Carlo Emilio Gadda – L'opera

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Frutto di una travagliata stesura, il Pasticciaccio contiene tutte le componenti filosofiche ed esistenziali della produzione di Gadda: il suo rapporto contrastato con la complessità del reale, lo sguardo spietato sulle storture del mondo, l’osservazione dolorosa dell’intrico di fatti e fenomeni che riflettono il caos dell’esistenza umana. Questa materia viene rappresentata dall’autore grazie a uno stile poliedrico, che rende mimeticamente il carattere frammentario e inconoscibile delle cose attraverso le digressioni e la commistione tra italiano letterario e aulico, voci popolari e dialetti, amalgamati in una lingua dalle infinite sfaccettature.

1 Genesi e composizione dell’opera

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana viene pubblicato in volume nel 1957 dalla casa editrice Garzanti. Il romanzo ha un immediato successo di pubblico, il primo della già lunga carriera di Gadda, fino ad allora apprezzato solo da una ristretta cerchia di amici.

La versione che leggiamo oggi è in realtà una riscrittura e un ampliamento delle 5 puntate apparse tra il 1946 e il 1947 sulla rivista fiorentina “Letteratura”, la stessa che aveva pubblicato la prima versione della Cognizione del dolore. Ispirato a un episodio di cronaca nera (l’omicidio di due vecchie signore per mano di una loro ex domestica), il Pasticciaccio nasce come un racconto giallo che avrebbe dovuto far parte di una raccolta di 6 novelle poliziesche. Tuttavia il progetto non ha seguito e l’iniziale nucleo narrativo si amplia fino a raggiungere la dimensione e il respiro del romanzo.

Rispetto alla versione in rivista, quella in volume si differenzia per aspetti sia formali sia contenutistici. Cambia il nome di qualche personaggio (tra cui quello del protagonista, che da Ingràvola diventa Ingravallo), vengono rielaborate le parti in dialetto, soprattutto quelle in romanesco (originariamente frutto della lettura dei Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, 1791–1863) e la lingua è resa più aderente al parlato popolare in uso nella Roma fascista. Inoltre vengono soppressi alcuni brani, ma aggiunti 6 nuovi capitoli, con l’entrata in scena di altri personaggi e ulteriori investigatori che proseguono le indagini.

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Sin dai primi mesi successivi alla pubblicazione, Gadda discute con l’editore della possibile continuazione del Pasticciaccio, poiché l’opera termina senza un finale classico. Egli arriva a ipotizzare perfino il titolo del sequel: Venti giorni dopo, omaggio al celebre seguito dei Tre moschettieri di Alexandre Dumas (Vent’anni dopo). Anche questa intenzione però non sarà concretizzata, perché – come lo scrittore stesso avrà poi a dire – da un punto di vista letterario il romanzo è concluso, e l’assenza del finale risolutivo va considerata come un elemento strutturalmente rilevante.

2 Un romanzo senza conclusione

La trama

Il Pasticciaccio, suddiviso in 10 capitoli, è ambientato a Roma nel marzo del 1927, in pieno regime fascista. Il commissario di polizia Francesco Ingravallo, detto don Ciccio, molisano di trentacinque anni che lavora presso la squadra mobile, è incaricato di seguire le indagini su un furto di gioielli avvenuto al civico 219 di via Merulana, nel cosiddetto «palazzo dell’Oro». La vittima della rapina è la contessa Menegazzi, che abita proprio nell’appartamento di fronte a quello dei Balducci, amici del commissario (cap. 1). Pochi giorni dopo, Ingravallo è di nuovo chiamato in quello stabile, ma questa volta per un omicidio: Liliana Valdarena in Balducci, di cui è segretamente infatuato, viene trovata orribilmente assassinata. Ad avvertire la polizia è il cugino della donna Giuliano Valdarena, che è il primo indiziato del delitto a causa di un abito sporco di sangue (cap. 2). Inizia un lungo interrogatorio in cui don Ciccio verifica la posizione di Valdarena e la sua possibile relazione con la cugina (cap. 3). Il marito della vittima, Remo Balducci, fuori Roma per un viaggio d’affari, al suo ritorno constata la sparizione di denaro e di gioielli. Durante il confronto tra Balducci e Valdarena, nel testamento della vittima si legge che al secondo spettano soldi e gioielli di famiglia, che più tardi vengono ritrovati nella sua abitazione. Convocato in commissariato e interrogato, l’uomo spiega di aver ricevuto quei beni preziosi in dono dalla defunta affinché fosse spinto a sposarsi e ad avere figli, di cui Liliana, frustrata dalla propria mancata maternità, avrebbe potuto godere affettivamente (cap. 4).

Le indagini proseguono con altre deposizioni e testimonianze, fino ai funerali della donna. Si apprende del suo morboso attaccamento per le domestiche, che Liliana considerava come una sorta di surrogato dei figli mancanti e nei confronti delle quali era estremamente generosa (cap. 5). I carabinieri di Marino (cittadina alle porte di Roma) ritrovano la sciarpa del rapinatore della Menegazzi, il giovane Enea Retalli, nel laboratorio di tintoria dell’ex prostituta Zamira. Mentre il maresciallo Santarella e il brigadiere Pestalozzi indagano nelle zone dei Castelli romani, nella capitale viene interrogata Ines Cionini, giovane accusata di prostituzione, la quale accenna a persone che potrebbero essere implicate nel furto dei gioielli e forse anche nell’omicidio (capp. 6-7). Pestalozzi si reca presso il laboratorio di Zamira e vi scopre una giovane lavorante, Lavinia Mattonari, con un prezioso anello al dito, prestatole dalla cugina Camilla. A casa di quest’ultima, il brigadiere ritrova i gioielli rubati (capp. 8-9).

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Nell’ultimo capitolo viene descritta la visita di Ingravallo nella povera casa di Assunta Crocchiapani, la domestica di casa Balducci, che sta assistendo il padre morente. Il commissario sembra accusarla dell’omicidio, ma lei nega con disperata veemenza. Il romanzo si chiude sui dubbi di Ingravallo nei confronti di Assunta: nessuno può essere accusato con certezza dell’assassinio.

Oltre i limiti del giallo

Nei primi capitoli il Pasticciaccio appare davvero come un tipico romanzo poliziesco: si presentano i personaggi e i fatti (un furto e un omicidio), quindi si procede con la fase delle indagini e dell’investigazione in senso stretto (raccolta degli indizi, interrogatori dei sospetti, ipotesi sul movente); eppure è il commissario stesso a non credere nella linearità e nella logica causa–effetto di questo percorso investigativo: Ingravallo non osserva e cataloga semplicemente gli eventi, ma si smarrisce in digressioni filosofiche e pensieri laterali che abbracciano una complessità ben maggiore rispetto ai fatti. Incostante e irascibile, può essere considerato il portavoce dell’autore, di cui non a caso condivide manie, passioni e soprattutto una tendenza filosofica allo scetticismo.
Così l’intreccio poliziesco si frantuma in una miriade di narrazioni che si discostano dallo svolgimento razionale dell’inchiesta. Ben presto i personaggi implicati cominciano a moltiplicarsi; accanto ai possibili esecutori materiali si esamina la presenza di eventuali complici; sospetti e indiziati vengono scagionati a uno a uno; il movente del delitto sfugge nel vortice dei fattori che potrebbero avervi concorso; invece che avvicinarsi alla soluzione del caso, si procede per deviazioni, piste sbagliate e interrogatori che accrescono il guazzabuglio invece di dirimerlo.
La vicenda non può infatti essere risolta in quanto la realtà è troppo articolata e complessa per essere decifrata con un’analisi condotta mediante un pensiero coerente. Il mondo è caos, è disordine, è un intricato viluppo di bene e male, un gomitolo di storie, persone e cose che si intersecano, senza che sia possibile districare la matassa. Ecco allora che la classica indagine investigativa dei romanzi gialli non è consentita, o quanto meno si rivela un processo inefficace, incapace di dare un significato netto e inequivocabile agli eventi.

Perlustrando il labirinto di congetture che affollano la mente del commissario, il narratore si immerge in una realtà umana abietta e confusa, percorre strade, appartamenti cittadini e catapecchie di paese, fa parlare bottegai, faccendieri e figure della malavita, segue l’azione investigativa di Ingravallo, quella della polizia romana e dei carabinieri di Marino. Infine, dopo aver lasciato intravedere più volte la soluzione, lascia il lettore, come si è detto, all’oscuro di chi sia l’assassino, di quali siano il movente o la dinamica del delitto: come dice il commissario, non rimangono che «cosiddette verità», soggettive ed evanescenti, cadute le quali non si può fare a meno di tornare «a riflettere: a ripentirsi, quasi».

Così nel Pasticciaccio trova il suo compimento tutta l’elaborazione filosofica di Gadda: la mancata conclusione della vicenda e il fallimento dell’inchiesta sono metafora dell’inadeguatezza degli schemi che pretendono di definire univocamente la vita. Le vicende dell’esistenza umana non possono essere spiegate come effetto di una causa, ma come esito di una serie di cause, o meglio di concause, che insieme, e in modo ingarbugliato, contribuiscono al manifestarsi di quell’effetto; il senso stesso del neologismo «pasticciaccio» richiama la materia informe e dai confini confusi di cui si compone la realtà, sia quella esterna, descritta nelle sue infinite combinazioni, sia quella interiore delle persone, preda di impulsi che le portano a oltrepassare i limiti della vita civile e a diventare preda dell’irrazionalità.

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Ogni fatto, soggetto, oggetto dell’esistenza appare come un «polipaio di relazioni»: nella mente di Ingravallo, per esempio, il furto e l’assassinio sono legati, non possono essere frutto del caso, ed è per questo che egli si ostina nella ricerca di indizi che tengano insieme i due delitti. Alla fine si comprende che un legame effettivamente esiste, ma non è così semplice e lineare come ci si potrebbe aspettare: è vero che coloro che sono coinvolti si conoscono tutti, ma non per questo chi ha commesso il furto e chi ha commesso l’omicidio sono complici o sono stati mossi dalle stesse motivazioni.
La scrittura gaddiana non fa che seguire le direzioni di queste relazioni, affastellando frammenti che riflettono l’imprevedibile corso di una realtà che muta costantemente in modo inopinato. È questo il motivo delle tante digressioni, delle parentesi nelle parentesi, delle infinite divagazioni: esse rappresentano il tentativo di padroneggiare il disordine, razionalizzando tutto ciò che è insoluto, e al contempo ne mostrano il fallimento.

Ogni sforzo di comprendere il mondo attraverso l’analisi e la scrittura è infatti vano, anche perché chi esamina la realtà interviene inevitabilmente in essa, modificandola ed essendone modificato. Nel momento stesso in cui osserva la realtà, l’uomo la deforma e la compromette, e le tante correlazioni di cui è composta si moltiplicano: è impossibile pretendere di isolare arbitrariamente degli elementi o delle parti di un tutto la cui complessità è invece inscindibile. Allo scrittore non rimane che accontentarsi di intrecciare storie e parole, consapevole di non poter cogliere del tutto la verità, ma di rappresentarla parzialmente, sempre e soltanto per approssimazione.

3 Lo stile

Gli elementi linguistici

Le scelte linguistiche svolgono un ruolo molto importante nel romanzo, più che come mero aspetto formale, in quanto strumento per avvicinarsi alla realtà. Nel Pasticciaccio lo scrittore offre una grande prova di pastiche, incentrato sul romanesco e su altri dialetti.

Dopo il lombardo-milanese della Cognizione del dolore e dell’Adalgisa e dopo il fiorentino di Eros e Priapo, Gadda abbraccia infatti l’ennesima variante dialettale, omaggio alla città che lo ha ospitato per oltre trent’anni. Prima del Pasticciaccio, il romanesco non compare praticamente mai nelle sue altre opere, nemmeno nei suoi pochi racconti ambientati nella capitale. Eppure, a differenza delle altre prove, mai come in questo romanzo l’uso del dialetto è così esplosivo e diffuso in tutto il tessuto narrativo, mezzo espressivo di una voce corale e popolare che commenta e deforma a suo modo ogni fatto.
Il dialetto, insomma, non ha valore disgiuntivo (non serve cioè a differenziare chi lo parla da chi si esprime in italiano), bensì moltiplicativo, nella logica accumulativa tipica del plurilinguismo espressionistico. Oltre al romanesco, infatti, anche altri dialetti sono presenti nel romanzo: per esempio, il campano–molisano di Ingravallo, il napoletano del commissario capo Fumi, il veneto della contessa Menegazzi.

Un uso così pervasivo delle forme dialettali contribuisce in modo determinante a restituire al lettore un effetto polifonico. La sonorità del romanzo è infatti ricchissima, frutto di una molteplicità di voci che si intrecciano e si accavallano, rendendo spesso difficile comprendere a chi quelle voci appartengano.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi