Il primo Novecento – L'autore: Umberto Saba

LETTURE critiche

Significato del realismo di Saba

di Franco Fortini

In un contributo scritto a vent’anni dalla morte di Saba, il poeta e critico Franco Fortini (1917–1994) individua nella poesia dell’autore triestino un’inquietudine e un senso di mancata pacificazione che non gli hanno impedito però una piena adesione alla vita e alla realtà. Il particolare realismo di Saba va inteso proprio come una scissione dolorosa fra queste due attitudini. Si tratta di una costante che attraversa la sua intera produzione, la quale appare, molto più di quelle di altri poeti a lui contemporanei, unitaria e coerente, pur nelle diverse fasi della sua evoluzione.

Si capisce che il «realismo» di Saba abbia potuto indurre non pochi lettori nell’illusione di una «salute» da opporre ai morbi del novecentismo e dell’ermetismo. Crediamo invece che un senso di questa poesia sia, al contrario, quello di rivelare (e compiangere) una radicale infermità. Non è il «male di vivere» di Montale, né la «morte» di Ungaretti, dimensioni tragiche della coscienza; bensì una scissione dolorosa del soggetto, una condizione cronica e diffusa che può essere blandita dalla parola non però risolta né elusa. Nelle poesie di Saba la realtà urbana e civica non è soltanto una rete di evocazioni: è una difesa. Come per nessun altro poeta del nostro tempo, la tribù umana esiste per lui e occupa tutto intero l’orizzonte. Il «mistero» è reale, ma non è costitutivo dell’intera realtà – come per Pascoli e Gozzano – bensì solo dell’uomo: è il mistero familiare, il nesso edipico. Ne viene che alla nostalgia provata dal poeta per una società più stabile e più protetta («nel divino per me milleottocento») faccia eco nel lettore della seconda metà del XX secolo un’altra nostalgia, quella per il modo sabiano di intendere l’esistenza. Tale eco è frequente nei critici che dichiarano Saba massimo protagonista poetico del Novecento: pur nella sua «infermità» umanissima egli viene inteso, come si è detto, quale poeta di un mondo riconoscibile, un mondo di «tutti i giorni». Si veda, come esempio, l’interpretazione, tutt’altro che tragica, che egli dà della guerra: è una «burrasca ignobile», un’orribile condizione temporanea, contrapposta alla pace come norma. Non diversamente da molti italiani della sua generazione (e anche dei perseguitati ebrei), Saba è incapace di interpretare la seconda guerra mondiale e il genocidio hitleriano in una luce di catastrofe assoluta. Si sono lette strazianti pagine di diario di ebrei triestini che nel fondo di un campo di sterminio continuavano a impiegare le categorie mentali della piccola borghesia colta dalla quale provenivano.
Ebbene, l’accento più prezioso della maggiore poesia sabiana consiste proprio nella capacità di rappresentare quell’universo di oggetti, persone e sentimenti in una luce che non è già quella crepuscolare, ossia di una transizione truccata da permanenza (e Saba infatti non amava né Gozzano né i crepuscolari), ma pomeridiana, ancora tutta attiva seppure già pronta alla propria dissoluzione. […]
Abbiamo detto della valutazione conservatrice che è stata data di questo poeta; si aggiunga, non contrapposto ma adiacente a quella, il particolare favore goduto da Saba presso larga parte degli intellettuali della sinistra italiana negli anni Cinquanta: egli è parso incarnare un recupero-conservazione di valori che sembrava, allora, possibile ancora nell’ordine del «realismo». E si veda invece il modo ottenuto dalla sua lezione per fruttificare nella poesia successiva: gli elementi della cordialità e della «umanità» sabiana ora tornano nella poesia di Vittorio Sereni1 e in quella di altri, più giovani poeti, ma ormai come trasformati in frammenti angosciosi, circondati da tenebre ben più terribili di quelle di Maeterlinck2 e di Pascoli perché rivelatesi tenebre storiche; oppure porgono, come in Sandro Penna,3 la loro affabilità apparente e cantabilità all’evocazione di una capitale fuori del tempo e alle frontiere della colpa. C’è poi un Saba più grande e austero che non ha lasciato, per ora, eredi. […]

 >> pag. 545 

Saba non va letto solo nei suoi momenti […] altissimi; ma in tutta la sua opera di poeta. L’impossibilità di separare le composizioni più riuscite da quelle meno riuscite, a differenza di quanto avviene con altri poeti del nostro secolo, è una prova della complessa coerenza del mondo sabiano. Un modo unitario di vedere il mondo ci ricompone continuamente quel che continuamente si presenta «in due scisso». Attraverso il Canzoniere appare chiaro un intento che oltrepassa la forma ottocentesca della raccolta di liriche verso la narrazione complessiva di un destino, di un ambiente, di una città. Ma, nello stesso tempo, l’autore non manca di farci sentire continuamente, mediante il ricorso a suoi propri luoghi comuni, che tutto quello di cui ci sta parlando è ordinato attraverso la responsabilità e la dignità poetica. In questo senso il Canzoniere è un’opera di poesia eccezionale e solitaria, una sorta di supremo omaggio all’interpretazione lirica della vita quotidiana; e, nello stesso tempo, la sua compattezza e solidità formale risultano determinate e delimitate da quella che dobbiamo chiamare la cultura sabiana, il suo orizzonte storico. L’amichevole concretezza e icasticità di quel mondo non sarebbe concepibile senza un quadro di riferimenti e di idee generali sull’uomo e la società, sull’amore e la morte, sulla città e la solitudine che, sebbene più di quello di molti suoi contemporanei disposto ad apporti non tradizionali, ci appare, nella sostanza, privo di latitudine e persino di dubbi fecondi. Ecco finalmente perché le più ambiziose composizioni sabiane (come le Fughe), dove si persegue un disegno di significati più ampi, perdono in evidenza quel che vogliono guadagnare in sottigliezze melodiche e psicologiche. Saba va assunto intero, con il suo profilo talvolta sgradevole, con la sua parte oscura, debole, nevrotica e perfino malsana. Solo l’ampiezza del suo testo complessivo consente infatti al lettore di afferrare la cadenza fondamentale della sua poesia, anche quando dovesse farsi meno perspicua,4 col passare dei decenni, la rete dei rapporti linguistici che il «falsetto» di Saba aveva reso possibile. […]
Saba continua, a vent’anni dalla sua morte, a confermare la tenacia della resistenza che le forze poetiche italiane del nostro tempo hanno opposto all’accettazione delle ideologie avanguardistiche, per mandato tacito di una parte grande delle energie sociali impegnate nella lotta di classe. Quelle voci poetiche e inattuali, che si danno il cambio fino ai nostri giorni, sono, fra l’altro, il segno della differenza fra la nostra vicenda nazionale e quella di altri paesi dell’Occidente, uno dei pegni che certificano non necessario il passaggio attraverso le forme e le fasi storiche vissute da quei paesi, e possibile invece il loro superamento verso altra storia.


Franco Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977

 >> pag. 546 

Poesia e autobiografia in Saba

di Enzo Mandruzzato

Lo studioso e critico Enzo Mandruzzato (1924–2012) mette in relazione i contenuti della poesia di Saba con il suo vissuto e con le figure che hanno segnato la sua esistenza (la madre, il padre, la moglie), evidenziando la particolarissima originalità del suo stile rispetto alle poetiche dominanti in quegli anni.

Nessuno mostra più di Saba che la melodia è una forma di sincerità. E di lui non importa conoscere che la poesia, il resto guasta; «poesia pura» è la sua, il poeta che scrive per sé è lui. Soggetti e fatti sono minimi ma costituiscono un mondo, anche se limitato a Trieste, una donna e poche altre cose. I grandi eventi, la guerra e i drammi della maturità, si riducono alle proporzioni modeste, ma serie e vere, del privato.
Visse da vero artista, solo e senza soggezioni, senza politica letteraria, con ambizioni grandi e innocenti e delusioni rassegnate, perché bene o male la sua ricchezza nessuno gliela poteva togliere. «A viver senza il molto ambito alloro / fui forse il solo poeta italiano », scrive nell’Autobiografia (1924); «Mio padre è stato per me “l’assassino”; / “Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”»: il soggetto è la madre, tradita e infine abbandonata da questo padre che Saba, nonostante tutto, capiva: il tono è veramente parlato; in tutti e tre i versi c’è l’accento sulla settima che snerva l’endecasillabo; grande perizia, cioè naturalezza. La madre era il suo doloroso amore e divenne il simbolo della sua pietà; per lei si «fece» ebreo, come lei, assumendo lo pseudonimo di Saba («pane» in ebraico, il suo cognome era Poli). Lina invece fu l’amore. L’amò con una tenerezza veneto-orientale unica nella poesia italiana; ma la disegna come una figura vivida e quasi danzante. I sentimenti quotidiani abbondano, ma non si può parlare di autobiografismo. Perché? Perché non immagina mai i sentimenti, li vive, li comunica, come un lirico greco.
Scrisse di getto (tutte le liriche furono scritte di getto, com’è o sarebbe naturale) la sua lirica più bella, A mia moglie, in cui lei è pollastra, giovenca, cagna, rondine, formica, non simboli di lei ma forme diverse della tenerezza propria, forte e indecifrabile come quella che possono ispirare i misteriosi animali; ognuno ha il suo insostituibile epiteto, e il più bello è quello della cagna: «Tu sei come una lunga / cagna»: tutta prona. È il sommesso inno non della solita «incomunicabilità» degli aridi, ma del mistero e del silenzio e forse dell’equivoco dei sentimenti umani.
Scrisse normalmente nei metri «tradizionali» (come dire che chi suona il violino suona una musica «tradizionale») con una naturalezza che non esclude né il verso libero né alcuna deviazione da una via che non c’è. È maestro insuperabile dell’enjambement, e il suo è semplice e necessario come il più antico del mondo, quello del secondo verso dell’Iliade. È stato detto giustamente che la sua parola non ha storia, è tutta presente, dialetto in lingua. Nel tempo delle poetiche e degli -ismi, non ebbe né poetiche né modelli. Solo un sentore dannunziano ne I prigioni (1924), sonetti ben torniti che raffigurano dall’interno archetipi umani, spesso con grande penetrazione.
Non commette errori, solo si sente più volte il leggero sforzo dell’artigiano che deve risolvere.


Enzo Mandruzzato, Il piacere della letteratura italiana, Mondadori, Milano 1996

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi