Il primo Novecento – L'autore: Luigi Pirandello

LETTURE critiche

Il dualismo di Vita e Forma

di Adriano Tilgher

In questo brano del 1923 Adriano Tilgher (1887-1941) analizza il conflitto tra «vita» e «forma» nell’opera di Pirandello, mettendo in luce il tema dell’impossibilità di una liberazione totale e completa dalle «costrizioni sociali». Fin dagli anni Venti, l’analisi di Tilgher ha esercitato un’influenza diretta sul lavoro stesso di Pirandello.

Che cosa, secondo Pirandello, distingue l’uomo dagli altri esseri della natura? Questo, e questo soltanto: che l’uomo vive e si sente vivere, gli altri esseri della natura, invece, vivono soltanto, vivono puramente e semplicemente. L’albero, ad esempio, vive tutto profondato nel suo senso vitale; la sua esistenza fa tutt’uno col lento ed oscuro succedersi in esso delle affezioni vitali; il sole la luna il vento la terra sono intorno ad esso, ma esso nulla ne vede, nulla ne sa: li avverte, sì, ma solo in quanto si traducono in stati del suo essere, dai quali non si distingue. Nulla sapendo di altro, l’albero nulla sa di sé come distinto da altro. La vita fluisce in esso inconscia e muta, tutta d’un getto.1
Ma nell’uomo, anche più incolto e rozzo, la vita si scinde in due: all’uomo anche più incolto e rozzo è essenziale di essere e di sapere di essere, di vivere e di sapere di vivere. Nell’uomo dalla vita si è distaccato e le si è contrapposto il sentimento della vita, dice Pirandello, la coscienza, la riflessione, il pensiero, direi io, in termini filosoficamente più esatti. In questo distacco, con l’illusione che ne deriva di assumere come realtà obbiettivamente esistente fuori dell’uomo questo interno sentimento della vita mutabile e vario, è la causa prima dell’infelicità umana. Prima, non ultima, ché una volta staccatosi dalla vita, il sentimento della vita, o coscienza che dir si voglia, tende, passando attraverso il filtro del cervello, a raffreddarsi, chiarificarsi, idealizzarsi e da sentimento particolare contingente mutabile effimero a cristallizzarsi in idea astratta generale (cfr. L’umorismo, 2a ed., pagine 168 sgg.).
Elevatosi per via dell’astrazione logica a seconda potenza di sé, divenuto pensiero riflesso, il sentimento della vita tende a chiuder la vita in limiti fissi e precisi, a farla scorrere tra argini prestabiliti, a colarla in forme rigide immobili date una volta per tutte: i concetti e gl’ideali del nostro spirito, le convenzioni, costumi, tradizioni, abitudini, leggi della società. Si determina così un dualismo fondamentale: da una parte, il flusso della Vita cieca muta oscura eternamente instabile e irrequieta, eternamente rinnovantesi di momento in momento; dall’altra, un mondo di Forme cristallizzate, un sistema di costruzioni, che tentano di arginare e di comprimere in sé quel flusso in eterno gorgogliante. «Ogni cosa, ogni oggetto, ogni vita porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti, finché non crollano in cenere» (cfr. la novella Candelora). «Ogni forma è la morte. Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte» (cfr. la novella La trappola). […]
Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione; necessità per la Vita di calarsi in una Forma ed impossibilità di esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che sottostà a tutta l’opera di Pirandello e le conferisce una ferrea unità e organicità di visione.
Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima attualità sia l’opera di questo nostro scrittore. Tutta la filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa intuizione profonda del dualismo tra la Vita, che è spontaneità assoluta, attività creatrice, slancio perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del diverso, e le Forme o costruzioni o schemi che tendono a rinserrarla in sé, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi contro, infrange dissolve fluidifica per passare più lontano, creatrice infaticata2 e perenne. Tutta la storia della filosofia moderna non è che la storia dell’approfondirsi del conquistarsi del chiarificarsi a sé medesima di questa intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di questa intuizione viva – è il caso di Pirandello – la realtà appare nella sua stessa radice profondamente drammatica, e l’essenza del dramma è nella lotta fra la primigenia nudità della Vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e debbono necessariamente pretendere, di rivestirla. La vita nuda, Maschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente significativi.
Godere della Vita nella sua nudità e libertà infinita, al di fuori di tutte le forme e costruzioni in cui la società, la storia e gli eventi di ciascuna particolare esistenza ne hanno incanalato il corso, non si può. Lo tentò Mattia Pascal, che, facendosi passar per morto e cambiando nome e connotati, credette di poter cominciare una vita nuova, tutta ebrezza di libertà sconfinata. Egli imparò a sue spese che, tagliandosi fuori da tutte le forme e costruzioni sociali, non gli era più concesso se non di assistere da spettatore e forestiero alla vita degli altri, senza più possibilità di mescolarsi ad essa e di goderne nella sua pienezza. Straniatosi dalle forme della Vita, questa non gli si concesse più che superficialmente, dal di fuori. E quando, cedendo al suo richiamo, egli s’illuse di poter ridiscendere nel fiume della Vita e farsi riavvolgere tutto dalle sue onde, quel fiume lo respinse da sé, ed egli, ancora a sue spese, imparò che non è possibile far da vivo e da morto insieme, onde, disperato, si decise a risuscitare. Troppo tardi per risedersi al banchetto dell’esistenza, in tempo solo per vedervi sedere gli altri (cfr. il romanzo Il fu Mattia Pascal). Straniarsi dalle forme della Vita è possibile, sì, certo, ma solo a patto di rinunciare a vivere.


Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1923

 >> pag. 285 

La biblioteca e il cimitero nel Fu Mattia Pascal

di Giancarlo Mazzacurati

Giancarlo Mazzacurati (1936-1995) svolge in questo saggio del 1993 un articolato confronto tra i due scenari-simbolo che aprono e chiudono la vicenda del Fu Mattia Pascal: la biblioteca e il cimitero. Attraverso una riflessione ad ampio spettro sul rapporto di Pirandello con la cultura d’inizio Novecento, il critico delinea il quadro di una zona narrativa ai «confini col nulla», «paradossale», «debole e flessibile».

La terza vita di Mattia Pascal, che è poi la prima in cui il lettore si imbatte, nella doppia «premessa», ha due sfondi dominanti: all’inizio la biblioteca; alla fine del romanzo, quando la spirale si richiude, il cimitero. Questi luoghi di confine col nulla (o con quell’«oltre» che spesso balena dietro alcuni altri simboli) sono già esemplari di un paradosso che per ora è costitutivo della vicenda del personaggio e dei suoi estremi umori, ma un giorno sarà incarnato dall’autore stesso, specie nei momenti più alti della sua futura carriera teatrale. Si tratta di quella particolare sfida alle rovine del vecchio mondo tolemaico, che qui si manifesta nell’ironico progetto di depositare un’autobiografia proprio nella biblioteca (già tempio austero della memoria) che ora è un deposito donde è stato esiliato ogni culto, compreso quello della memoria; e più tardi si manifesterà, tra i «colloqui coi personaggi» e i Sei personaggi in cerca d’autore, nel rifiuto apparente di mediare tra la vita e la sua rappresentazione, per poi occupare in realtà lo spazio morto della scena teatrale con frammenti tumultuosi di vita, che si sostituiscono all’ordine ormai impraticabile dell’arte.
La chiesa-biblioteca, sottratta a ogni rito,1 e il teatro svuotato d’ogni magia mimetica e d’ogni risposta risarcitiva all’enigma delle vicende individuali, sono gli emblemi diversi di un sogno protagonistico esausto, di una centralità perduta e irrecuperabile dell’eroe, romanzesco e poi scenico. Forse anche per questo il terzo romanzo (dopo l’Esclusa e Il Turno) trasporta le sue vicende lontano dai vecchi fondali del naturalismo regionale siciliano: là, per quanti strappi si potessero già fare ai «cieli di carta» (M.P., cap. XII), le coordinate terrestri dei luoghi e dei loro linguaggi troppo determinati rischiavano di produrre ancora storie di significato concluso, casi riconoscibili attraverso l’equivoco resistente del milieu;2 e dunque, ancora una sorta di centralità, sia pure disperata o comica, per protagonisti avvinti da tanti filamenti alla morale circoscritta di un clima sociale, alla fisica socialmente colorita di un ambiente. La Liguria sbiadita del primo Mattia Pascal e le metropoli opache della sua seconda vita come Adriano Meis garantiscono invece al nuovo eroe quella sottrazione al tipico e quell’annegamento simbolico nell’indistinto che dovevano segnare il suo definitivo congedo dai «documenti umani»,3 il suo ingresso in un altro ordine, più tipicamente novecentesco, della rappresentazione: quello delle vite senza radici e «senza qualità»,4 per le quali il tempo storico che racchiude e identifica, si tratti del «secondo impero» zoliano,5 dell’apogeo e della caduta musiliana6 degli Asburgo o dell’età giolittiana da noi, diviene prima o poi un falso ancoraggio, un insostenibile limite.
Mattia Pascal è certo il primo protagonista di romanzo in Italia (e forse tra i primi, in Europa) ad addentrarsi in questo novero di vite, all’apparenza volubili per gioco, per estri balzani o umori mercuriali, in realtà costituzionalmente volatili e predisposte a migrare da uno stadio all’altro della società e della stessa biologia. Alla fine dell’irregolare ciclo di Pirandello romanziere si accamperà infatti Vitangelo Moscarda, con quel suo ultimo miraggio di evaporare e dissolversi senza più alcuna memoria del mondo, come una goccia d’acqua in perenne metamorfosi, tra le nubi e le vene segrete della terra: sarà la forma, tipica del nuovo «naturalismo» pirandelliano (cioè, della sua ansia di ritorno al «caos»), di una tensione all’apocalisse che percorse anche altri versanti del romanzo italiano, fino a La coscienza di Zeno. Ma quel disegno che là si farà esplicito, nel Fu Mattia Pascal è già inscritto, come l’eternità è inscritta nei movimenti di una vita infinita: si tratta solo di continuare a girarla oltre il segno stabilito per la fine della sua corsa convenzionale, perché la filettatura, in sé, non contiene percorsi conclusi né segnali definitivi di arresto. Per avviarsi verso un simile esito, occorrerà tuttavia veder consumato ogni filo di contiguità e di identificazione, per quanto critica, col passato; occorrerà non più soltanto obliterare ma perdere ogni memoria; e insieme far definitivamente deviare verso le cosmologie dell’«altrove» quella ricerca di felicità (e di identità) che per il primo Mattia Pascal e per Adriano Meis era ancora contenibile entro un’utopia terrena: analoga, in quanto tale, all’«ansiosa speranza del futuro» e di una guarigione possibile abbandonata solo in vecchiaia da Zeno.
Agli antipodi degli eroi dannunziani della vita sublime (e ormai remoti anche da quelli verghiani dei grandi cicli materiali), si annunciano, col Mattia Pascal, gli eroi della vita interstiziale,7 sopravvissuti a una catastrofe dell’ideologia ottocentesca di cui solo durante la Grande Guerra si ascolterà per intero lo schianto. Essi chiedono già di vivere non sopra, né dentro, ma sotto la storia; e mentre gli Andrea Sperelli o i Giorgio Aurispa reclamavano un’identità più forte del tempo che stavano attraversando e altri (come quelli fogazzariani) un progetto legato al tempo, un’etica correttiva delle sue delusioni, questi cercheranno invece identità più deboli e più flessibili, in cune intemporali o nelle pieghe segrete della società ormai massificata. Contro lo scacco dei grandi miti (da quello del Risorgimento a quello del Progresso), con tutti i loro apparati di propulsione, i loro corteggi8 teorici e istituzionali, divenuti insieme ricattatori e ossidati; contro le «forme» che incombono dal passato, con la loro retorica opprimente, ormai rapprese come stalattiti da cui non gocciano più linfe vitali, l’«anima» dei primi e già tipici personaggi pirandelliani aspira a una sorta di nuova innocenza, immune dal tempo (e, in particolare, dall’ingannevole tempo dell’infanzia e della memoria), a un isolamento silenzioso nel cerchio del loro essere qui e ora, senza più compiti e senza più mandati; cioè, senza più maschere e senza più destini in cui sublimare la sconfitta.
Per questo, tra i due simboli che appaiono paralleli (ma che in realtà reciprocamente si contengono), quello della biblioteca e quello del cimitero, sceglieremmo ancora il primo, come simbolo-chiave per un «introibo»9 al Fu Mattia Pascal; perché è quello di più complessa risonanza; ed anche perché la morte che racchiude è quella di tutta la cultura occidentale, la stessa morte che ha reso impossibile il romanzo e la tragedia, infinitesimale la storia. Tuttavia, se è vero che in entrambi i luoghi si celebrano funzioni che sono finzioni, cerimonie votive per corpi scambiati e per religioni defunte, è anche vero che l’«anima» di Mattia Pascal, racchiusa nel suo romanzo autobiografico, non potrà rinunciare a consegnarsi, per un gioco portato all’iperbole o per estrema scommessa, alla forma-simulacro della biblioteca, alla sua monumentale inutilità; così come il suo corpo presunto era stato consegnato alla memoria assente del cimitero e alla sua esorcistica recitazione del lutto.10 In analogo modo, cioè in un analogo recinto di falsificazioni, la vita autentica dei Sei personaggi dovrà tentare di irrompere e di affidarsi alla mediazione sorda del vecchio teatro d’autore, prima di arrendersi alla dissipazione di ogni possibile ordine, da quello della memoria individuale a quello delle memorie collettive, alla sconfitta della verità contro le maschere irrigidite dell’arte e i custodi ufficiali d’ogni mimesi. Proprio per questa capacità di farsi anello primo di una catena di sfide simboliche strettamente tessuta di materiali omogenei, quasi sintomo di un vitalismo ironico e disperato che ne attraversa tutto l’arco, fino a I giganti della montagna, la biblioteca di Monsignor Boccamazza figura tra gli ingressi principali alla storia di Pirandello o meglio alla storia dei suoi libri. Qui, inoltre, non solo si placa il tumulto dell’«anima» rassegnata ormai alla paralisi sociale e ai suoi illusori scenari, ma si costruisce per immagini il primo dei molti saggi sull’arte (e non solo sulla propria arte, ovviamente) che Pirandello disseminò, più o meno avvertibili come tali, in tutta la sua narrativa.


Giancarlo Mazzacurati, Prefazione a Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino 1993

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi