1 - La vita

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Beppe Fenoglio

1 La vita

Gli anni della formazione

Giuseppe Fenoglio, detto Beppe, nasce nel 1922 ad Alba (Cuneo), dove il padre si era trasferito dalla campagna circostante, prima garzone di macellaio e poi macellaio in proprio; ha due fratelli minori, Walter e Marisa. Ad Alba frequenta le scuole con qualche sacrificio della famiglia, giustificato però dai buoni risultati e incoraggiato dagli insegnanti, fino al ginnasio e al liceo. Dopo la licenza liceale, nel 1940 si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino, che frequenta saltuariamente, sostenendo pochi esami e con risultati non brillanti.

Nel gennaio 1943 Fenoglio è raggiunto dalla chiamata alle armi e segue il corso allievi ufficiali prima a Ceva (Cuneo), poi a Roma, da cui fugge dopo l’armistizio dell’8 settembre per rientrare fortunosamente ad Alba. Da questo momento inizia per lui l’esperienza partigiana, che segnerà in modo decisivo la sua vita e la sua scrittura. Nel dicembre, insieme al fratello Walter, collabora all’assalto alla caserma dei carabinieri di Alba, riuscendo a liberare i padri dei renitenti alla leva lì tenuti in ostaggio. Nel gennaio 1944 si unisce a una formazione garibaldina, costituita da partigiani comunisti.
Rientra poi in famiglia e vi ritrova il fratello, che si era arruolato nell’esercito della Repubblica sociale, ma aveva poi disertato. Tutta la famiglia Fenoglio viene arrestata in seguito a una delazione: le donne vengono rilasciate poco dopo, mentre gli uomini sono scambiati qualche tempo più tardi, grazie alla mediazione del vescovo, con alcuni fascisti catturati dai partigiani. A settembre Fenoglio raggiunge di nuovo le formazioni combattenti insieme a Walter, nelle Langhe meridionali, unendosi questa volta ai reparti badogliani, i cosiddetti Azzurri (dal colore del fazzoletto portato al collo), che raccolgono monarchici, liberali e cattolici. Con loro partecipa alla liberazione di Alba (10 ottobre 1944), che verrà però riconquistata dai nazifascisti il 2 novembre.
Dopo il proclama del generale americano Harold Alexander, che chiedeva la cessazione dell’attività partigiana, Fenoglio trascorre da solo l’inverno, nascosto a Cascina della Langa, per riprendere i combattimenti nelle file partigiane nel febbraio del 1945, fino al termine della guerra.

La maturità

Finita la guerra, Fenoglio trova inizialmente difficoltà a reinserirsi nella vita civile, finché nel 1947 viene assunto, grazie alla sua conoscenza dell’inglese e del francese, in un’azienda vinicola albese, per curarvi le esportazioni.
Abbastanza inconsueto è il suo percorso politico: il precoce e autentico antifascismo non lo ha spinto a sinistra, neanche quel tanto da consentirgli di essere repubblicano, e infatti in occasione del referendum del 2 giugno 1946 vota per la monarchia. Fenoglio non apprezza i comunisti poiché durante la guerra partigiana li riteneva «un incomprensibile sottoprodotto della guerriglia». Solo in seguito, prendendo atto delle condizioni sociali del dopoguerra e constatando di persona come, per esempio, «in una impresa vinicola di Alba… un centinaio di donne, con mani paonazze, lavava bottiglie da mattina a sera per un salario inferiore al necessario per vivere, Fenoglio cominciò a vedere i “rossi” in una nuova prospettiva», incamminandosi «per gli amari sentieri della sinistra non comunista» (Chiodi), vale a dire su posizioni politiche non strettamente legate al Pci.

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il carattere

Tra sfiducia e determinazione

Letteratura e antifascismo
Il giovane Beppe Fenoglio è un ragazzo amante dello sport, fantasioso, riflessivo, affetto da una leggera balbuzie allorché, negli anni del ginnasio, viene colto da una passione “letteraria” per il mondo anglosassone, per la sua lingua, cultura e letteratura, che si rivelerà indistruttibile, ed è la spia della «ricerca di un modello umano, di una “formazione” di uno stile diverso da quello che il fascismo gli offriva» (Chiodi).

Uno scrittore in ufficio
Finita la guerra, l’impegno letterario di Fenoglio diventa però causa di tensioni familiari, soprattutto con la madre, che gli rimprovera l’abbandono degli studi universitari, l’accanito vizio del fumo, la dipendenza economica dalla famiglia, l’abitudine di appartarsi a scrivere per ore. Tutto si risolve con l’assunzione, nel 1947, in una ditta vitivinicola di Alba. Si tratta di un lavoro non molto impegnativo, se non in alcuni periodi dell’anno, che lascia a Fenoglio tempo per scrivere, talora anche in orario d’ufficio. Non abbandonerà più quella ditta, della quale diventerà procuratore e dove lavorerà fino alla morte, circondato dall’affetto e dalla stima che colleghi e amici gli tributano per i suoi schietti tratti umani e lo scrupolo con cui svolgeva le sue mansioni.

La tormentata vocazione letteraria
L’altro aspetto dell’anonima e quieta vita provinciale di Fenoglio è una ricerca letteraria tesa e tormentata, segnata sin dall’inizio dal contrasto tra una robusta vocazione alla scrittura e il timore (che non si dissolverà mai del tutto) di non essere in grado di dare espressione adeguata al mondo che intendeva narrare. I dubbi sulle proprie capacità di scrittore sono testimoniati fra l’altro dall’intenso lavorio di stesure e rifacimenti sui testi, progetti abbandonati e poi ripresi, scorporamenti e riaggregazioni di brani. Così confida lo stesso Fenoglio: «La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
Scrivo with a deep distrust and a deeper faith». Vale a dire: con una profonda sfiducia (nei propri mezzi artistici), ma con una fede ancor più profonda (nel lavoro di scrittore e nel suo significato).

Al periodo dell’immediato dopoguerra risalgono anche i suoi esordi come narratore: la pubblicazione del suo primo racconto, Il trucco, avviene nel 1949 su “Pesci rossi”, bollettino editoriale della Bompiani, sotto lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti.
Per affermarsi deve però attendere la pubblicazione con la casa editrice Einaudi, presso la quale nel 1952 esce la raccolta di racconti I ventitre giorni della città di Alba.
Nel 1960 sposa Luciana Bombardi, dalla quale nel 1961 ha una figlia, Margherita.
Ammalatosi di cancro ai bronchi, dal 1962 alterna periodi di riposo in collina e altri di degenza in una clinica di Bra (Cuneo). Consapevole di avvicinarsi alla fine, scrive: «Sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello». Ricoverato infine all’ospedale delle Molinette di Torino, gli viene praticata la tracheotomia e, nel taccuino che usa per comunicare con i suoi cari, ordina un «funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, fiori e discorsi». Muore a Torino nel 1963.

2 Le opere

I testi degli anni Cinquanta

I ventitre giorni della città di Alba

Il primo volume pubblicato da Beppe Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba, esce nel 1952 nei “Gettoni” di Einaudi, la collana di narrativa diretta da Elio Vittorini che ospita i più promettenti romanzieri italiani del secondo dopoguerra.

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Il volume, inizialmente intitolato Racconti della guerra civile, comprende 12 racconti incentrati in parte su momenti ed episodi di vita partigiana, in parte sulla vita contadina nelle Langhe. Pur accostabili per certi tratti esteriori, soprattutto tematici, alla narrativa neorealista e resistenziale, questi testi se ne distaccano nettamente per la loro prospettiva, che non è quella collettiva proposta dai narratori progressisti, ma una disincantata ottica individuale. Sono invece ancora incerte le scelte espressive, che oscillano tra la deformazione in chiave grottesca e quella asciuttezza che costituirà lo stile più tipico di Fenoglio.

La malora

Già manifestatosi nei Ventitre giorni della città di Alba come elemento strutturale della narrativa fenogliana, l’autobiografismo domina anche il romanzo breve La malora (1954), ispirato al tema della terra e della campagna piemontesi, i cui contenuti sono basati sulla conoscenza diretta, da parte dell’autore, dell’ambiente rappresentato. La ripresa dei moduli veristi, in particolare da Verga, determina, sul piano dello stile, l’uso di termini e costrutti sintattici dialettali.

Agostino, sedicenne figlio di contadini delle Langhe, è costretto dalla povertà della famiglia a mettersi a servizio come garzone presso Tobia, mezzadro di un podere vicino. Quando il padre di Agostino muore, un fratello, Emilio, entra in seminario ad Alba, mentre l’altro fratello, Stefano, rimane a lavorare la poca terra rimasta insieme alla madre. Ferocemente attaccato al lavoro, Tobia è un padrone dispotico e violento, non solo nei confronti di Agostino ma anche verso i suoi due figli maschi e la moglie. Agostino fa così esperienza della dura lotta per la sopravvivenza a cui l’estrema povertà costringe le persone. Non si realizza nemmeno il suo delicatissimo amore per Fede, una ragazza presa a servizio da Tobia affinché aiuti la moglie malata e sfinita dai parti e dalle fatiche: i genitori della giovane – abituati, come tutti gli altri personaggi dell’opera, al mero calcolo economico – preferiranno darla in moglie a un ricco proprietario. Nell’epilogo Agostino torna a casa della madre, dove giungerà anche Emilio, che morirà di tubercolosi.

Primavera di bellezza

Nel 1959 esce il romanzo Primavera di bellezza, pubblicato questa volta da Garzanti e non da Einaudi, a causa delle tensioni createsi con Vittorini per alcune divergenze di carattere ideologico ed estetico.
Fenoglio torna con quest’opera ai temi della guerra e della Resistenza, attingendo più direttamente all’autobiografia, rielaborata attraverso il filtro della memoria. Dal punto di vista espressivo, è l’opera più composita dello scrittore, essendo costruita – insieme – sui toni del lirismo memorialistico, della deformazione ironica o polemica e dell’essenzialità dei sentimenti. Nel testo è presente l’innesto dell’inglese su un italiano di livello decisamente colto, una soluzione linguistica destinata a riproporsi anche nella futura produzione fenogliana.

I volumi postumi

Un giorno di fuoco – Una questione privata

Nel 1963, alcuni mesi dopo la morte di Fenoglio, esce postumo un volume a cui lo scrittore aveva lavorato fino all’ultimo. È una raccolta di 13 racconti – ancora dedicati alla Resistenza e alla vita contadina nelle Langhe – dal titolo Un giorno di fuoco, che comprende anche un testo più esteso, il romanzo breve incompiuto Una questione privata.

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Incentrato su un episodio della guerra partigiana, Una questione privata è considerato uno dei capolavori dello scrittore, in cui giungono a maturazione i diversi elementi della sua poetica. Due sono i temi principali: l’amore e la Resistenza. Il protagonista Miltonalter ego dell’autore – è uno studente universitario albese, un partigiano solitario così soprannominato a causa della sua passione per la letteratura inglese. Le ragioni della lotta civile si scontrano in lui con la «questione privata» del titolo, quando rivede, durante un’azione, la villa dove aveva abitato Fulvia, una ricca ragazza sfollata da Torino, che egli aveva amato e che ancora ama. Scoprendo poi che Fulvia ha frequentato Giorgio, un suo amico anche lui partigiano, Milton è colto dalla gelosia, tanto che, appreso che Giorgio è stato catturato dai fascisti, cercherà in ogni modo di liberarlo non tanto per salvare un compagno di lotta, quanto per conoscere finalmente la verità sul tenore della relazione intercorsa tra i due.

Su Una questione privata ha scritto Italo Calvino nella prefazione alla riedizione, nel 1964, del suo Il sentiero dei nidi di ragno, definendola un’opera costruita «con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso»; e aggiungendo: «nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché».

Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Appunti partigiani 1944–1945

Nel 1968 esce un romanzo importante e complesso, seppure non terminato, Il partigiano Johnny, rinvenuto dattiloscritto nell’archivio dello scrittore. Segue, nel 1969, la pubblicazione di un testo del 1950 ancora inedito, La paga del sabato, che affronta il tema del difficile reinserimento nella società postbellica di chi ha fatto la Resistenza. Infine, nel 1994 viene edito con il titolo Appunti partigiani 1944–1945 un manoscritto risalente circa al 1946, che contiene le prime trame dei racconti resistenziali fenogliani.

Del romanzo – che può essere considerato il vero punto d’approdo dell’epopea di Fenoglio – sono state ritrovate due stesure, redatte probabilmente tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta ed entrambe a un certo punto abbandonate dall’autore a favore di altri progetti narrativi. All’edizione curata nel 1968 da Lorenzo Mondo – risultante dal rimaneggiamento dei due manoscritti, diversamente datati e stilisticamente eterogenei, e per questo tacciata di arbitrarietà – nel 1978 ne è seguita un’altra, allestita da Maria Corti, che ha pubblicato separatamente e integralmente le due redazioni. Ma quest’ultima, se appare più rigorosa dal punto di vista filologico, è anche assai meno leggibile rispetto alla prima, soprattutto per quanto concerne la trama e gli snodi narrativi.
Una soluzione di compromesso può essere considerata la versione del romanzo pubblicata nel 1992 dal filologo Dante Isella, il quale ha seguito la stesura più antica per i primi venti capitoli e la seconda per gli ultimi diciannove.

Johnny è il giovane protagonista, personaggio in gran parte autobiografico, che trova nella letteratura e nella cultura inglesi un’alternativa polemica al provincialismo del regime fascista. Dopo l’8 settembre del 1943 è per lui naturale la decisione di andare a combattere nelle file partigiane: non perché ami i combattimenti, che anzi gli ripugnano quasi fisicamente, ma per un intimo bisogno di mettersi alla prova. Di fronte alla dura realtà della vita partigiana, alla solitudine, alla fame, alle snervanti attese nelle lunghe giornate in collina, alle rivalità tra i comunisti («i rossi») e i badogliani («gli azzurri»), il mito della lotta giusta si infrange. Per Johnny è una grave delusione, ma egli apprende nuovi valori umani e morali, in particolare quello della solidarietà che deve esistere tra gli individui.

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La vita Le opere
• Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo 1922  
• Si iscrive alla facoltà di Lettere a Torino 1940
• Allievo ufficiale, dopo l’armistizio fugge da Roma 1943  
• Entra nella Resistenza partigiana 1944  
• Viene assunto in un’azienda vinicola di Alba 1947
1952 I ventitre giorni della città di Alba
1954 La malora
1959 Primavera di bellezza
• Sposa Luciana Bombardi 1960  
• Muore a Torino 1963  
1963 Un giorno di fuoco
Una questione privata
1968 Il partigiano Johnny
1969 La paga del sabato
1994 Appunti partigiani 1944–1945

3 I grandi temi

Una Resistenza antiretorica

Il racconto della Resistenza nelle opere di Fenoglio è caratterizzato innanzitutto da un’ansia di verità antiretorica, una sostanziale demitizzazione, lontana dall’enfasi che finiva con il falsare quella fase storica a cui, pure, lo scrittore ha preso parte con convinzione. Egli non intende dissacrare i valori e l’eroismo che molti partigiani hanno espresso, bensì ripercorrere quei fatti con realismo, coerenza e intransigenza morale, a costo di apparire impietoso.
Vale, a titolo di esempio, il celebre incipit del racconto I ventitre giorni della città di Alba, testo che dà il titolo alla prima raccolta di racconti, edita nel 1952: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». Qui Fenoglio non intende sminuire la portata di un’azione collettiva che mirava a liberare la città dall’occupazione nazifascista, quanto a demistificare – appunto – la retorica che attorno a quei fatti si era sviluppata.

All’epoca della pubblicazione un simile approccio ai temi della Resistenza non era gradito agli intellettuali di impostazione comunista che dettavano la linea della casa editrice Einaudi. Sia Italo Calvino sia Elio Vittorini consigliarono per esempio modifiche sostanziali a un testo come La paga del sabato, il cui protagonista è un ex partigiano che fatica a reinserirsi nella società del dopoguerra, diventando un piccolo malfattore di paese. Evidentemente non piaceva un ritratto così poco agiografico di un personaggio legato alla stagione resistenziale, tanto che il romanzo, nonostante i cambiamenti apportati dall’autore, verrà pubblicato solo postumo, nel 1969.

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Il fatto è che Fenoglio della Resistenza mette in evidenza – nelle opere citate, ma anche nel romanzo breve Una questione privata e nel romanzo incompiuto Il partigiano Johnny – sia gli aspetti drammatici sia quelli più banali e talvolta anche comici, attinenti alla vita quotidiana e ai tipi umani che vi compaiono. Al tempo stesso affiorano anche i lati contraddittori (come i sentimenti non sempre ben definiti sul piano morale di alcuni partigiani) e quelli avventurosi, utili ai fini di una narrazione che nei suoi sviluppi più legati alle vicende belliche e alle azioni militari assume toni epici. Egli racconta le vicende mostrando luci e ombre, spesso anche mettendo sé stesso sulla scena, persino con una certa ironia o con toni grotteschi. Ciò non gli impedisce di percepire la dimensione tragica degli eventi, anzi la spregiudicatezza del suo sguardo la pone in risalto con una maggiore forza di verità.
Semplicemente, egli non accetta di dipingere la Resistenza in termini stereotipati o edificanti, come una gloriosa guerra di popolo, raffigurandola piuttosto «come avventura ribelle di uomini che eventi e accadimenti avevano trasferito imprevedibilmente dall’osteria e dal cinema del paese sulle colline. Nessuno scrittore aveva fornito della Resistenza dati e connotati così impietosi e crudi, né mai l’aveva configurata nella sua più dura realtà umana e storica, interpretandola come rivolta di pochi destinata al disadattamento civile nella stagione successiva» (Mauro). Per questo un racconto come I ventitre giorni della città di Alba verrà considerato «ignobile» dai critici comunisti.

Un altro aspetto importante da sottolineare è il fatto che nella narrativa di Fenoglio – come ha scritto il critico Geno Pampaloni – «la guerra, la lotta per la sopravvivenza e la dignità e infine la morte si elevano a paradigma non soltanto della storia di una generazione, ma di un modo altamente drammatico di intendere la vita e la fatalità delle sue scelte». In altri termini, la Resistenza è il contesto storico-politico in cui lo scrittore colloca le vicende dei suoi libri, che però puntano a parlare, prima ancora che della contingenza di una particolare situazione collettiva, delle grandi questioni dell’esistenza dei singoli: la vita, la morte, il caso, il destino, l’amore, la violenza degli uomini e il loro gusto per l’avventura.

 T1 

La liberazione di Alba

I ventitre giorni della città di Alba


Il racconto da cui prende il titolo la raccolta I ventitre giorni della città di Alba rievoca un episodio della lotta di liberazione dal nazifascismo avvenuto nelle Langhe (per il quale la città piemontese si guadagnerà la medaglia d’oro al valore militare per la Resistenza): il 10 ottobre 1944 i partigiani riescono a liberare la città di Alba, restandovi fino al 2 novembre, quando sono costretti a ritirarsi davanti al contrattacco delle truppe fasciste. Riportiamo le prime pagine del racconto.

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre
dell’anno 1944.
Ai primi d’ottobre, il presidio repubblicano,1 sentendosi mancare il fiato per la
stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte
5 le notti quelli scendevano a far bordello2 con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi3
che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti4 ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l’incolumità dell’esodo.

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I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò.
I repubblicani passarono il fiume Tanaro5 con armi e bagagli, guardando indietro
10 se i partigiani subentranti non li seguivano un po’ troppo dappresso, e qualcuno
senza parere faceva corsettine avanti ai camerati, per modo che, se da dietro
si sparava un colpo a tradimento, non fosse subito la sua schiena ad incassarlo.
Quando poi furono sull’altra sponda e su questa di loro non rimase che polvere
ricadente, allora si fermarono e voltarono tutti, e in direzione della libera città di
15 Alba urlarono: «Venduti, bastardi e traditori, ritorneremo e v’impiccheremo tutti!».
Poi dalla città furon visti correre a cerchio verso un sol punto: era la truppa che
si accalcava a consolare i suoi ufficiali che piangevano e mugolavano che si sentivano
morire dalla vergogna. E quando gli parve che fossero consolati abbastanza
tornarono a rivolgersi alla città e a gridare: «Venduti, bastardi…!» eccetera, ma
20 stavolta un po’ più sostanziosamente, perché non erano tutti improperi6 quelli
che mandavano, c’erano anche mortaiate7 che riuscirono a dare in seguito un bel
profitto ai conciatetti8 della città. I partigiani si cacciarono in porte e portoni, i
borghesi ruzzolarono in cantina, un paio di squadre corse agli argini da dove aprì
un fuoco di mitraglia che ammazzò una vacca al pascolo sull’altra riva e fece aria ai
25 repubblicani che però marciaron via di miglior passo.
Allora qualcuno s’attaccò alla fune del campanone della cattedrale, altri alle
corde delle campane dell’altre otto chiese di Alba e sembrò che sulla città piovesse
scheggioni di bronzo.9 La gente, ferma o che camminasse, teneva la testa rientrata
nelle spalle e aveva la faccia degli ubriachi o quella di chi s’aspetta il solletico in
30 qualche parte. Così la gente, pressata contro i muri di via Maestra, vide passare i
partigiani delle Langhe. Non che non n’avesse visti mai, al tempo che in Alba era
di guarnigione il II Reggimento Cacciatori degli Appennini e che questi tornavano
dall’aver rastrellato una porzione di Langa, ce n’era sempre da vedere uno o due
con le mani legate col fildiferro e il muso macellato,10 ma erano solo uno o due,
35 mentre ora c’erano tutti (come credere che ce ne fossero altri ancora?) e nella loro
miglior forma.
Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per
cento carnevali. Fece un’impressione senza pari quel partigiano semplice che passò
rivestito dell’uniforme di gala di colonnello d’artiglieria cogli alamari11 neri e le
40 bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio.
Sfilarono i badogliani12 con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini13
col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di
battaglia. 14 La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori
ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite.

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45 Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente
cominciò a mormorare: «Ahi, povera Italia!», perché queste ragazze avevano delle
facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti,
che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato
ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline,15 ma quelle li avevano
50 mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città.
A proposito dei capi, i capi erano subito entrati in municipio per trattare col
commissario prefettizio16 e poi, dietro invito dello stesso, si presentarono al balcone,
lentamente, per dare tutto il tempo ad un usciere di stendere per loro un
ricco drappo sulla ringhiera. Ma videro abbasso la piazza vuota e deserti i balconi
55 dirimpetto. Sicché la guardia del corpo corse in via Maestra a spedire in piazza
quanti incontrava. A spintoni ne arrivò un centinaio, e stettero con gli occhi in alto
ma con le braccia ciondoloni. Allora le guardie del corpo serpeggiarono in quel
gruppo chiedendo tra i denti: «Ohei, perché non battete le mani?». Le batterono
tutti e interminabilmente nonché di cuore. Era stato un attimo di sbalordimento:
60 su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di
ventimila e non di duemila uomini, e poi in prima fila si vedeva un capo che su dei
calzoncini corti come quelli d’una ballerina portava un giubbone di pelliccia che
da lontano sembrava ermellino, e un altro capo che aveva una divisa completa di
gomma nera, con delle cerniere lampeggianti.
65 Intanto in via Maestra non c’era più niente da vedere: giunti in cima, i partigiani
scantonarono. Una torma,17 che ad ogni incrocio s’ingrossava, corse ai due
postriboli 18 della città, con dietro un codazzo di ragazzini che per fortuna si fermarono
sulla porta ad attendere pazientemente che ne uscisse quel partigiano la
cui divisa o la cui arma li aveva maggiormente impressionati. In quelle due case
70 c’erano otto professioniste che quel giorno e nei giorni successivi fecero cose da
medaglie al valore. Anche le maitresses19 furono bravissime, riuscirono a riscuotere
la gran parte delle tariffe, il che è un miracolo con gente come i partigiani abituata
a farsi regalar tutto.
Ma non erano tutti a puttane, naturalmente, anzi i più erano in giro a requisir
75 macchine, gomme e benzina. Non senza litigare tra loro con l’armi fuor di sicura,20
scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante
scuola di guida nel viale di circonvallazione. Per le vie correvano partigiani
rotolando pneumatici come i bimbi d’una volta i cerchi nei giardini pubblici.
A conseguenza di ciò, la benzina dava la febbre a tutti. In quel primo giorno e
80 poi ancora, scoperchiavano le vasche dei distributori e si coricavano colla pancia
sull’asfalto e la testa dentro i tombini. «Le vasche sono secche, secche da un anno»,
giuravano i padroni, ma i partigiani li guardavano in cagnesco e dicevano di vedere
i riflessi e che quindi la benzina c’era. I padroni cercavano di spiegare che i riflessi
venivano da quelle due dita di benzina che restano in ogni vasca vuota, ma che la
85 pompa non pescava più. Allora i partigiani riempivano di bestemmie le vasche e
lasciavano i padroni a tapparle. Benzina ne scovarono dai privati, pochissima però,

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la portavano via in fiaschi. Quel che trovarono in abbondanza fu etere,21 solvente
ed acquaragia22 coi quali combinarono miscele che avvelenarono23 i motori.
Altri giravano con in mano un elenco degli ufficiali effettivi, e di complemento,24
90 della città, bussavano alle loro porte vestiti da partigiani e ne uscivano poi
bardati da tenenti, capitani e colonnelli. Invadevano subito gli studi dei fotografi e
posavano in quelle divise, colla faccia da combattimento che spaccava l’obiettivo.
Intanto, nel Civico Collegio Convitto che era stato adibito a Comando Piazza,
i comandanti sedevano davanti a gravi problemi, di difesa, di vettovagliamento e
95 di amministrazione civile in genere. Avevano tutta l’aria di non capircene niente,
qualche capo anzi lo confessò in apertura del consiglio, segretamente si facevano
l’un l’altro una certa pena perché non sapevano cosa e come deliberare. Comunque
deliberarono fino a notte.
Quella prima notte d’occupazione passò bianca per civili e partigiani. Non si
100 può chiuder occhio in una città conquistata ad un nemico che non è stato battuto.
E se il presidio fuggiasco avesse cambiato idea, o avesse incontrato sulla sua strada
chi gliel’avesse fatta cambiare, e cercasse di rientrare in Alba quella notte stessa? I
borghesi nell’insonnia ricordavano che la sera, nel primo buio, quel pericolo era
nell’aria e stranamente deformava le case e le vie, appesantiva i rumori, rendeva la
105 città a momenti irriconoscibile a chi c’era nato e cresciuto. E i partigiani, che in collina
riuscivano a dormire seduti al piede d’un castagno, sulle brande della caserma
non chiusero occhio. Pensavano, e in quel pensare che a tratti dava nell’incubo,
Alba gli pareva una grande trappola colle porte già abbassate. Era l’effetto del sentirsi
chiusi per la prima volta; le ronde25 che viaggiavano per la città nel fresco della
110 notte erano molto più tranquille e spensierate.
Non successe niente, come niente successe negli otto giorni e nelle otto notti
che seguirono. Accadde solo che i borghesi ebbero campo26 d’accorgersi che i partigiani
erano per lo più bravi ragazzi e che come tali avevano dei brutti difetti, e che
in materia di governo civile i repubblicani erano più competenti di loro. Accadde
115 ancora che uno di quei giorni, all’ora di pranzo, da Radio Torino si sentirono i capi
fascisti del Piemonte alternarsi a giurare che l’onta di Alba sarebbe stata lavata,
rovesciata la barbara dominazione partigiana eccetera eccetera.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

La liberazione di Alba per mano dei partigiani viene descritta da Fenoglio senza alcuna retorica, anzi con toni nettamente demistificatori. L’entrata in città dei partigiani vittoriosi è descritta come la più selvaggia parata della storia moderna (r. 37). Per sottolineare la presenza all’interno del fronte antifascista di componenti eterogenee (spesso tra loro ferocemente avverse), l’autore si sofferma su un’impressione visiva e la traduce in un’espressione molto forte, che indirettamente equipara quel corteo a qualcosa di buffonesco: di divise ce n’era per cento carnevali (rr. 37–38).

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I capi, inoltre, sono molto più numerosi di quanto la truppa lascerebbe supporre (su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini, rr. 60–61). I partigiani, in preda alla frenesia sessuale, dopo settimane o mesi di solitudine, accorrono alle case di tolleranza; altri non esitano a requisire automobili, pneumatici e benzina (per la causa o per uso personale?); altri ancora si fanno consegnare le divise dagli ufficiali dell’esercito regolare per indossarle e pavoneggiarsi davanti a una macchina fotografica. Infine il narratore si sofferma sull’incapacità amministrativa di cui, sin dai primi giorni di governo della città, i comandanti danno prova ( Avevano tutta l’aria di non capircene niente, […] non sapevano cosa e come deliberare. Comunque deliberarono fino a notte, rr. 95–98).

Quando il racconto fu pubblicato, nel 1952, erano numerosi i diari, le testimonianze, i memoriali, le celebrazioni. Perciò di fronte a un testo come questo di Fenoglio – ha ricordato la scrittrice Gina Lagorio – «si gridò alla dissacrazione della Resistenza, perché non si era abituati alla corrosione del grottesco, tanto più in un terreno che grondava sangue […]; ma nacque anche l’ammirazione per quel suo stile capace di contenere l’emozione […], capace di separare con beffardo distacco ciò che è parata e schiamazzo, dai fatti e dalle ragioni dolorosamente vive sotto quella scorza inaccettabile al suo gusto».
È chiaro da che parte sta Fenoglio, che aveva militato in prima persona nelle brigate partigiane, anche se non esita a descriverle in maniera realistica e niente affatto celebrativa. D’altronde non emerge alcuna simpatia verso i fascisti, i quali – al contrario – sono rappresentati nella prima parte del brano come dei vigliacchi che, dopo essere usciti mogi e silenziosi da Alba, prorompono in insulti e sparano colpi di artiglieria verso la città quando ormai sono al sicuro sull’altra sponda del Tanaro. La loro viltà si esprime anche nel comportamento di chi corre avanti agli altri per far sì che un eventuale sparo alle spalle colpisca un altro camerata e non lui.

Va detto che il seguito del racconto celebra, specialmente nella parte conclusiva, l’eroismo e l’abnegazione dei pochi partigiani che rimangono ai loro posti anche a costo della vita, nel tentativo di impedire che Alba torni in mano ai fascisti. Al di là dei contenuti ideologici, ciò che interessa allo scrittore è mettere a fuoco «la condizione esistenziale di sempre dell’uomo, il suo essere esposto alla violenza dei propri simili e della natura, il suo egoismo gretto e meschino, la superbia e la paura; ma soprattutto l’opposizione tra i pochi eroi del bene, isolati in solitaria e sovrumana grandezza, e i molti vili » (Boggione). È questo un tema che compare già all’inizio del racconto, in quella sproporzione, volutamente rimarcata, tra i duemila che prendono Alba e i duecento che rimarranno a difenderla, seppure invano, sino alla fine.

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Le scelte stilistiche

Due sono le modalità espressive che emergono con maggiore evidenza: il tono colloquiale e l’approccio ironico del narratore ai fatti raccontati. Il primo aspetto si nota sia sul piano lessicale, con l’alto numero di vocaboli e modi di dire tipici del parlato, sia su quello sintattico, con il ricorso a costrutti propri dell’oralità: la ripresa pleonastica* del complemento oggetto già nell’incipit Alba la presero in duemila (r. 1); locuzioni gergali come far bordello (r. 5); l’uso di gli al posto del pronome di terza persona plurale “loro” (per esempio, rr. 7 e 18); il che polivalente (per esempio, rr. 7 e 17) invece della congiunzione causale “poiché”; le espressioni scurrili li avevano mandati a farsi fottere (rr. 49-50) e non erano tutti a puttane (r. 74) ecc. La colloquialità del dettato ha la funzione di distanziare emotivamente vicende drammatiche a cui lo scrittore stesso aveva preso parte, per renderle in maniera più oggettiva, mostrando la miscela di eroismo e di opportunismo, di valore e di mediocrità, di coraggio e di meschinità, che caratterizzò i comportamenti e gli atteggiamenti dei singoli. Tuttavia, il linguaggio presente in questo testo non è neutro o cronachistico, bensì fortemente espressivo.

L’ironia si diffonde uniformemente nel modo in cui sono descritti sia i comportamenti dei partigiani sia quelli dei loro avversari: per esempio sotto forma di iperbole*, per cui la ritirata dei fascisti diventa un esodo (r. 7, con l’indiretta assimilazione del Tanaro al Mar Rosso); con la sottolineatura dell’effetto degli spari sulla retroguardia fascista ( un paio di squadre […] aprì un fuoco di mitraglia che […] fece aria ai repubblicani che però marciaron via di miglior passo, rr. 23–25); attraverso i commenti maligni della gente sulle donne partigiane (Ahi, povera Italia!, r. 46); con le numerose richieste di prestazioni a cui vengono sottoposte le prostitute (otto professioniste che quel giorno e nei giorni successivi fecero cose da medaglie al valore, rr. 70–71); nella scena dei partigiani che scappano dopo aver requisito gli pneumatici (Per le vie correvano partigiani rotolando pneumatici come i bimbi d’una volta i cerchi nei giardini pubblici, rr. 77–78). In tal modo i momenti descritti assumono un tono comico che tende anch’esso a demistificare la materia resistenziale.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto del brano in circa 15 righe.


2 Rileggi la sequenza (rr. 51–64) in cui i capi si affacciano al balcone. Come viene descritto l’atteggiamento della gente e che aspetto hanno questi leader?


3 Perché i partigiani fanno fatica a dormire durante la prima notte in città?


4 Spiega il titolo del racconto.

ANALIZZARE

5 Individua altre espressioni ironiche oltre a quelle segnalate nell’analisi.


6 Nel brano è presente un esempio di discorso indiretto libero. Rintraccialo e commentane brevemente il contenuto.

INTERPRETARE

7 Come descriveresti lo stato d’animo dei partigiani?


8 Per quale motivo, a tuo giudizio, i partigiani desiderano indossare vere divise militari?

PRODURRE

9 Metti a confronto questo brano con quello di Cesare Pavese tratto dal romanzo La casa in collina (► T3, p. 752), individuando analogie e differenze sia nel contenuto sia nel tono del narratore.


Al cuore della letteratura - volume 6
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Dal Novecento a oggi