3 - I grandi temi

Il primo Novecento – L'autore: Eugenio Montale

3 I grandi temi

La concezione della poesia

Non è facile mettere a fuoco la poetica di Montale: in primo luogo perché conosce nel tempo una significativa evoluzione, e in secondo luogo per la riluttanza del poeta a lasciarsi imbrigliare in definizioni, scuole, correnti. Siamo dinanzi a un autore lucidissimo e ironico, che tende a depistare i critici e a dissimulare i riferimenti teorici del suo lavoro, riscontrati già in età giovanile sulle pagine di filosofi come Schopenhauer, Bergson, Boutroux. È dunque opportuno procedere per via di negazione e rimarcare innanzitutto la distanza dalle esperienze liriche coeve, tenendo presente un suo celebre distico: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Montale infatti non attribuisce al poeta un ruolo di vate o di profeta. Come si vedrà nella seconda parte dell’Unità, gli Ossi di seppia perseguono un evidente abbassamento di tono rispetto ai roboanti proclami futuristi o alla voce impostata dei «poeti laureati », in un’ottica di sostanziale equidistanza dalle avventure avanguardistiche e dalla vuota ripetizione di moduli ottocenteschi. In questo senso Gabriele d’Annunzio non rappresenta un idolo da abbattere, ma un modello da «attraversare», filtrandone i risultati stilistici più alti al setaccio di una sensibilità radicalmente diversa.

Nella raccolta d’esordio Montale esplora un angoscioso disagio esistenziale. L’io lirico si aggira smarrito, perplesso, dando prova di un’inettitudine a vivere che può ricordare i Crepuscolari. Ma, se questi reagivano assumendo toni patetici, il poeta ligure adotta un atteggiamento di stoica resistenza dinanzi alla «ferrea catena della necessità», in cui cerca «l’anello che non tiene». All’aridità interiore oppone la ricerca di uno spiraglio, di un varco in grado di dare tregua al «male di vivere», il quale non viene espresso in forma concettuale, per via di riflessioni astratte, ma condensato in una serie di immagini pregnanti: un muro sormontato da vetri spezzati (in Meriggiare pallido e assorto, ► T12, p. 603), una foglia secca che si accartoccia o un cavallo che stramazza a terra (in Spesso il male di vivere ho incontrato (► T13, p. 606).
Come Pascoli, anche Montale preferisce la specie al genere (non uccelli, ma «ghiandaie »; non un fiore, ma un «girasole») e ama concentrarsi su oggetti umili. Non intende però recuperare lo sguardo ingenuo del «fanciullino» pascoliano né cogliere l’essenza profonda e irrazionale del mondo, come aspirava a fare la poetica simbolista. Le cose diventano piuttosto emblemi dell’emozione provata dal poeta, che in esse si cristallizza, secondo modalità che ricordano da vicino la teoria del “correlativo oggettivo”, elaborata dal poeta statunitense Thomas Stearns Eliot (1888–1965) negli stessi anni: un’immagine o una situazione particolare acquistano per il lettore un immediato significato di valore universale, senza il bisogno di mediazioni o spiegazioni. Così il senso di una vita arida e prosciugata ha il suo emblema negli «ossi di seppia»; il male di vivere in un «rivo strozzato »; l’indifferenza e il distacco dalla vita in una «statua» colta nell’immobilità atmosferica di un pomeriggio estivo ecc.

Certamente la poesia di Montale è oscura e “difficile”, ma ciò non dipende tanto dall’uso audace dell’analogia o dall’abbondanza di concetti astratti, quanto piuttosto dalla fortissima concentrazione semantica e, soprattutto nella seconda e terza raccolta, dall’opacità dei riferimenti e dalle volute omissioni che nascondono le motivazioni reali da cui scaturiscono i versi. È questo il punto che lo allontana dai poeti ermetici: Montale dice di ritenersi nato nel solco di una «corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica», in quanto nata «dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione».
Al riguardo è decisiva, negli anni Trenta e Quaranta, la suggestione esercitata su di lui dall’allegorismo dantesco. Tanto nelle Occasioni quanto nella Bufera l’appello a una figura femminile in grado di annientare le miserie dell’esistenza emerge in primo piano. Montale compone un canzoniere in cui l’amore è chiamato a riscattare – oltre alla «totale disarmonia» dell’individuo rispetto alla realtà – le tragedie della Storia, rappresentate da guerre e dittature. Tale riscatto è però un’illusione, non sostenuta, come lo è in Dante, da una fede ultraterrena, ma minacciata dalla brutalità e dalla stupidità delle vicende umane e anche dallo scetticismo e dal pessimismo del poeta stesso.

 >> pag. 563 

Nelle ultime opere Montale esplicita la polemica contro i miti omologanti che plasmano l’immaginario collettivo: «Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso», dichiara nel 1975. In effetti, alle prime tre raccolte, che costituiscono ai suoi occhi il recto (cioè il diritto della medaglia), seguono nel 1971 Satura e di lì a poco un’ulteriore, cospicua produzione poetica: insieme compongono il verso, cioè il rovescio. L’autore lega il proprio senso di smarrimento ai meccanismi della società di massa, ai quali egli guarda perplesso quando non addirittura inorridito. Compaiono nei suoi testi, quali spunti compositivi, episodi minimi di cronaca pubblica e privata; la tensione lirica al sublime si spegne, sostituita da un tono colloquiale e prosastico, pervaso di ironia.
I versi di Montale si muovono ora tra i rifiuti della società dei consumi, ma nonostante tutto la poesia non perde senso, resta «ancora possibile», come il poeta sosterrà ricevendo il premio Nobel.

 T1 

Un bilancio letterario

Intenzioni (Intervista immaginaria)


Terminata da poco la Seconda guerra mondiale, Montale è vicino alla soglia dei cinquant’anni e fa il punto sulla propria opera poetica, che consiste in quel momento di due libri (Ossi di seppia e Le occasioni) e di una piccola raccolta, Finisterre, che sarebbe confluita nel volume La bufera e altro. Il poeta immagina dunque un’intervista a sé stesso in cui si giudica con lucidità e disincanto. Il testo viene pubblicato sulla “Rassegna d’Italia” nel gennaio 1946. Ne riportiamo i passi salienti.

Scrivendo il mio primo libro1 (un libro che si scrisse da sé)2 […] ubbidii a un bisogno
di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella
degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto
a una campana di vetro,3 eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale.
5 Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo.4 L’espressione assoluta
sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un’esplosione, la fine dell’inganno
del mondo come rappresentazione.5 Ma questo era un limite irraggiungibile.

 >> pag. 564 

E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica.
All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a
10 rischio di una controeloquenza.6 […]
Non pensai [nelle Occasioni] a una lirica pura nel senso ch’essa poi ebbe anche
da noi, a un giuoco di suggestioni sonore;7 ma piuttosto a un frutto che dovesse
contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli.8 Ammesso che
in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera–oggetto
15 bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.9 Un modo nuovo,
non parnassiano,10 di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento
delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui, fui mosso dall’istinto non da
una teoria (quella eliotiana del «correlativo obiettivo» non credo esistesse ancora,
nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato nel Criterion).11 In sostanza non mi
20 pare che il nuovo libro contraddicesse ai risultati del primo: ne eliminava alcune
impurità e tentava di abbattere quella barriera fra interno ed esterno che mi pareva
insussistente anche dal punto di vista gnoseologico.12 Tutto è interno e tutto è
esterno per l’uomo d’oggi; senza che il cosiddetto mondo sia necessariamente la
nostra rappresentazione. […]
25 Le Occasioni erano un’arancia, o meglio un limone13 a cui mancava uno spicchio:
non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello
del pedale,14 della musica profonda e della contemplazione. Ho completato il mio
lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo così
petrarchesca. 15 Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia16 (la chiami come
30 vuole) dei «Mottetti» sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e
senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria.17

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Nell’Intervista immaginaria Montale passa in rassegna le intenzioni (r. 17) che guidano la sua ricerca poetica e le accoglienze ricevute dalla sua produzione. Ne emerge la grande capacità del poeta di recepire i più significativi impulsi culturali dei tempi che si trova ad attraversare, rifiutando però di aderire a una corrente o a un movimento. Montale sta per conto proprio, e tiene a sottolineare il dinamismo della sua produzione poetica che non resta inchiodata alla maniera degli esordi – connotata dal desiderio fortemente agonistico di torcere il collo (r. 9) alla vecchia eloquenza di stampo accademico e dannunziano –, ma evolve senza tradire le iniziali premesse. «In questo senso», scrive in un altro passo dell’Intervista immaginaria, «è prodigioso l’insegnamento del Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai». Resta inteso, comunque, che più di un’affermazione andrà presa con le molle: Montale si compiaceva di depistare i critici, suggerendo interpretazioni dubbie e dissimulando influenze decisive. Per esempio, è difficile credergli fino in fondo quando insiste sull’importanza dell’istinto a discapito della teoria (rr. 17–18).

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 In che cosa consiste il desiderio giovanile di aderenza (r. 8) ricordato da Montale?


2 Che genere di poesia diversa dalla lirica pura (r. 11) intende fare Montale nelle Occasioni?


3 Quale differenza viene notata tra la prima e la seconda raccolta?


ANALIZZARE

4 Nel testo si colgono alcuni riferimenti a scrittori e filosofi precedenti e contemporanei al poeta. Individuali e illustra a quale scopo vengono introdotti.


INTERPRETARE

5 Nel brano sono presenti alcuni spunti di polemica letteraria. Prova a rintracciare i più evidenti e spiega il loro ruolo ai fini argomentativi.


Memoria e autobiografia

La riflessione sul vissuto personale percorre tutta l’opera poetica di Montale, dove il carico dei ricordi acquista, di raccolta in raccolta, un peso crescente. Negli Ossi di seppia il confronto diretto con una desolante condizione esistenziale, trasposta nel riarso paesaggio ligure, non impedisce alla memoria di riportare in superficie immagini di volti amati, come accade in Cigola la carrucola del pozzo (► T15, p. 610). Il ricordo, che deforma una realtà irrevocabile, è destinato a svanire rapidamente: già nel primo Montale è presente una visione del tempo come spietato agente distruttivo, destinata ad assumere in seguito un ruolo decisivo.
Nelle Occasioni il distacco temporale e spaziale dalla donna amata favorisce l’emergere di una ricca vena memoriale. Il poeta recupera i rari momenti di gioia, ormai lontani, e riconosce in essi le tracce di altre vite possibili, diverse, libere dalla stanca inerzia del presente. Le folate dei ricordi investono continuamente una quotidianità grigia, illuminandola con segnali e messaggi cifrati che soltanto il poeta riconosce: attimi in cui si profila la possibilità di un «varco», di un’evasione verso un altrove felice, prima che l’inesorabile fluire del tempo sommerga la speranza, lasciando il posto allo smarrimento e alla solitudine. Finisterre prosegue nella medesima direzione, proiettando questa oscillazione di stati d’animo sullo sfondo oscuro della guerra, rischiarato a tratti dalla comparsa della donna sotto forma di angelo visitatore.

Oltre al motivo amoroso, a suscitare i ricordi nei versi di Montale è l’esigenza di elaborare il lutto, processo che non cede mai alla tentazione del patetico. Gli affetti più intimi sopravvivono nella memoria di chi rimane e li conserva gelosamente. I defunti sono così sottratti all’oblio ma anche alla pace della morte: «larve rimorse dai ricordi umani» vengono definiti in una poesia di Ossi di seppia. Viceversa, in Notizie dall’Amiata, componimento che chiude Le occasioni, i fantasmi di chi è mancato assediano la mente, dando vita a uno dei più intensi esempi di climax della nostra poesia novecentesca: «Oh il gocciolìo che scende a rilento / dalle casipole buie, il tempo fatto acqua, / il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!».

 >> pag. 566 

Per Montale non c’è nulla di pacificante, e neppure di idillico o di nostalgico, nel recupero dei ricordi. Ciò vale anche per le ultime raccolte (da Satura in poi), nelle quali acquista uno spazio dominante la meditazione sul tempo, che continua a rappresentare un fattore ostile, associato allo scorrere dell’acqua: «I grandi fiumi sono l’immagine del tempo, / crudele e impersonale. Osservati da un ponte / dichiarano la loro nullità inesorabile» (L’Arno a Rovezzano).
A differenza di tanti poeti del Novecento, Montale non mitizza l’infanzia, trasformandola in una pura età dell’innocenza, ma la cristallizza in qualche flash improvviso, senza rinunciare all’ironia. È ciò che accade, per esempio, in Quel che resta (se resta), dove evoca la figura di una vecchia serva analfabeta, eludendo la commozione con uno scarto nel registro comico: «se entrasse ora nella mia stanza / avrebbe centotrent’anni e griderei di spavento ». Frequentissimi sono invece i richiami alla Mosca, la compagna di una vita, morta nel 1963: il poeta riannoda il filo del dialogo con la moglie scomparsa inanellando una serie di aneddoti domestici e quotidiani, nei quali la malinconia è spesso temperata dall’umorismo o comunque da un tono di dolce rievocazione.

 T2 

La casa dei doganieri

Le occasioni


In questo componimento, pubblicato per la prima volta nel 1930 sull’“Italia letteraria”, Montale si rivolge a una donna ormai lontana, identificabile con Arletta (Anna degli Uberti), musa della sua prima stagione poetica. A custodire il ricordo della casa dei doganieri il poeta è rimasto solo, in un presente fatto di dubbi, angosce, frustrazione. Nel componimento l’antitesi fra ieri e oggi appare insuperabile.


METRO 4 strofe alternate di 5 e 6 versi, per lo più endecasillabi. Irregolare e fitto il tessuto delle rime.

        Tu non ricordi la casa dei doganieri
        sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
        desolata t’attende dalla sera
        in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
5     e vi sostò irrequieto.

        Libeccio sferza da anni le vecchie mura
        e il suono del tuo riso non è più lieto:

 >> pag. 567 

        la bussola va impazzita all’avventura
        e il calcolo dei dadi più non torna.
10   Tu non ricordi; altro tempo frastorna
        la tua memoria; un filo s’addipana.

        Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
        la casa e in cima al tetto la banderuola
        affumicata gira senza pietà.
15   Ne tengo un capo; ma tu resti sola
        né qui respiri nell’oscurità.

        Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
        rara la luce della petroliera!
        Il varco è qui? (Ripullula il frangente
20   ancora sulla balza che scoscende…).
        Tu non ricordi la casa di questa
        mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

La casa dei doganieri dà il titolo a una breve raccolta poetica apparsa nel 1932, dunque a metà dell’intervallo tra gli Ossi di seppia (1925) e Le occasioni (1939), di cui è una delle poesie meno recenti. Si tratta in effetti di un componimento cruciale nel passaggio fra la prima e la seconda raccolta. I consueti scenari liguri rimangono, ma spostati sul piano di un recupero memoriale. Nel contempo il tu vocativo non rimanda più a un interlocutore generico o al poeta medesimo, ma a una donna assente, secondo una consolidata tradizione lirica.

Come in Leopardi, anche in Montale l’illusione amorosa si configura come mezzo per evadere da una realtà sentita come fonte di infelicità. Lo sforzo di tenere in vita un ricordo struggente (cui la poesia accenna soltanto) fa da argine allo spaesamento del poeta e ne attenua la solitudine. L’immagine della casa desolata, battuta dai venti, è la trasparente rappresentazione di uno stato d’animo. Come un tempo i doganieri, anche il poeta scruta il mare, dove lontana si accende a tratti la luce di una petroliera (vv. 17–18). Sta qui il varco (v. 19), la speranza di una fuga dal corso normale dell’esistenza? Oppure il riscatto risiede nel preservare gli affetti dall’erosione del tempo che tutto consuma? Il finale non scioglie il dubbio. Montale riprende il tema della ricerca di una smagliatura nel tessuto della quotidianità, presente già negli Ossi di seppia (la «maglia rotta nella rete» della lirica In limine), ma lo lega a doppio filo a una figura femminile. Di qui a poco, all’orizzonte comparirà il profilo angelico e duro di Clizia.

 >> pag. 568 

Le scelte stilistiche

La frase Tu non ricordi, ripetuta tre volte (nella prima, nella seconda e nella quarta strofa), fa da motivo portante della poesia e suggerisce un confronto con il più celebre appello in versi a una giovinetta scomparsa nel fiore degli anni: «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale». Leopardi, però, fa una domanda retorica: la risposta è negativa in quanto Silvia è morta; invece Montale, in qualche modo, fornisce già la risposta, a indicare la lucida certezza della perdita. L’appello si risolve nella constatazione di una solitudine irrimediabile. Lo smarrimento del poeta si riflette nei suoi correlativi oggettivi*: la bussola […] impazzita (v. 8), il calcolo dei dadi che più non torna (v. 9), la banderuola / affumicata (vv. 13–14) che sul tetto gira senza pietà (v. 14).

Il dubbio esistenziale si traduce nell’antitesi* fra dinamismo e immobilità che percorre la poesia senza che uno dei due termini prevalga decisamente sull’altro. Dunque troviamo da una parte verbi come attende (v. 3), sostò (v. 5), resti (v. 15), che indicano la ferma resistenza del poeta, dall’altra verbi quali entrò (v. 4), sferza (v. 6), va (v. 8), s’allontana (v. 12), gira (v. 14), Ripullula (v. 19), che esprimono i violenti attacchi del tempo o, come gli ultimi due, il suo ritorno sempre uguale.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Dove si trova la casa dei doganieri?


2 In che senso, nella terza strofa, si dice che la casa s’allontana (v. 12)?


ANALIZZARE

3 Individua le rime e le principali figure foniche (allitterazioni, assonanze, rime imperfette) presenti nel componimento.


4 Rintraccia nel testo le espressioni che contengono una negazione e, dopo averle elencate, prova a metterle in relazione con il significato della poesia.


INTERPRETARE

5 Il varco è qui? (v. 19). Prova a fornire una spiegazione del significato di questa domanda.


PRODURRE

6 Seguendo la traccia della poesia, immagina un dialogo tra Arletta ed Eugenio, scrivendo 5 battute per ciascuno.


Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi