Nessuno mostra più di Saba che la melodia è una forma di sincerità. E di lui non importa conoscere che la poesia, il resto guasta; «poesia pura» è la sua, il poeta che scrive per sé è lui. Soggetti e fatti sono minimi ma costituiscono un mondo, anche se limitato a Trieste, una donna e poche altre cose. I grandi eventi, la guerra e i drammi della maturità, si riducono alle proporzioni modeste, ma serie e vere, del privato.
Visse da vero artista, solo e senza soggezioni, senza politica letteraria, con ambizioni grandi e innocenti e delusioni rassegnate, perché bene o male la sua ricchezza nessuno gliela poteva togliere. «A viver senza il molto ambito alloro / fui forse il solo poeta italiano », scrive nell’Autobiografia (1924); «Mio padre è stato per me “l’assassino”; / “Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”»: il soggetto è la madre, tradita e infine abbandonata da questo padre che Saba, nonostante tutto, capiva: il tono è veramente parlato; in tutti e tre i versi c’è l’accento sulla settima che snerva l’endecasillabo; grande perizia, cioè naturalezza. La madre era il suo doloroso amore e divenne il simbolo della sua pietà; per lei si «fece» ebreo, come lei, assumendo lo pseudonimo di Saba («pane» in ebraico, il suo cognome era Poli). Lina invece fu l’amore. L’amò con una tenerezza veneto-orientale unica nella poesia italiana; ma la disegna come una figura vivida e quasi danzante. I sentimenti quotidiani abbondano, ma non si può parlare di autobiografismo. Perché? Perché non
immagina mai i sentimenti, li vive, li comunica, come un lirico greco.
Scrisse di getto (tutte le liriche furono scritte di getto, com’è o sarebbe naturale) la sua lirica più bella, A mia moglie, in cui lei è pollastra, giovenca, cagna, rondine, formica, non simboli di lei ma forme diverse della tenerezza propria, forte e indecifrabile come quella che possono ispirare i misteriosi animali; ognuno ha il suo insostituibile epiteto, e il più bello è quello della cagna: «Tu sei come una lunga / cagna»: tutta prona. È il sommesso inno non della solita «incomunicabilità» degli aridi, ma del mistero e del silenzio e forse dell’equivoco dei sentimenti umani.
Scrisse normalmente nei metri «tradizionali» (come dire che chi suona il violino suona una musica «tradizionale») con una naturalezza che non esclude né il verso libero né alcuna deviazione da una via che non c’è. È maestro insuperabile dell’enjambement, e il suo è semplice e necessario come il più antico del mondo, quello del secondo verso dell’Iliade. È stato detto giustamente che la sua parola non ha storia, è tutta presente, dialetto in lingua. Nel tempo delle poetiche e degli -ismi, non ebbe né poetiche né modelli. Solo un sentore dannunziano ne I prigioni (1924), sonetti ben torniti che raffigurano dall’interno archetipi umani, spesso con grande penetrazione.
Non commette errori, solo si sente più volte il leggero sforzo dell’artigiano che deve risolvere.
Enzo Mandruzzato, Il piacere della letteratura italiana, Mondadori, Milano 1996