Tra realtà e finzione: la dimensione scenica

Il primo Novecento – L'autore: Luigi Pirandello

Nel suo celebre saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) fornirà la spiegazione più completa di questo processo, citando proprio i Quaderni di Serafino Gubbio operatore nel suo discorso sulla demitizzazione della creazione estetica nella società di massa. L’opera d’arte, scrive Benjamin, ha perso la sua «aura», quell’aspetto indefinibile – e proprio per questo non riproducibile – che infonde un’anima viva a un semplice oggetto materiale. Ecco, la crisi dell’opera d’arte è vista da Pirandello proprio nell’occhio di vetro – vuoto e inanimato – dell’apparecchio cinematografico, in cui l’attore non può riflettersi e dunque riconoscersi. Privati del contatto con il pubblico, ma nemmeno compensati con una restituzione diretta della propria immagine (che avviene solo in un secondo momento, sullo schermo), gli attori non possono che finire per odiare la macchina da presa e il suo prodotto, perché «l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più». Questa riduzione della persona a oggetto, a immagine priva di vita, è il simbolo dell’alienazione dell’individuo moderno. L’impudenza dell’occhio di vetro diviene metafora della disumanità celata dietro il fascino della tecnica.

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Una mano che gira una manovella

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno primo


Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo. Si tratta di una sorta di presentazione dell’ambiente del cinema e del mestiere dell’operatore (il primo titolo del romanzo era Si gira…), in cui sono evidenziati i temi fondamentali dell’opera, sviluppati poi più ampiamente nel corso della narrazione.

I

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli
altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano
ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano
5 e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci.
Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi
intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano.1 Taluni anzi si smarriscono in una
perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero
o m’aggredirebbero.
10 No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo
neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle
consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non
sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come
me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.
15 Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente
e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo

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e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo
là. «No, caro, grazie: non posso!». «Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…».
«Alle undici, la colazione». «Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…». «Bel tempo,
20 peccato! Ma gli affari…». «Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di corsa, a
chi se n’è andato». «La bottega, la fabbrica, il tribunale…».
Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che
vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga,
ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe
25 trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato
da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile
raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra
facciamo un gesto da ubriachi.
«Svaghiamoci!».
30 Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché
dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano
in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi,
i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di
35 quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per
ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo
della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non
abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a
sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato.
40 Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono
frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tumulto
della vita, traboccano giù,2 fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo
presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io – modestamente – sono
45 uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui
vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno
50 o due apparatori,3 secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma
con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori
debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla
55 macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore4 vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione
da svolgere.
Io domando al direttore:
«Quanti metri?».

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60 Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il
numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:
«Attenti, si gira!».
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori,
65 press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma
non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è
compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:
«Diciotto metri», oppure: «trentacinque».
E tutto è qui.
70 Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
«Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?».
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi;
occhi cilestri,5 arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un
sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella
75 domanda voleva dirmi:
«Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella.
Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso,
sostituito da un qualche meccanismo?».
Sorrisi e risposi:
80 «Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno
che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti
alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio
più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa:
trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si
85 svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso
modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito
però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta –
anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa
poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore,
90 resta ancora da vedere».


II

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale
impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me
a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
95 L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i
sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre,6
s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato
servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
100 Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date,
date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di
deliziose stupidità ne sapranno cavare.

 >> pag. 240 

Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da
voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
105 È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi
per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti
invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra
anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita,
110 in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini,
tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro,
una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci
credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola
giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete
115 quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i
piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette
della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché
possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve
120 alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla
macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà
fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano
a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione
125 meccanica.
Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della
corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti
perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento
della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno
130 sbarbàglio7 incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza
sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici?
lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito
135 incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile?
quello dell’apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse!
Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale
tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che
140 c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente,
un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo8 vertiginoso, che investe e
145 travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio
d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non
cesserà.

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      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il gesto di annotare su alcuni quaderni le sue considerazioni sulla realtà rappresenta, per l’operatore cinematografico Serafino Gubbio, il tentativo di sfuggire all’alienazione di un lavoro puramente meccanico. L’incipit del romanzo (Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, r. 1) rivela subito una caratteristica fondamentale dell’opera: la presenza di un narratore dotato di una vocazione filosofica. Non ci si deve pertanto aspettare un racconto coerente e compiuto, ma un saggio-studio in cui le vicende narrate sono condizionate dalla voce narrante. Questo personaggio, che appare persino privo di una precisa fisionomia, diviene quasi puro pensiero, proprio in conseguenza del fatto che la sua fisicità è stata ridotta ad appendice pseudovivente di una macchina da presa, a “protesi” umana di un congegno meccanico.

Abituato, per la sua professione, a tenere sotto controllo passioni e sentimenti (l’operatore non deve partecipare all’azione, ma solo registrarla fedelmente), Serafino sceglie come narratore di indossare consapevolmente la «maschera dell’impassibilità», non per denunciare la corruzione e i difetti di una specifica realtà – come avrebbe fatto uno scrittore naturalista o verista – ma per rivelare che uno «studio senza passione» è forse l’unica vera salvezza rimasta all’individuo alienato della modernità; solo in questo modo, infatti, egli può recidere ogni legame con la falsa realtà in cui è immerso.
Il suo sguardo è freddo e distaccato, ma non ha più le prerogative del classico narratore esterno e onnisciente*, anzi è voce interna per eccellenza, e la sua conoscenza degli uomini e delle cose non gli è data a priori, per statuto narrativo, ma è una conquista della sua osservazione disincantata e della sua riflessione filosofica. Egli spia da dietro le quinte, nell’anonimato della macchina da presa, la strana mescolanza di verità e finzione che travolge gli attori (le cui vicende si sovrappongono a quelle rappresentate nel film), scopre risvolti inediti nelle esistenze che gli scorrono davanti, comprendendo sentimenti e dinamiche relazionali invisibili agli occhi degli attori stessi. Proprio perché si rifiuta di partecipare emotivamente alla vita falsa che è costretto a registrare, egli può guardarsi intorno inosservato e dipingere così ritratti grotteschi di quello che vede.

Chi aziona la manovella della macchina da presa può arrivare persino a credere, per un istante, di avere un qualche potere sugli attori (Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, rr. 64-65). Ma si tratta di un’illusione: Serafino è solo un occhio che scruta e una mano che gira una manovella (r. 93). Il suo ruolo non è indispensabile; anzi, ciò che rende umani (la ragione, i sentimenti) è ostacolo all’efficienza del suo gesto imperturbabile. Per essere impassibile, insomma, egli deve ridursi a parte meccanica di un apparecchio. Del resto è solo questione di tempo: presto, in un futuro totalmente meccanizzato, si troverà un modo per azionare la manovella automaticamente (La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere, rr. 87-90).

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Serafino non è dunque altro che un piccolo ingranaggio che contribuisce a far funzionare la neonata industria cinematografica; dall’interno egli è in grado di osservare e giudicare questo primo esempio di intrattenimento in serie, volto a distrarre (Svaghiamoci!, r. 29) e a distendere gli animi affaticati dal ritmo convulso della vita moderna. Tuttavia, il riposo che l’individuo trova nelle sale cinematografiche è fittizio, essendo gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento (rr. 25-26) da non riuscire più a godere di un minuto di raccoglimento per pensare. Invece di essere un antidoto al fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita (rr. 36-37), l’industria dello svago porta in trionfo la stupidità di personaggi finti nella loro rifulgente bellezza patinata e l’assurdità di vicende senza peso e senza significato. L’anima e la vita, ridotte in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi (rr. 110-111), vengono letteralmente divorate dalla cinepresa, imprigionate nel balenìo scintillante dello schermo, in un riflesso inafferrabile e immateriale come un sogno che non lascia memoria.

L’unico mezzo per sopravvivere all’alienazione è dunque costituito dall’atto della scrittura, che è anche una forma di vendetta per tutti coloro che sono incatenati a una macchina (Serafino è un intellettuale autodidatta che, per vivere, si adatta a fare l’operatore): Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico (rr. 91-92). La parcellizzazione del lavoro e dunque dell’individuo – nella catena di montaggio serve solo una mano, non una persona – viene denunciata e insieme riscattata: il gesto di scrivere, infatti, come un rito catartico, si compie attraverso quella stessa mano che ogni giorno è costretta a girare una manovella.

Le scelte stilistiche

L’uso del tempo presente, fin dall’inizio del romanzo, non indica alcuna contemporaneità fra storia e racconto, ma inscrive la dimensione del testo nella fredda impassibilità di un lavoro scientifico o teorico, in un presente quasi atemporale proprio della riflessione filosofica.
La prosa pirandelliana è comunque, come sempre, molto vicina alla realtà delle cose: dialoghi immaginari, monologhi, confessioni e riflessioni spezzano il discorso, scandendo un ritmo vario e incalzante, che rispecchia da vicino il pensiero tormentato della voce narrante.
A rendere lo stile ancora più concreto e vicino al reale contribuiscono gli inserti specifici del lessico cinematografico. L’attenzione minuziosa agli aspetti gergali dell’ambiente in cui si svolge la vicenda dà al lettore la sensazione di essere condotto per mano alla scoperta di un mondo nuovo. Il treppiedi a gambe rientranti su cui si colloca la macchina da presa, gli apparatori, il tappeto, la piattaforma, il lapis turchino con cui si segna il campo (rr. 49-53); e poi ancora le indicazioni tecniche sulla quantità di pellicola necessaria per girare una scena, la funzione del direttore e molti altri particolari costituiscono la materia prima di un romanzo che si può leggere anche come uno spaccato storico sul cinema nel 1915. L’intento di Pirandello, forse, è stato anche quello di dare testimonianza delle caratteristiche di un’arte ancora alle prime armi, cogliendola all’origine di un percorso che giunge fino ai nostri giorni.

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      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Quali sono le conseguenze, secondo il protagonista, di una vita che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera (r. 37)?


2 In quali termini Serafino Gubbio parla della reificazione e della produzione in serie, quando si chiede: E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? (rr. 109-110).

ANALIZZARE

3 All’inizio del brano Serafino Gubbio parla del congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie (rr. 15-16). Come si manifesta, nelle righe successive, questa frenesia della vita moderna?


4 Trova ed evidenzia il passo in cui vengono denunciate apertamente la stupidità delle macchine e la loro trasformazione da “strumenti” a “padroni” dell’uomo.


5 Cerca nel testo la frase in cui Pirandello usa la metafora del ronzio del calabrone per riferirsi al rumore che accompagna la quotidianità nel mondo moderno.

INTERPRETARE

6 Perché, nell’alienazione della civiltà moderna, gli svaghi sembrano a volte Più faticosi e complicati del lavoro (r. 30)?


7 Per quale ragione Serafino Gubbio afferma che nella sua mansione di operatore non è rimasto nulla dell’originario significato del verbo operare?

PRODURRE

8 Qual è l’atteggiamento di Serafino Gubbio – e, dietro di lui, di Pirandello – nei confronti della civiltà delle macchine che si afferma all’inizio del Novecento? Prova a spiegarlo in un testo argomentativo di 30 righe a partire da un commento alla seguente frase: La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere (rr. 87-90).


Tra realtà e finzione: la dimensione scenica

A scrivere per il teatro Pirandello arriva dopo i quarantacinque anni: non presto, dunque, benché avesse colto già da tempo come il palcoscenico fosse il luogo adatto per concretizzare e rappresentare quel conflitto tra realtà e finzione, essere e apparire, persona e personaggio che è alla base della sua poetica.
La produzione drammatica si configura infatti come uno sbocco naturale dell’arte pirandelliana, che concepisce la vita alla stregua di una grande recita, in cui ognuno mette in scena un ruolo. Non a caso Pirandello organizza la raccolta delle sue opere teatrali sotto il titolo Maschere nude: un ossimoro per evidenziare come niente riesca a occultare il groviglio di menzogne che regola la vita collettiva, neanche, appunto, quelle maschere che ognuno porta sul volto per tentare – invano – di coprire l’inganno.

Pirandello realizza per fasi successive il superamento del dramma borghese ottocentesco, dagli esordi del teatro in lingua dialettale, ancora non del tutto slegati dai moduli veristi, alla stagione grottesca, dove trovano applicazione i princìpi umoristici, fino alla trilogia metateatrale.
Con Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930) – che compongono la trilogia – l’autore porta in scena il dramma nel dramma, come se il teatro riflettesse su sé stesso. Le figure realistiche delle rappresentazioni tradizionali vengono svuotate e superate: i protagonisti sono ora gli ingredienti stessi del teatro.

I personaggi vedono così la loro stessa vita diventare teatro; per questo Pirandello ricorre all’espressione «teatro nel teatro»: non solo per segnalare che l’azione si svolge «sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro», ma anche perché vengono messi in scena tutti i «possibili conflitti» tra «personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati». Non si tratta più di semplici ammiccamenti che gli attori rivolgono al pubblico oltre il proscenio, né di commenti fuori scena che insinuano dubbi sulla tenuta della finzione rappresentata; Pirandello attua un vero e proprio sfondamento della “quarta parete”, attraversa cioè, in modo sistematico e insistente, la soglia invisibile che divide il palcoscenico dalla platea, tradizionalmente e convenzionalmente invalicabile.
A sipario alzato, senza luci speciali e scenografie, con macchinisti e operai sul palco e attori che si muovono in platea, la “magia” del teatro come artificio cade rovinosamente su sé stessa. L’intento provocatorio viene così pienamente centrato; allo sconcerto iniziale segue tra gli spettatori una riflessione profonda sul rapporto tra realtà e illusione, in un ribaltamento che disorienta, per svelare “umoristicamente” la finzione più radicale di tutte: lo spettacolo tragico e involontario della nostra esistenza quotidiana.

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Il «teatro nel teatro» denuncia l’impossibilità intrinseca di comunicare, di trasferire la propria visione del mondo agli altri, di condividere idee e giudizi, dispersi irrimediabilmente nella miriade di interpretazioni che «ciascuno a suo modo» può elaborare. È il dramma del relativismo, dal quale nascono equivoci e menzogne, delusioni e amarezze che segnano la radicale solitudine dell’individuo pirandelliano. Il Padre dei Sei personaggi in cerca d’autore si domanda infatti: «E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé […]? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!».
Nessuno può sfuggire alla condanna dell’incomunicabilità, derivante in ultima analisi dal fondamentale contrasto tra «forma» e «vita»: la coscienza vorrebbe fissarsi in un assetto stabile, trovare in esso un senso e, su quello, costruire un sistema di certezze. Ma questo significa negare l’esistenza stessa, come mostra la condizione esistenziale dei Sei personaggi: prigionieri di una maschera (il Padre, la Figliastra, la Madre e così via), essi cercano disperatamente la «vita», che però non sopporta costrizioni, non sa nulla di maschere e ruoli, di valori e sentimenti.

Anche nell’Enrico IV, sia pure in presenza di una struttura apparentemente più convenzionale, il personaggio recita, prigioniero di una «maschera» e di un ruolo all’interno di quel gioco delle parti che è la vita. Ma il suo travestimento, prima dettato dalla follia, diventa scelta definitiva e consapevole, volta a sottrarsi al flusso del tempo e a osservare dall’alto la miseria della commedia umana. La tentazione di tornare a recitare nei panni di sé stesso riaffiora insieme alla nostalgia di un amore mai sopito, ma chiudersi nel rifugio della pazzia rimane infine l’unica possibilità per non naufragare nella disgustosa e ipocrita quotidianità.

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi