3 - I grandi temi

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Carlo Emilio Gadda

La vita Le opere
• Nasce a Milano 1893  
• Muore il padre 1909  
• Si arruola volontario nella Prima guerra mondiale
• A Caporetto è fatto prigioniero e trasferito in Germania
1915
1917
 
• Torna in Italia e apprende della morte in guerra del fratello Enrico 1919  
• Si laurea in Ingegneria 1920  
• Lavora come ingegnere in Argentina 1924–1929  
1922–1924 La meccanica (pubblicata in volume nel 1970)
• Si trasferisce a Roma 1925  
• Abbandona definitivamente la professione di ingegnere 1931 La Madonna dei filosofi
1934 Il castello di Udine
• Muore la madre 1936
1938–1941 La cognizione del dolore (pubblicato in volume nel 1963)
1938–1943 L’Adalgisa (pubblicata in volume nel 1944)
• Si trasferisce a Firenze 1940  
1944–1945 Eros e Priapo (pubblicato nel 1967)
1946 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato in volume nel 1957)
• Si sposta a Roma con un impiego alla Rai 1950  
1955 Giornale di guerra e di prigionia
• Muore a Roma 1973  

3 I grandi temi

Lo stile espressionistico

Quando ci si accosta a Gadda per la prima volta, ciò che colpisce è una certa difficoltà di lettura, sostanzialmente a causa di due fattori di ordine stilistico. Dal punto di vista sintattico, la costruzione della frase è spesso stravolta, con soggetto, predicato e complemento collocati in posizioni diverse da quelle consuete, e con la frequente presenza di incisi, digressioni, commenti. Dal punto di vista lessicale, la scrittura offre un’impressionante varietà di elementi linguistici: tecnicismi di diverse discipline (ingegneria, filosofia, matematica, medicina ecc.), arcaismi e vocaboli presi dai diversi repertori letterari del passato, inserti in lingua straniera, citazioni latine e greche, lemmi dialettali e neologismi.

La lingua di Gadda mescola aulico e comico, alternando momenti lirici a espressioni sconce e oscene: per tale contaminazione essa si inserisce all’interno della tradizione maccheronica, che annovera autori come Folengo e Rabelais, e in quella più ampia linea espressionistica che si fa risalire fino a Dante. Attraverso questo filtro linguistico Gadda intende rappresentare la realtà in modo deformato, osservandola da punti di vista molteplici e spesso contraddittori, perché la complessità del mondo si può rendere solo con pari complessità di stili e registri. Egli stesso, parlando in terza persona, scrive che la sua scrittura è la riproduzione del ridondante disordine della realtà: «Barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».

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La forma più efficace per esprimere il caos e la molteplicità del reale è – agli occhi dello scrittore lombardo – quella dell’elenco. Egli procede infatti per accumulazione, giustapponendo nomi, aggettivi, verbi. Questo impulso alla catalogazione può talvolta risultare eccessivo e forzato, ma Gadda non intende rinunciare mai all’obiettivo di cogliere “enciclopedicamente” la totalità degli aspetti, convinto che la comprensione delle cose possa avvenire solo all’interno di una sintesi ideale di tutto il sapere. La sua scrittura tende in tal modo a procedere dall’enumerazione all’onnicomprensività o, per usare i termini del critico Gian Carlo Roscioni, dal singula enumerare (enumerare i singoli elementi uno per uno) all’omnia circumspicere (abbracciare tutte le cose con lo sguardo): la smania di registrare e inventariare i segni, anche minimi, del mondo significa impossessarsene linguisticamente, accatastando tutte le possibili forme nelle quali esso si manifesta. In questo contesto, assume un significato profondo la propensione ai dettagli, alle digressioni, alle note, a tutto ciò che a una prima lettura appare come secondario e poco rilevante.
Al contrario, l’attenzione ossessiva per il particolare significa per Gadda cercare di sbrogliare un groviglio di relazioni, di contatti, di somiglianze, nella convinzione che un qualsiasi fatto non sia conoscibile nella sua interezza se non dopo averlo scomposto negli elementi che lo costituiscono e averlo messo in rapporto con altri fatti, altri contesti, altre realtà.

 T1 

L’incendio di via Keplero

Accoppiamenti giudiziosi


Uscito per la prima volta nel 1940 sulla rivista “Il Tesoretto”, ma scritto tra il 1930 e il 1935, questo racconto – di cui riportiamo una parte – offre il primo esempio, dal punto di vista cronologico, della straordinaria creatività linguistica gaddiana.

Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che
neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare1
quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli
riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano
5 seminude nel ferragosto e la lor prole globale,2 fuor dal tanfo e dallo spavento
repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir
d’ognuno alquanto malandate in gamba,3 che apparvero ossute e bianche e spettinate,
in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la
chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta
10 italo–americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano,
poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in
braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse

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dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti
urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e
15 fagotti di roba buttati a salvazione4 giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare
i pompieri a tutta carriera5 e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di
guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce
Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto,
il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto
20 attese!, e lingue, a tratti subitanei,6 serpigne7 e rosse, celerissime nel manifestarsi
e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso8 come d’un
arrosto infernale, e libidinoso9 solo di morularsi10 a globi e riglobi o intrefolarsi11
come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri
barbagli; 12 e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa
25 o pegamoide13 bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da
quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate,14 alcune a piè nudi nella polvere
della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette15
di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli,
vanamente ondulati,16 avvampare in un’orrida, vivente face.17
30 Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto:18
e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati
dell’angoscia. 19 Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie20 delle autopompe
fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito
male delle fiamme,21 nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato
35 un salto, gli riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala
di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva
ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio.
La sonnolenza impomatata22 dei guidatori d’automobili che falciano via con il
parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte23 e, svaccati dentro macchina,
40 ma saette pazze di fuori,24 stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti25 marciapiedi
della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente
ai cantoni, poi, subito, l’avvento delle trasvolanti sirene. Inchiodati i
tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa:26 i cavalli col carro
contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore. […]
45 «L’incendio», dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia». Ed è vero: fra

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la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro:27 fra cataratte28 d’acqua potabile sopra
le ottomane pisciose e verdi,29 ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e,
sopra i cifoni30 e i credenzoni, custodi magari d’un mezz’etto di gorgonzola sudato,31
ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi,
50 dai serpi inturgiditi32 e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie33 dagli
idranti d’ottone, che finiscono in bianche zazzere34 e nube nel cielo dell’agosto
torrido: e isolatori di porcellana semi–usti35 cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto
contro il marciapiede patatràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera
dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere
55 di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili,
anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti
nella mota36 della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali37
di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli
stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri,38 dei carabinieri, degli ingegneri comandanti
60 dei pompieri: e il protervo e indefesso39 cic–ciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte
femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette
di San Vincenzo de’ Liguori40 dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia.41

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I contenuti tematici

L’incipit cala il lettore in una sorta di aura mitica: Se ne raccontavano di cotte e di crude (r. 1).
Subito dopo il richiamo ironico alle tecniche futuriste, incapaci di descrivere il fulmineo precipitare degli eventi, si entra direttamente e bruscamente nell’azione. Lo sconvolgimento provocato dall’improvviso incendio viene reso con la fuga caotica e terrorizzata dall’ ululante topaia (r. 3) da parte degli inquilini, presentati genericamente o esplicitamente (nome e/o cognome), per dare il senso del simultaneo accavallarsi delle persone spinte all’esterno e in qualche modo rese simili dall’infuriare del fuoco.
Sul finire della prima parte antologizzata entrano in scena i pompieri, che – anch’essi frettolosamente – si dirigono verso il luogo del disastro. La loro azione viene poi riportata nella seconda parte, nella quale si descrivono la lotta dell’acqua contro il fuoco e il palazzo avvolto dal fumo e immerso in una enorme pozza di fango.

All’interno di questa rappresentazione frenetica non mancano gli attacchi comici al perbenismo borghese e alle sue ipocrisie: la prole globale (r. 5), che sta sottilmente a indicare i figli legittimi e illegittimi; le signore che, normalmente ben vestite e ordinate nell’atto di dirigersi in chiesa, vengono raffigurate in frivole sottane bianche di pizzo (r. 8); il riferimento alla pegamoide (r. 25), sorta di succedaneo più economico del cuoio (fatto di una sostanza a base di celluloide); l’elemento scatologico degli escrementi di cavallo; l’accenno fugace ai capelli che sono vanamente ondulati (r. 29), vanamente sia perché segno di civetteria femminile, sia perché ormai l’acconciatura è rovinata dalla fretta e dalla paura; l’accorrere protervo e indefesso (r. 60) per cercare di salvare da quella catastrofe oggetti che mescolano il profano (la vanità di pettini e di specchi) al sacro (l’immagine votiva del santo).

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Le scelte stilistiche

L’aspetto più interessante del racconto non sta però nello sviluppo della trama, di per sé molto semplice, bensì nello stile utilizzato dall’autore. Già dalle prime righe si possono cogliere appieno alcuni degli aspetti caratteristici dell’espressionismo gaddiano: la frenesia e la confusione sono rese da una inesauribile elencazione di persone, cose, azioni, con una tecnica paratattica* che accosta elementi diversi in lunghissime sequenze, da leggersi tutte d’un fiato. Il periodo che va da che ne disprigionò fuori (r. 4) a la strillava anche lei (r. 13) si interrompe per un breve attimo con il punto fermo, per riprendere subito in un altro lunghissimo elenco, da Poi, finalmente, fra persistenti urla (rr. 13–14) fino a i pianti dei loro mille nati (r. 28); lo stesso procedimento si trova anche in seguito.
Se nella prima sequenza la tecnica dell’accumulo* si basa sull’uso dell’avverbio poi, nella seconda viene utilizzata la congiunzione e. La differenza è sottile, ma in grado di rendere nel primo caso l’impressione di una velocissima catena di azioni, nel secondo la contemporaneità di un confuso e ingarbugliato quadro d’insieme: tutta la seconda parte del brano è infatti racchiusa in un periodo lungo e articolato, da Ed è vero (r. 45) a catastrofica lavanderia (r. 62), interrotto solo da virgole e due punti.

La punteggiatura è, come sempre accade in Gadda, usata senza risparmio, a volte sovvertendo le regole. Peculiare della sua scrittura è per esempio l’uso dei due punti, allo scopo non solo di introdurre un elenco, ma anche di segnare una pausa nel lungo periodo, assumendo così il valore della virgola o del punto e virgola (come si vede dalla r. 45 alla r. 60).
Di rilievo sono anche gli elementi linguistici più tipici del pastiche*, come il frequente ricorso a vocaboli fuori dal comune. Gadda non disdegna né il prestito di termini tecnici da altre discipline (il morularsi, r. 22, che deriva dalla genetica), né la variante aulica di alcuni vocaboli (intrefolarsi per “avvolgersi”, r. 22; capegli per “capelli”, rr. 28-29; semiusti per “bruciacchiati”, r. 52), né ancora il ricorso a dialettismi (cifoni per “comodini”, r. 48), neologismi e invenzioni linguistiche: il simultanare ironico verso i Futuristi (r. 2), il malandate in gamba (r. 7) che richiama la locuzione “essere (male) in gamba”, i riglobi (r. 22) come ripetizione di globi, i marciapiedi garibaldofrusti (r. 40).

Non meno ricca è la presenza di figure retoriche, dalle metafore* (le lingue di fuoco che sono serpigne, r. 20), alle similitudini* (il fumo che si attorciglia come un pitone nero su di se stesso, r. 23), alle iperboli* (i pianti dei mille nati, r. 28), alle onomatopee* che rendono la dimensione auditiva del brano: il patatràf! (r. 53) che riproduce il rumore degli isolatori di porcellana caduti a terra, e il cic–ciàc, e cicìc e ciciàc (r. 60) che descrive il ciabattare delle donne. A volte ne viene utilizzata più d’una nello stesso sintagma*: ululante topaia (r. 3), per esempio, ha sia aspetti metonimici* (a ululare non è il palazzo, ovviamente, ma chi vi abita) che metaforici (gli inquilini vengono assimilati a tanti topi che fuggono dalla propria tana), rendendo efficacemente, a livello uditivo e visivo, la concitazione di quegli attimi.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 In quante scene è suddiviso il brano? Prova a riassumerle brevemente e dai a ciascuna un titolo.


ANALIZZARE

2 Le sequenze di questo brano hanno come protagonisti prima il fuoco e poi l’acqua. Evidenzia le frasi in cui ci si riferisce all’uno e all’altra.


3 Riporta nella tabella i termini che ritieni più significativi per ogni registro linguistico.


Registro basso
Registro medio
Registro alto







4 Nel brano sono presenti diverse parole composte. Rintracciale e spiegane la funzione espressiva

.

INTERPRETARE

5 Perché l’autore esordisce citando il futurista Filippo Tommaso Marinetti (r. 2)?


6 A quale scopo, secondo la tua opinione, Gadda si sofferma sull’ultimo pompiere del quinto drappello (r. 34)?

PRODURRE

7 Sull’esempio di Gadda prova a creare 10 neologismi relativi alla vita a scuola. Danne la definizione e spiegane brevemente l’origine.


Il groviglio psicanalitico

Come si è visto, Gadda è stato un autore molto prolifico, avendo scritto tanto, al limite della grafomania, sia per la pubblicazione della sua produzione narrativa e saggistica sia per motivi privati (i diari e i moltissimi carteggi). Ancor prima della letteratura, si può affermare che sia l’atto dello scrivere in sé ad assumere per lui un ruolo particolare. Già prima di comprendere la propria natura di letterato, per esempio, durante l’esperienza della Prima guerra mondiale, egli sembra utilizzare la scrittura per cercare di ritrovare un ordine nella realtà che lo circonda, o meglio per opporre al caos dominante sequenze razionali di pensieri, descrizioni, concetti o persino operazioni di analisi matematica che egli traccia sulla pagina. Il rapporto di Gadda con il mondo è dettato infatti da un’esigenza conoscitiva finalizzata a restituire razionalità al groviglio delle cose e a dare loro un senso. Tale tentativo di ricostruzione concettuale viene applicato dall’autore sia alla sfera dell’esteriorità sia a quella dell’interiorità, e – per quanto concerne quest’ultima – all’essere umano in generale e a sé stesso.
La critica ha sottolineato, a più riprese, come l’irrefrenabile impulso di Gadda all’autobiografismo si traduca nei suoi scritti nella proiezione costante delle proprie nevrosi e ossessioni: tale processo svela i suoi sforzi di psicanalizzare, spiegare, comprendere la propria vita e dare un senso ai traumi che l’hanno così fortemente condizionata. È in questo impegno gnoseologico che la sua scrittura prova a farsi terapia, in quanto si pone l’obiettivo di scavare a fondo nei disturbi psicologici del proprio io (l’autore allude a un «male oscuro» che lo attanaglia) e nel labirinto di un mondo degenerato e insensato.

In particolare, il centro di gravità della nevrosi dello scrittore è rappresentato dal conflitto con la madre, a sua volta tristemente condizionato dalla morte del fratello Enrico. Gadda percepisce in lei una “carenza affettiva”, un’incapacità a donarsi a lui che è il figlio sopravvissuto, quello meno bello, meno energico, meno vitale; ciò lo induce a considerare sé stesso una «prova difettiva di natura», come se egli non fosse idoneo a meritare l’amore e le carezze della madre. Parla a più riprese, in molti saggi e articoli dedicati ad altre figure emblematiche della Storia o della letteratura (Baudelaire, Leopardi, Rimbaud ecc.), di esempi di «delusione filiale», di madri che verso i figli mostrano una «certa ritenutezza»; e legge in questo rapporto la base di «quell’aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche e mentali che Freud ha tentato appunto di sgrovigliare» (Psicanalisi e letteratura). Un verso virgiliano, tratto dalla IV egloga, torna con frequenza nelle sue dissertazioni a suggellare e dare forza a questo discorso: Cui non risere parentes, tradotto da lui stesso come «colui a cui i genitori non hanno potuto sorridere».

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Dalla negazione affettiva deriva un sentimento aspramente conflittuale verso quella figura che viene vista come «madre sbagliata», «castrante». Durante tutta la vita, l’immagine di questa donna austera e severa permane nell’immaginario dello scrittore lombardo; anche se nel periodo successivo alla sua morte si scatena in lui un assillo diverso ma altrettanto doloroso: il rimorso. La distanza e l’odio provati in vita vengono trasfigurati in colpa, come se le ragioni di quella negazione e di quella morte fossero da addossarsi a lui, alla sua imperfezione, alle sue incapacità. Gadda si sente allora completamente solo; ed è anche per questo, per provare a lenire quella ferita, che dedica alla madre un capolavoro assoluto come La cognizione del dolore.

 T2 

La mamma

La cognizione del dolore, II, cap. 5


Il luogo in cui trova migliore espressione il complesso rapporto tra Gadda e la madre è il romanzo La cognizione del dolore, che somiglia molto a un processo in cui l’autore interpreta «tutte le parti: di pubblico accusatore, di colpevole, di innocente, di difensore e di giudice» (Citati), esagerando le proprie colpe fino al punto di calunniarsi e descriversi come patricida e matricida. Tra queste pagine di disperata violenza, ad apertura della seconda parte del romanzo, emerge proprio la figura sulla quale si appunta tutta la rabbia dello scrittore: la madre.

Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame,1 tutto ciò che le era rimasto?
di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto:
e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso,2 col
volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il
5 figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, passionatamente,
l’aveva carezzata, baciata. Dopo un anno, a Pastrufazio,3 un sottufficiale d’arma4 le
si era presentato con un diploma, le aveva consegnato un libercolo, pregandola di
voler apporre la sua firma su di un altro brogliaccio:5 e in così dire le aveva porto
una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?».6
10 Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio,7 aveva
risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire8 d’una condanna. A cui,
dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare.

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Avanti che se ne andasse,9 quando con un tintinnare della catenella raccolse a
sé, dopo il registro, anche la spada luccicante, ella gli aveva detto come a trattenerlo:
15 «posso offrirle un bicchiere di Nevado?»:10 stringendo l’una nell’altra le mani
scarne. Ma quello non volle accettare. Le era parso che somigliasse stranamente a
chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del
cuore glie lo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito dei labbri, la riapparita
presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna.
20 Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie11 d’una finestra, che12 il sole
entrasse, nella grande stanza. La luce allora incontrava le sue vesti dimesse, quasi
povere: i piccoli ripieghi di cui aveva potuto medicare, resistendo al pianto, l’abito
umiliato della vecchiezza. Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i
latrati del buio.13 Ella ne14 conosceva le dimensioni e l’intrinseco,15 la distanza dalla
25 terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere;16 molte cose aveva
imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero17 che perseguono nella
vacuità degli spazî senza senso18 l’ellisse del nostro disperato dolore.19
Vagava, nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta
ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e d’ogni
30 imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche
mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole.
Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto,20 si adombrava talora delle sue cupe
nuvole; 21 che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate
ad un tratto22 parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente.
35 Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi
di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine:
trascorsi una diecina di giorni da quando aveva fatto chiamare la custode, con le
chiavi: e, da lei accompagnata, era voluta discendere al Cimitero. Quella minaccia23
la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o di esseri non conosciuti,
40 e tuttavia inesorabili alla24 persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e
sempre, dopo i chiari mattini della speranza. Ciò che più la soleva sgomentare fu
sempre il malanimo impreveduto di chi non avesse cagione25 alcuna da odiarla, o
da offenderla: di quelli a cui la sua fiducia così pura si era così trasportatamente26
rivolta, come ad eguali e a fratelli in una superiore società delle anime. Allora ogni
45 soccorrevole esperienza e memoria, valore e lavoro, e soccorso della città e della
gente, si scancellava a un tratto dalla desolazione dell’istinto mortificato, l’intimo
vigore della consapevolezza si smarriva:27 come di bimba urtata dalla folla, travolta.
La folla imbarbarita degli evi persi,28 la tenebra delle cose e delle anime erano

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un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita
50 bimba) – perché, perché.
L’uragano, e anche quel giorno, soleva percorrere con lunghi ululati le gole paurose
delle montagne, e sfociava poi nell’aperto contro le case e gli opifici29 degli
uomini. Dopo ogni tetro accumulo di sua rancura, per tutto il cielo si disfrenava alle
folgori, come nel guasto e nelle rapine un capitanaccio dei lanzi a gozzovigliare tra
55 sinistre luci e spari.30 Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi,31
ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa. Dalla finestretta delle
scale, una raffica, irrompendo, l’aveva ghermita32 per i capegli:33 scricchiolavano
da parer istiantare i pianciti e le loro intravature di legno:34 come fasciame, come
di nave in fortuna:35 e gli infissi chiusi, barrati, gonfiati da quel furore del di fuori.
60 Ed ella, simile ad animale di già ferito, se avverta36 sopra di sé ancora ed ancora le
trombe efferate della caccia,37 si raccolse come poteva nella sua stremata condizione
a ritrovare un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto.38
Vincendo paurosamente quel vuoto d’ogni gradino, tentandoli uno dopo l’altro, col
piede, aggrappandosi alla ringhiera con le mani che non sapevano più prendere,
65 scendendo, scendendo, giù, giù, verso il buio e l’umidore39 del fondo.

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I contenuti tematici

In questo capitolo la madre entra per la prima volta direttamente sulla scena del romanzo: in precedenza era stata soltanto evocata nei discorsi degli abitanti di Lukones o nelle parole di Gonzalo. Le prime due sequenze sono incentrate sulla rievocazione accorata della perdita del figlio in guerra, un ricordo che sembra tormentare senza requie la povera donna, incapace di trovare altra ragione di vita. Il dolore è così devastante da essere ormai indissolubilmente racchiuso in semplici nomi: quello del monte su cui l’aereo del soldato è precipitato e quello del luogo in cui è stato seppellito il corpo (rr. 2–3). È sufficiente ascoltare quei nomi perché essa ripiombi nell’abisso dell’assenza del figlio prediletto e perché si scatenino in lei il pianto e lo strazio.

La donna si muove nella casa senza sapere dove andare o cosa fare: il termine vagava viene usato ben tre volte, nel primo, terzo e quarto capoverso, a esprimere la mancanza di scopo e di direzione. Sia le cose sia i gesti denotano una quotidianità ormai privata, per sempre, di senso: le pentole di rame appese al muro (tutto ciò che le era rimasto? di una vita, rr. 1–2), le persiane aperte per far entrare il sole (Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio, rr. 23–24), la cucina vuota (senza più fuoco alle stanze, senza più voci, r. 30), regno ormai soltanto delle mosche, sinistre presenze che Gadda evoca molto spesso come simbolo di morte.

 >> pag. 860 

Nel secondo capoverso compare un elemento che cela un significato psicanalitico profondo. La donna sembra riconoscere nel sottufficiale il figlio perduto, tanto che risorge in lei il desiderio di amare. Si tratta però di un’illusione, in quanto non soltanto quel figlio non tornerà più (rapito dal vento verso smemoranti cipressi, r. 55), ma anche l’altro – Gonzalo – è ormai lontano, terribilmente lontano (rr. 34–35). I due figli, per ragioni diverse, sono sullo stesso piano, ormai irraggiungibili, e nel suo destino di madre perduta, nel suo sentiero misterioso (r. 28) ci sono esclusivamente tristezza e abbandono. Non a caso, mentre un uragano si avvicina, la donna viene descritta come una bimba indifesa e sgomenta davanti all’infuriare della tempesta che incombe drammaticamente, emblema di una vita straziata e agonizzante. È rimasta sola ad affrontare la vita, perché il figlio sopravvissuto non è che un estraneo, un misantropo incapace di affetto, a sua volta vittima disgraziata di un oscuro e incomunicabile rovello interiore.

Le scelte stilistiche

La figura tragica della donna viene avvolta da un linguaggio dolente ed evocativo, fatto di avverbi e termini rari e preziosi (dimenticanza, r. 4; riapparita, rr. 18–19; imagine, r. 30; vaporavano, r. 33; trasportatamente, r. 43; umidore, r. 65), sintagmi di lirica bellezza che prediligono la struttura aggettivo-nome-complemento (feroce rincrudire d’una condanna, r. 11; buia voce dell’eternità, r. 12) o nome–aggettivo–complemento (fulgore breve del tempo, r. 17; abito umiliato della vecchiezza, rr. 22–23). La prosa tende al verso poetico, con la ripetizione di alcuni vocaboli a rafforzare l’ineluttabilità della perdita (nessuno, nessuno mai, ritorna, r. 19; il male che risorge ancora, ancora e sempre, rr. 40–41) e l’impiego anaforico* di quel vagava posto a inizio di tre capoversi per richiamare l’ossessiva ripetizione dei gesti e dei comportamenti in cui la donna è piombata dopo la tragedia, incapace di uscire dall’orbita di quella sofferenza (l’ellisse del nostro disperato dolore, r. 27).

È uno stile che si mantiene alto e che lascia poco spazio al pastiche*: uno stile che al tempo stesso omaggia la madre, i suoi gusti di donna colta e di insegnante, e la immerge in un tessuto lessicale ricchissimo, in una cadenza ritmica che sembra ripeterne il pianto, con l’uso intenso della punteggiatura che spezza continuamente la frase come in un continuo singhiozzo: Vagava, / sola, / nella casa. / Ed erano quei muri, / quel rame, / tutto ciò che le era rimasto? / di una vita (rr. 1–2). Soltanto dopo queste prime sequenze, e poi nel resto del capitolo, i periodi diventano più lunghi, dando di nuovo spazio al racconto.

Da notare è anche il tempo verbale scelto. L’imperfetto infatti, specialmente nei primi capoversi, rende l’azione in movimento e confonde i momenti temporali in un fluire continuo di passato, presente e futuro, restituendo il senso del non finito e il groviglio di sensazioni e dolore che segna la madre nella sua progressiva «cognizione del dolore» della vita.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Suddividi il brano in sequenze e riassumilo.


ANALIZZARE

2 Il testo è ricco di ripetizioni e di anafore. Individuane almeno cinque e specificane il significato.


3 Quali sono gli elementi stilistici che accentuano il tono poetico e struggente del brano? Fai qualche esempio.


INTERPRETARE

4 Quali sono gli elementi autobiografici che Gadda inserisce in queste pagine?


5 A un certo punto Gadda parla di tempo dissolto (r. 32): perché? Che significato ha il tempo all’interno del brano?


6 Come descriveresti la figura della madre dal punto di vista emotivo e psicologico?


Al cuore della letteratura - volume 6
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Dal Novecento a oggi