della pronuncia proprio a partire dall’angoscia di un io franto («Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni», scrive non senza residui di posa oratoria in Italia, datata Locvizza l’1 ottobre 1916, tra le pochissime poesie di Porto Sepolto – saranno 9 complessivamente – a non subire ritocchi correttori nell’edizione definitiva).
Rileggendosi nel ’33, l’«uomo di pena» accentua ancora, tra residui di superomismo «schiantato» e metafore barocche, la tensione di quella parola, che parla di crisi tenendosi aderente non alle ragioni dell’afonia e del disincanto, ma all’autenticità mallarmeana7 che assolutizzava la parola isolandola dal rapporto con la realtà.
Né l’afonia né la desublimazione si ritrovano nell’eccitazione di un dire reso sovraccarico di responsabilità dall’uomo–poeta che, stendendo col Porto Sepolto il proprio diario di guerra, non cessa di credere alla poetica della parola (pur scavata nell’abisso, colta nell’esasperazione del grido). Al punto che essere poeti, nei decenni a venire e sino quasi ai nostri anni, vorrà dire, nell’immaginario nazional popolare, assumere un’ispirata posa, optando per l’inusuale, la pronuncia forte, ispirata, che finisce per concludersi in sé, autosufficiente e salvifica.
Eppure il Novecento non potrà sottrarsi al confronto col Porto Sepolto né con la prima
Allegria, che segnano una esplicita rottura con una continuità lirica sino a quel punto discussa, ribaltata, ma mai infranta in modi così dirompenti.
Non è nuova la volontà, ribadita negli interventi critici di Ungaretti, di stendere una biografia in versi, secondo una linea che ha addirittura nel Petrarca l’autorevole iniziatore («Il carattere, il primo carattere di tutta la mia attività è autobiografico», si legge in Ungaretti
commenta Ungaretti, subito prima dell’affermazione: «La mia poesia è nata in realtà in trincea. […] La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio»).
È però nuova l’intensità con cui il vissuto si trasforma in esperienza di scrittura. Qui sta il punto: Ungaretti vuole accreditare il bisogno di «dire in fretta perché il tempo poteva mancare», dirlo con «poche parole», che avessero «un’intensità straordinaria di significato». Ed è nuova, allora, non la «vita in versi», che era già dei crepuscolari e vociani, ma questo sfidare matericamente il silenzio, questo costringere l’attimo a prendere corpo, sostituendo alla vibrazione della materia tanto praticata dai futuristi una nudità che ne mettesse ancor più in evidenza l’aspetto fenomenico, il battito del respiro, in una «necessità di farsi intimo agli elementi» che non escludeva uno «stupore contemplativo».
Un espressionismo radicale, dunque, che veicola però insieme un valore orfico: il transeunte non si esaurisce in sé, ma contiene un’ansia di assoluto che lo carica dei motivi della perdita da risarcire, dell’assenza da colmare. Di «tensione vitale sorpresa di se stessa, sbalordita di poter assistere» parlava non a caso Fortini:8 e aggiungeva che di fronte alla violenza del verso (quella ottenuta tecnicamente con pause di silenzio che valgono come «veri e propri atti di intimidazione» nei confronti del lettore, imponendosi all’ascolto con un’evidenza teatrale) sta il riconoscersi del poeta–soldato «una docile fibra / dell’universo» (I fiumi).
Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, il Mulino, Bologna 2005