i vermi» afferma con amarezza Germi nei panni di Ingravallo.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi