2 - Le opere

Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Cesare Pavese

2 Le opere

La produzione poetica

Lavorare stanca

L’esordio letterario di Pavese avviene nel campo della poesia. È del 1936 la pubblicazione, presso le edizioni di “Solaria”, della raccolta Lavorare stanca, che riunisce alcune liriche elaborate tra il 1931 e il 1935. L’edizione definitiva, uscita presso Einaudi nel 1943, comprenderà 70 componimenti.

Nel pieno della stagione ermetica, Pavese opta, in netta controtendenza, per la forma della poesia–racconto, caratterizzata da immediatezza e trasparenza comunicativa e articolata su versi lunghi (per lo più di tredici sillabe) il cui andamento narrativo echeggia quello di Foglie d’erba (1855), la più importante raccolta dell’amato poeta statunitense Walt Whitman. L’autore supera così il soggettivismo, la frammentazione e l’oscurità tipici dell’Ermetismo, senza però rinunciare alla concentrazione lirica.
Egli afferma di concepire ogni poesia come un racconto a sé stante, «chiaro e pacato», in cui l’efficacia musicale si accompagna sempre alla chiarezza logica. Tale effetto viene raggiunto con un approccio il più possibile oggettivo ai temi trattati: la ricerca di contatti con le persone e con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui l’autore proviene, nonché l’aspirazione a difendersi dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal pensiero della morte; e, ancora, la città come luogo dell’età adulta contrapposta alla campagna quale orizzonte mitizzato dell’infanzia, l’opposizione uomo–donna.

La terra e la morte e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Per un lungo periodo Pavese interrompe la produzione poetica per dedicarsi alla narrativa, ma vi torna negli ultimi anni con due brevi raccolte, La terra e la morte (1945– 1946) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1950), uscite postume nel 1951 in un unico volume con il titolo della seconda. Qui l’autore abbandona la poesia–racconto degli esordi per recuperare, anche attraverso l’adozione di versi brevi e regolari, i temi più tradizionali della lirica, in particolare l’espressione del sentimento amoroso e dell’infelicità che scaturisce dalla sua frustrazione.

La produzione narrativa

I primi romanzi

Paesi tuoi

L’esordio di Pavese come narratore avviene nel 1941 con la pubblicazione del romanzo Paesi tuoi, scritto due anni prima. Protagonisti sono due uomini, reduci dall’esperienza del carcere: l’operaio Berto e l’agricoltore Talino. All’uscita dalla prigione, Talino convince Berto a seguirlo nella sua cascina, dove potrà aiutarlo nel lavoro dei campi.
Tra i due si crea un rapporto ambivalente: Berto partecipa alla vita della famiglia di Talino (madre, padre e quattro sorelle), fino a innamorarsi di Gisella, la sorella più giovane dell’amico, che scopre essere stata violentata dal fratello. Nella torbida atmosfera di questo particolare “triangolo”, la tensione cresce sino all’esplosione finale di violenza, in cui Gisella cade vittima della furia omicida di Talino.

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La spiaggia

Al centro del romanzo successivo, La spiaggia, scritto tra il 1940 e il 1941 e pubblicato nel 1942, c’è la vicenda di una coppia di coniugi, Doro e Clelia, il cui rapporto, durante un’estate al mare, entra in crisi. La narrazione è condotta dal protagonista, amico d’infanzia di Doro, che per alcuni giorni si trattiene in riviera con loro e con altri amici.
È un’opera che sembra isolata dal resto della produzione pavesiana: vi appare il motivo del ritorno alle Langhe, in occasione di una gita al paese natale di Doro, ma esso non viene approfondito. Il romanzo sembra più un esercizio di stile, un repertorio di spunti che verranno ben diversamente sviluppati nelle opere successive.

Le opere del dopoguerra

Il compagno

Nel dopoguerra Pavese pubblica Il compagno (1947), la sua opera più vicina al Neorealismo (giudicata dai critici la meno riuscita), tesa a rappresentare un protagonista “positivo”, che vive la maturazione della propria coscienza di classe.

Il carcere e La casa in collina

Nel 1949 esce il volume Prima che il gallo canti, che comprende due romanzi brevi: Il carcere, che trae spunto dall’esperienza del confino, e La casa in collina.

Quest’ultimo è incentrato sulla vicenda, dai tratti autobiografici, di un intellettuale incapace di prendere parte agli eventi della guerra e della Resistenza. Il protagonista, Corrado, professore in una scuola di Torino, trova rifugio dai bombardamenti sulle colline intorno alla città; lì ritrova Cate, che otto anni prima aveva conosciuto e amato e che ora ha un figlio, Dino, al quale l’uomo si affeziona, sospettando (e quasi desiderando) di esserne il padre. Cate partecipa con altri partigiani alle azioni clandestine, alle quali invece Corrado resta estraneo, essendo però testimone delle vicende del 1943 (il 25 luglio, l’8 settembre, l’occupazione tedesca, la lotta partigiana). Dino fugge in montagna per raggiungere gli amici partigiani, Cate viene deportata e Corrado si rifugia nella casa dei genitori, quasi a cercare nei luoghi dell’infanzia un riparo dalla Storia e dalla vita.

La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, Dialoghi con Leucò

Il volume La bella estate (1949), per cui Pavese riceve il Premio Strega, raccoglie tre romanzi brevi: oltre a quello che gli dà il titolo, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, in una trilogia che mira a rappresentare la crisi morale ed esistenziale della borghesia. A parte vanno ricordati i Dialoghi con Leucò (1949), un libro che ha come protagonisti alcuni personaggi del mito greco e con cui Pavese si propone di aggiornare il modello leopardiano delle Operette morali in un testo di grande forza immaginativa e concettuale.

La luna e i falò

Composto tra il settembre e il novembre del 1949, il romanzo più importante di Pavese, La luna e i falò, esce nella primavera del 1950. È l’opera conclusiva nonché il capolavoro della parabola artistica dell’autore, del quale possiamo dire sintetizzi tutta la vicenda umana e letteraria.

Protagonista e narratore in prima persona è Anguilla, un quarantenne che, dopo aver viaggiato per il mondo, torna nelle Langhe, al paese in cui è cresciuto. Dove è nato non si sa, perché è stato raccolto in fasce sui gradini del duomo d’Alba e in seguito allevato da una povera famiglia di contadini, attratti dal denaro che l’ospedale di Alessandria pagava loro per aver preso in casa il trovatello.

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Tornato nei luoghi d’origine, Anguilla fatica a riambientarsi e a riconoscere la realtà che aveva lasciato molti anni prima. Comincia così un’efficacissima alternanza tra passato e presente, su cui è strutturata gran parte della narrazione. Dei suoi amici e conoscenti di un tempo il protagonista non ritrova quasi nessuno, tranne Nuto, «il falegname del Salto», il suo «complice delle prime fughe a Canelli», ma è cambiato anche lui: non è più il musicante che suonava il clarino in tutte le feste del circondario; ora è un uomo maturo, consapevole anche dal punto di vista sociale e politico.
Anguilla decide di recarsi alla cascina di Gaminella, dove gli sembra di rivedere il sé stesso di un tempo in Cinto, un ragazzino rachitico con numerosi problemi fisici. Ora la cascina è tenuta a mezzadria da Valino, il padre di Cinto, che vi abita con la cognata, con la quale intrattiene un rapporto incestuoso, e con la suocera paralitica: più avanti picchierà a morte la cognata e darà fuoco alla casa, uccidendo così anche la suocera, per poi impiccarsi a un noce.
Ma intanto Anguilla rievoca gli anni trascorsi alla Mora, un podere dove il ragazzo era stato collocato dalla sua famiglia adottiva, costretta a vendere la cascina di Gaminella a causa dello scarso rendimento della terra. Alla Mora Anguilla era maturato, acquistando coscienza di sé e del mondo, ammirando con trepidazione la bellezza delle figlie del padrone, il sor Matteo: Irene e Silvia, guardate «come si guardano due pesche troppo alte sul ramo».
Le due ragazze – Anguilla lo scopre ora – hanno però avuto un triste destino: Irene è scampata al tifo ma ha sposato un uomo che la maltratta, mentre Silvia è morta per le conseguenze di un aborto. Persino più tragica è la fine della terza figlia del sor Matteo, Santa, ancora una bambina ai tempi in cui Anguilla era alla Mora; a vent’anni era la più bella delle sorelle, ma durante la guerra aveva collaborato con i fascisti come spia, e così i partigiani l’avevano fucilata, per poi bruciarne il cadavere, come racconta Nuto nelle ultime righe del libro: «A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò».

Il romanzo si chiude con questa sorta di sacrificio umano, che suggella la centralità del tema della morte all’interno dell’opera. Un destino funebre aleggia infatti su tutti i personaggi, come osserva lo stesso Anguilla nel corso di una riflessione: «Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi. […] Ero tornato, […] avevo fatto fortuna […], ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più…».
La morte è posta in stretta relazione con la terra; in questo senso i molti omicidi che ricorrono nel libro rappresentano – secondo Italo Calvino – l’atto rituale attraverso cui si realizza la comunione con l’antica madre: morire significa tornare a essere terra, cioè qualcosa di fisso, immobile, duraturo.

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In questo senso, il ritorno al paese originario si configura per Anguilla come un ritorno alla terra da cui tutto ha avuto inizio, ma non si tratta di un ritorno sereno e pacificante: il mondo della Luna e i falò è percorso dall’orrore, dalla violenza e dalla follia delle persone e degli eventi, della guerra trascorsa, insomma di tutto ciò che si contrappone alla natura, entità contrassegnata, nell’universo ideologico di Pavese, dalle qualità della forza e della calma.

Presenti sin nel titolo sono due fondamentali elementi simbolici: la luna, che allude a ciclicità e ripetizione (l’eterno ritorno dei mesi e delle stagioni), e i falò, che si caricano di una duplice valenza. Da un lato sono quelli dell’infanzia di Anguilla, i falò delle attività agricole (nei quali i contadini bruciano le stoppie) e soprattutto quelli delle feste paesane: falò allegri che rappresentavano per il ragazzo la gioia della festa con le occasioni di scoperta e di iniziazione alla vita che quei momenti portavano con sé. Ma d’altro canto sono anche quelli della maturità, irrimediabilmente legati alla distruzione e alla morte (l’incendio appiccato da Valino alla cascina di Gaminella; il rogo che brucia il cadavere di Santa); sul piano simbolico essi significano l’evoluzione negativa della realtà attraverso il tempo, dall’infanzia all’età adulta.

Conformemente ai dettami del Neorealismo, Pavese elabora uno stile il più possibile aderente alla realtà narrata. Lessico e sintassi cercano di riprodurre il parlato dei personaggi, seppure all’interno di uno stile attentamente calibrato dal punto di vista sintattico e lessicale, che ingloba armonicamente le trasgressioni alle regole formali (anacoluti, costrutti dialettali ecc.) in una prosa di sobrietà quasi classica. Ne risulta un testo scarno, essenziale, ma al tempo stesso fluido, che peraltro dà spazio non di rado a immagini di forte suggestione lirica e di notevole spessore simbolico. Pavese, così, passa oltre il Neorealismo vero e proprio, a lui contemporaneo, non limitandosi a quella tensione verso la realtà oggettiva che caratterizza tale movimento. Ciò che conta per l’autore è la dimensione lirica ed evocativa della letteratura: compito dell’artista non è tanto la rappresentazione della realtà in sé, quanto lo scavo in essa, nelle sue profondità recondite, al fine di far emergere il fondo mitico e irrazionale delle cose e degli eventi.

I volumi postumi

Notte di festa

Tutti i racconti scritti fra il 1936 e il 1939 escono postumi, raccolti nel volume dal titolo Notte di festa (1953): sono testi brevi in cui si trovano abbozzati molti temi che lo scrittore avrebbe sviluppato, negli anni successivi, nell’ambito della produzione romanzesca: la solitudine, la fascinazione del paesaggio, la campagna, la città e le sue periferie, le inquietudini borghesi, le aspirazioni degli intellettuali spesso destinate alla frustrazione.
Nel 1959 esce il romanzo Fuoco grande (scritto in collaborazione con Bianca Garufi) e nel 1968 il testo giovanile Ciau Masino.

Il mestiere di vivere

Importante per la ricostruzione della personalità e del lavoro letterario di Pavese è il suo diario Il mestiere di vivere, pubblicato nel 1952, che comprende appunti scritti dal 1935 al 1950. È un libro che «interpreta tragicamente tutti i termini di una crisi», «investe da vicino i problemi del tempo» (Citati), ma rappresenta ancora oggi una lettura di notevole interesse e suggestione.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi